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Autore: Adeia Di Elferas    15/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 Lorenzo Medici era pensieroso. Teneva tra indice e medio una brevissima lettera giunta quella mattina da Forlì e non si era ancora deciso a distruggerla.
 Il suo uomo lo informava del crescente malcontento dei loro alleati e lo spronava a decidersi per comandare l'azione e, soprattutto, a permettere un'azione decisa e violenta anche nei confronti della Contessa Riario.
 Per quanto Lorenzo comprendesse i motivi che avevano portato il suo infiltrato a scrivergli quelle parole, ancora non riusciva a decidersi.
 Negli ultimi giorni aveva avuto la conferma del fatto che Franceschetto Cybo, il suo odiatissimo genero, era riuscito nel deprecabile intento di dissipare in pochi mesi tutta la dote di Maddalena e che quindi, ormai, non aveva più nemmeno un soldo in tasca.
 La soluzione sembrava ovvia. Sollevando Forlì contro i suoi signori, Lorenzo avrebbe potuto disporre di quella città come voleva, una volta uccisi i Conti. Dopo aver usato i suoi infiltrati per ottenere il potere, gli sarebe bastato trovare una scusa e farli destituire dal papa in persona e lo stesso Innocenzo VIII avrebbe messo il suo maledetto figlio a comandare su quelle terre.
 Se un inetto come Girolamo Riario era riuscito a sopravvivere fino a quel giorno campando sulle spalle dei forlivesi, di certo ce l'avrebbe fatta anche Franceschetto.
 Ovviamente non avrebbe detto a nessuno di questa sua idea, tanto meno ai suoi alleati in Forlì. Dovevano pensare fino all'ultimo che la città sarebbe andata a loro, altrimenti non avrebbe avuto più nulla con cui comprarsi la loro lealtà.
 Lorenzo rilesse un'ultima volta le parole scritte di fretta sulla missiva e poi la stracciò e gettò i pezzetti nel fuoco.
 Prese il necessario per scrivere e, con la morte nel cuore, si disse favorevole ad assecondare i suoi complici, a patto che trovassero il modo di sollevare il popolo in modo plateale, così plateale da convincere tutta Italia della sincerità dell'odio verso i Riario.
 Quando Franceschetto Cybo sarebbe stato nominato nuovo signore di Forlì, nessuno avrebbe dovuto vederci dietro una mossa politica, ma solo un atto di generosità e filantropia.

 “Stai agendo senza ragionare, fratello!” disse Checco Orsi, guardando Ludovico che, da quando il Conte Riario si era impuntato sulla storia delle tasse da far pagare ai possidenti, aveva frequentato la corte sempre più di rado.
 “Che ci posso fare?! Appena lo vedo, mi viene voglia di prenderlo a schiaffi...!” si difese Ludovico, battendosi una mano sul petto, lasciato scoperto dalla giacca sbottonata.
 “Ma se non ti fai mai vedere, capisci anche tu che potresti insospettirlo.” proseguì Checco: “Anche se è tornato a fare la voce grossa, quello resta sempre un paranoico ignorante. Ci metterà un minuto a sospettare anche di te. L'ombra del dubbio è pericolosa quanto la certezza di colpevolezza.”
 Ludovico fece un gesto spazientito e buttò lì: “Gli dirò che sono stato malato. Non potrà certo sindacare anche sulla mia salute. Piuttosto, l'ultima volta che l'ho visto, mi ha chiesto indietro i soldi che ci ha prestato.”
 Fu la volta di Checco di alterarsi: “Ancora?! Ma che...!” poi sospirò: “Quando sarà morto, gli interesseranno meno i soldi che ci ha prestato. Comunque...”
 Ludovico guardò il fratello, che aveva stretto gli occhi e si stava massaggiando il mento. Aveva in mente qualcosa, poco ma sicuro.
 “Sai, fratello, potremmo usare questa cosa del prestito a nostro favore.” disse lentamente Checco, mostrando i denti in un ghigno sinistro.
 Ludovico si sistemò meglio sulla sedia e, versandosi un calice di vino, lo invitò a proseguire: “Dimmi che hai nella testa, fratello.”

 Caterina aveva deciso che i tempi erano maturi per scrivere a sua madre.
 Aveva aspettato a lungo che la situazione in Forlì si facesse tranquilla, ma dopo la questione degli agricoltori e i malcontenti che ne erano derivati tra i notabili della città, si era convinta che un momento di pace assoluta non ci sarebbe mai stato e la malinconia che provava nel ripensare a Milano la stava vincendo.
 Era stata molto chiara, nella sua lettera, circa le condizioni dello Stato. Aveva fatto presente a sua madre Lucrezia ogni minima difficoltà e ogni possibile rischio, non di meno le aveva chiesto con una certa insistenza, di raggiungerla al più presto, magari prima dell'estate.
 Desiderava averla al suo fianco e non le sarebbe dispiaciuto nemmeno ritrovare Bianca, la sorella che conosceva ancora così poco...
 Dopo tutto Forlì era per il momento abbastanza sotto il suo controllo. Da quando Tommaso Feo era il nuovo castellano di Ravaldino, Caterina si sentiva più tranquilla. Inoltre suo marito Girolamo aveva cominciato a seguire pedissequamente le sue istuzioni e quindi era più facile comandarlo senza ledere la sua autorevolezza di fronte ai forlivesi.
 Insomma, Caterina non poteva sperare in un equilibrio migliore per permettere a sua madre di farle visita e di conoscere finalmente i suoi sei nipoti.
 
 Checco Orsi era stato chiamato a palazzo direttamente dal Conte, anche se tutti sospettavano che fosse stata la Contessa a consigliare una simile mossa al marito.
 “Dovete all'erario ben duecento ducati e a me dovete una cifra anche maggiore.” disse Girolamo, quando rimase solo con quello che riteneva un amico.
 “Comprendo la vostra fretta nel riavere il danaro...” disse lentamente Checco, allargando le braccia: “Ma comprendete bene che non posso saldare il mio debito... Inoltre, con le tasse che ora debbo pagare, per via della vostra decisione di non far più pagare i contadini...”
 “Avete avuto molti mesi per saldare il debito personale che avete con me.” obbiettò Girolamo, ripetendo le stesse parole che Caterina gli aveva detto quella stessa mattina.
 Checco Orsi incassò il colpo e fece un secco inchino: “Datemi ancora qualche settimana, un paio di mesi al massimo, e avrete quel che vi spetta.”
 Girolamo annuì in fretta, sorpreso da quell'improvvisa dichiarazione di buona volontà e totalmente ignaro del doppio senso che la frase di Orsi nascondeva.
 “Bene, ora andate e dite a vostro fratello Ludovico che ci chiediamo ormai con insistenza che fine abbia fatto.” concluse il Conte.
 Checco Orsi sogghignò: “Non vi preoccupate, credo che mio fratello si rimetterà presto dalla sua malattia e sarà al vostro fianco prima che ve ne accorgiate.”
 
 “Ma c'è da fidarsi di questa cosa? Siete sicuri che il Medici darà a noi la città?” chiese Checco Orsi, guardando di traverso Matteo Menghi.
 Questi alzò le braccia, come a sottolineare la pensantezza dell'amico e assicurò, per la centesima volta: “Certo! Il papa dovrà pur dare Forlì a qualcuno, alla morte dei Conti. Medici ci ha assicurato che farà pressioni per proporre noi. Lui e il papa sono consuoceri, e che diamine!”
 “Bene, bene, ma mettiamo il caso che il Medici si dimentichi di noi...” insinuò Ludovico Orsi, che da qualche giorno nutriva dubbi nei confronti di chiunque: “Cosa ci mette al sicuro da un suo doppiogioco?”
 “Avremo la rocca di Ravaldino e chi ha quella, ha Forlì.” disse con semplicità Menghi, stravaccandosi sulla sedia.
 “A Ravaldino c'è Tommaso Feo, fedele alla Contessa.” ribatté Checco Orsi, scorato: “Come pensate di indurlo a tradire la sua signora e cederci la rocca?”
 Menghi si arricciò una ciocca di capelli e disse con malizia: “Quello è l'amante della strega, lo sanno tutti ormai. Minacceremo di farla a pezzi e torturarla davanti ai suoi occhi e quello ci darà la rocca senza colpo ferire.”
 “Secondo me il vero problema resta quella megera della Sforza.” scosse il capò Ludovico: “Quante congiure ci sono state negli ultimi mesi in città? E quante sono fallite? Ve lo dico io: tutte. E per colpa di chi? Di quella maledetta peripatetica!”
 “Siamo in pochi per attaccare, però.” notò Checco, contando con le dita e ignorando le parole cariche d'astio del fratello: “Ho capito che il popolo ci seguirà, ma resta il fatto che in tre non possiamo certo sperare di fare molto...”
 “Anche Pansecco sarà dei nostri e pure Ronchi.” argomentò Menghi: “Il primo non sopporta più il Conte e il secondo continua a vedersi rifiutati da Riario i soldi che gli spetterebbero di diritto per via un loro vecchio debito...”
 “Bene, anche se ancora non sono sicuro.” disse piano Checco Orsi.
 “E invece dovrete esserlo, se no...!” minacciò Menghi, alzando l'indice, ma senza finire la frase.

 Girolamo Riario era alla finestra. Benché rifuggisse ancora la confusione e l'aria aperta, aveva ripreso quell'abitudine di guardare fuori che gli era stata così cara e ne traeva un certo beneficio.
 Osservare la popolazione che andava e veniva, il mercato, la gente che entrava e usciva dalla chiesa, tutto quel lento e inesorabile movimento, lo tranquillizzava come non poco.
 In pochi facevano mostra di notarlo e lui ne era contento. Voleva spiarli senza sentirsi spiato.
 Quel giorno, mentre era assorto nei suoi pensieri, un volto tra la folla attrasse la sua attenzione.
 “Ludovico!” gridò, stupendosi per primo del suo ardire.
 Ludovico Orsi, come se avesse appena ricevuto una pugnalata tra le scapole, si voltò di scatto verso il palazzo e guardò in alto, verso la finestra a cui stava affacciato il Conte.
 “Avvicinatevi, ho da chiedervi una cosa!” vociò Girolamo, facendo segno all'amico di avvicinarsi.
 Questi lo fece, ma a passi strascicati e con gli occhi che lampeggiavano di sospetto. Perchè il Conte lo stava chiamando a sé? Non era nelle sua natura mettersi a gridar dalla finestra, attirano l'attenzione di tutti i presenti... Che sapesse qualcosa? Che avesse capito tutto?
 Ludovico Orsi si avvicinò alla guardie che stavano accanto alla porta principale e, cercando di non lasciarsi distrarre dalle lame affilate delle loro spade, domandò: “Cosa dovete chiedermi, mio signore?”
 Girolamo si appoggiò al davanzale e si parò gli occhi con la mano, per non essere troppo acciecato dal sole che filtrava tra le nuvole: “Volevo chiedervi solo come state...” disse, avendo notato una certa tensione nelle parole di Orsi: “Da qualche giorno non vi vedevo e cominciavo a stare in pena.”
 “Sto molto meglio, mio signore – rispose Orsi, sollevato – e conto di tornare presto al vostro servizio.”
 Girolamo, allora, lo lasciò andare, salutandolo con la mano. Avrebbe voluto chiedergli anche qualche notizia in più sui soldi che gli Orsi gli dovevano, ma non l'aveva fatto, in rispetto alla sua salute cagionevole.

 “Notizie da Caterina?” chiese Gian Piero Landriani, guardando la moglie, che stava leggendo la lettera appena arrivata da Forlì.
 Lucrezia annuì e terminò la lettura, prima di rispondere: “Sì, è lei che scrive. Dice che la situazione a Forlì è abbastanza stabile, ma che è certa che non lo sarà mai del tutto.”
 Gian Piero incrinò le labbra e commentò: “Povera ragazza... Non deve essere facile avere il peso di uno Stato sulle spalle...”
 Lucrezia sospirò e proseguì: “Dice anche che mi vorrebbe al suo fianco, anche se sa che non sarei del tutto al sicuro.”
 Gian Piero si sistemò sul divanetto imbottito e si fece più serio: “Intendete andare da lei?”
 Lucrezia si morse il labbro e ritornò a leggere alcune righe scritte dalla figlia. Era palese quanto Caterina la volesse al suo fianco, ma anche quanto forsse certa di non poter assicurare loro un soggiorno tranquillo.
 Lucrezia, però, voleva rivedere sua figlia. E voleva conoscere i suoi nipoti.
 “Io vorrei andare.” concluse, ripiegando la lettera: “E credo che anche Bianca vorrebbe venire con me.” aggiunse, ripensandoci.
 Gian Piero si prese un momento, poi allargò appena le braccia: “Se è quello che desiderate, allora dovete farlo. So bene quanto vostra figlia Caterina vi manchi, quindi non ho nulla in contrario, se voi siete disposta ad assumervi questo rischio.”
 Lucrezia annuì: “Sì. E se vorrete, quando sarò a Forlì da mia figlia, cercherò di capire se è possibile trasferirci da lei tutti quanti, anche voi e Piero.”
 Gian Piero aprì la bocca come per ribattere, ma Lucrezia lo fermò: “Milano non è più la città per noi, e non dovrei essere io a ricordarvelo.”
 L'uomo si zittì, ripensando a quanto tempo fosse passato dall'ultima volta in cui gli era stato permesso di andare alla corte di Ludovico Sforza e a quanto fosse difficile ormai per loro amministrare i loro beni senza avere più un'entrata fissa.
 Lucrezia gli prese una mano: “Non dovete avere paura di nulla. Andrà tutto per il meglio.”
 

   
 
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