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Autore: Blablia87    15/03/2016    10 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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“Spiegami ancora una volta come funziona.”
John Watson, posizione rigida ed alta uniforme indosso [1], si fece un passo più vicino a Sherlock, osservando accigliato la poltrona del giudice venir lambita da una piccola onda del laghetto di Kensington.
“Te l’ho già spiegato. Parla. Basterà.” Rispose il detective, lanciandogli un rapido sguardo con la coda dell’occhio.
“Tutto qui.” Ribatté il medico, poco convinto.
“Tutto qui.” Confermò Sherlock, iniziando a muoversi con passi lenti e misurati tra le varie scene del crimine.
“Procediamo con ordine.” Aggiunse poi, qualche secondo dopo, fermandosi davanti al tavolo da pranzo della prima vittima. “Marston. Alpha Minus, amministratore delegato.”
“Avvelenamento da cianuro.” Gli fece eco John, comparendo dall’altra parte della stanza.
Sherlock annuì, recuperando il foglio bloccato sotto il bicchiere accanto alla testa dell’uomo.
“Sette e otto e nove.” Lo precedette John, e lui rimase per un attimo immobile, intento a guardare il viso del medico illuminarsi sotto la luce di un sorriso soddisfatto.
“Sì.” Disse quindi, con voce distratta, scuotendosi ed appallottolando la carta fino a farla sparire tra le dita.
“Questo è strano, non trovi?” John mise una mano nella tasca dei pantaloni, estraendo il foglio che Sherlock aveva appena fatto sparire.
“Cosa, esattamente?” Gli domandò il detective, guardandolo muovere gli occhi tra le righe dalle poesia.
“Sette, otto e nove. Un modo bizzarro di cominciare una conta.” Rispose il medico, alzando gli occhi su di lui. “No?”
Sherlock annuì, distogliendo lo sguardo dall’altro con una certa fatica. Con le mani dietro la schiena si voltò verso destra, diretto alla camera da letto della seconda vittima.
“Evidentemente era per lui necessario che ci arrivasse prima quell’informazione.” Commentò, spostando assorto la scatola dei sonniferi sul comodino con la punta delle dita.
“Quale informazione, esattamente?” Domandò John, raggiungendolo.
“Che il buio è in ogni luogo…” Sherlock aggirò il letto ed attraversò il vetro che separava la stanza dalla cucina.
“O che la luce sarà fatale per chi indaga.” Aggiunse il medico, comparendo alle spalle della sagoma del Beta che li aveva attaccati nel vicolo.
“Molly Rogers, Omega Plus.” Continuò Sherlock, senza dar segno di averlo sentito.
“Casalinga, overdose di narcotici. Uno, due, tre e quattro.” John si voltò verso la parete della cucina, osservando con interesse una goccia di vernice scendere lenta, fino ad adagiarsi sui fornelli.
Una folata di vento improvviso, alto, pungente, fece ondeggiare le tende della camera da letto affianco a loro e - poco distante - la tovaglia della sala da pranzo, che alzandosi scoprì le gambe del Signor Marston.
Sherlock fece un mezzo giro su se stesso, alzando il bavero del cappotto che solo in quel momento gli era apparso attorno. John, avvolto da una copia quasi perfetta del Belstaff Milford del detective, si ritrovò con i piedi nell’acqua, ed osservò incuriosito la superficie del lago aprirsi attorno alla stoffa pesante dei suoi pantaloni.
“Scusa.” Disse Sherlock, chinandosi sul cadavere riverso sulla riva.
“Di cosa?” Domandò il medico, perplesso.
“Sei finito in acqua.” Spiegò il detective, sbrigativo.
“Bene.” John adesso di fianco a Sherlock, si inginocchiò a sua volta sul corpo. “Scusa… Cosa?!” Aggiunse poi, girandosi verso l’altro con espressione confusa.
 “Niente di cui preoccuparsi. Ho per errore fatto materializzare la tua immagine mentale nel lago. Vogliamo andare avanti, adesso?” Il detective, sbuffando, tornò in posizione eretta.
“Aspetta un attimo… hai una mia immagine mentale lì dentro?!” John, adesso indosso solo un paio di jeans ed un maglione, si alzò, impacciato. “Davvero?” Domandò poi, con voce più bassa, sollevando la testa per riuscire a guardare l’altro negli occhi.
“Perché pensi ti abbia chiesto di parlare mentre io mi concentravo, steso sul divano, ad occhi chiusi?” Il detective alzò gli occhi al cielo, mentre John continuava a fissarlo.
“E… com’è?” Chiese quindi il medico, arrossendo. Il detective corrucciò la fronte, confuso. Perché aveva immaginato John fare una cosa simile?
“Non capisco.” Rispose, secco, tornando a concentrarsi sul cadavere ai loro piedi.
“Come mi immagini, intendo.” Specificò l’altro, e Sherlock gli lanciò un’occhiata veloce, trovandolo nuovamente in uniforme, schiena dritta e sguardo fiero.
“Come dovrei immaginarti, per l’amor del cielo? Come sei. Né più né meno.” Mentì, osservando con fastidio il medico inclinare la testa ed assumere un’espressione ironica.
Esattamente come sei.” Ripeté lui, con ancor più convinzione. “Adesso torniamo al caso, se non ti spiace.” Un paio di luci, forti, illuminarono la scena, isolando il corpo in un alone bianco che cancellò tutto il resto. “Rogers, impiegato di banca.” Cominciò, aspettando che John continuasse per lui l’elenco dei dati in loro possesso per quella scena del crimine.
“Beta, ripetuti colpi di accetta alla testa. Tre e quattro e cinque e-“
“Sei.” Terminarono, assieme.
Le luci si spensero, e per un attimo fu tutto completamente buio. [2]
Sherlock sentì la spalla di John premere contro la sua, ed il dorso delle loro mani sfiorarsi appena.
Il tempo di un battito di ciglia, e una piccola lampada da pavimento si accese, illuminando due poltrone, affiancate.
“Sherlock?” Si sentì chiamare.
“Sì, ci sono. Mi ero solo… distratto.” Il detective si voltò a guardare John, immobile e serio, avvicinandosi intanto a passi veloci alla prima vittima.
“Emily Brent, Beta Plus, impiegata di banca. Sei, sette, otto e nove.” Disse, facendo un giro intorno alla poltrona e fermandosi dietro alla sua spalliera. “Iniezione di acido cianidrico.”
“Non immediatamente letale, a quanto mi hai detto.” Aggiunse il medico, togliendosi il cappotto e lasciandolo cadere a terra, dove scomparve lentamente.
“Esatto. Ed infine…” Sherlock mosse un paio di passi alla sua destra, fino a trovarsi alle spalle di un’altra vittima.
“Il giudice Wargrave.” Terminò per lui John, seguendolo nell’altra stanza. “Alpha Plus, Corte Penale di Londra. Colpo di arma da fuoco autoinflitto. Di nuovo uno, due e tre.”
Sherlock annuì. Batté un paio di volte le mani, e i due si trovarono circondati da uno spazio completamente bianco.
“Ricapitoliamo.” Chiese quindi il detective chinandosi sul pavimento candido, tanto chiaro da apparire luminoso.
“Marston, Rogers, di nuovo Rogers, Brent ed infine il giudice Wargrave.” Elencò, mentre i loro nomi comparivano uno sotto l’altro ai suoi piedi, lettere nere in un mare niveo.
“Alpha, Omega, Beta, nuovamente Beta ed ancora Alpha.” Disse a sua volta il medico, mentre ogni Determinazione prendeva forma accanto al nome al quale era collegata.
“Due Rogers.” Mormorò Sherlock, socchiudendo gli occhi. Aveva l’impressione che quel particolare gli ricordasse qualcosa… ma non riusciva a mettere a fuoco in modo chiaro cosa fosse.
“E due Alpha, come due Beta. Un solo Omega.” Aggiunse John, con voce incerta. “Ha senso, per te?”
“Ne ha per lui… Quindi ne ha per me.” Gli rispose il detective, distrattamente, muovendo gli occhi tra un nome e l’altro.
“Ho visto il tuo Omega, S. È interessante.” Una voce allegra - alle sue spalle - lo colse di sorpresa, e Sherlock si voltò di scatto, cercando John con gli occhi. Al posto del medico, intento a guardare con aria divertita l’uniforme che aveva addosso, Victor Trevor proruppe in un lungo fischio ammirato. “Accidenti, mi dona questa cosa!”
“Non ho tempo per questo, adesso.” Ringhiò il detective, muovendo la mano in segno di fastidio. “Sparisci.”
Victor si guardò intorno, con aria preoccupata. Incassò la testa nelle spalle, e chiuse gli occhi, come in attesa di un colpo.
“Pare invece che tu mi voglia qui!” Disse dopo qualche secondo, divertito, quando si accorse che non era accaduto niente.
“Io non ti voglio, né qui né in nessun posto.” Sherlock, occhi scuri e denti scoperti, lasciò scivolare le parole attraverso un ringhio gutturale.
“Eppure sono qui.” Fu la risposta – semplice - dell’altro, che alzò le spalle con noncuranza, aprendosi in un sorriso. “Perché sono qui, S.?” Domandò quindi, lanciando un’occhiata ai nomi scritti sul pavimento.
“Perché sei venuto a casa nostra, ecco perché.” Sherlock serrò violentemente i pugni, facendo uscire con forza l’aria dal naso in respiri corti e affannosi.
“Tu dici?” Rispose Victor, portandosi l’indice sinistro alle labbra. “Mi sembri agitato, S. Forse è per questo che pensi a me solo dopo aver assunto una buona dose di Soma e ti sforzi di dimenticare ogni cosa che mi riguardi?”
“Sherlock?” La voce di John, lontana, si sparse nell’aria, scomparendo.
Victor alzò la testa, guardandosi attorno. “La cena è servita!” Disse poi, sorridendo, tornando ad osservare il detective.
Sherlock sentì il pavimento smottare sotto i suoi piedi, ed allargò le gambe per non perdere l’equilibrio.
“Sherlock!” La voce del medico - ovattata - si scheggiò, cadendo a terra sotto forma di prismi aguzzi.
“Buon appetito.” Disse Victor, facendo schioccare la lingua, il viso contorto in una maschera di derisione.
Un velo rosso di pura ira appannò gli occhi del detective - ingoiando ogni traccia di raziocinio - e Sherlock scattò in avanti,  cieco di rabbia.
 
Ci fu uno schianto, poi il rumore di vetri rotti.
Infine, la scia.
Quella di John, alta, affilata, carica di terrore.
Sherlock la respirò a pieni polmoni, sentendola frizionare lungo la gola, aggrapparsi agli angoli dei suoi occhi, della sua bocca.
“Sher…” Rantolò il medico, cercando di inserire due dita tra la propria gola e le mani del detective, premute con forza sotto il suo mento.
“Avvicinati un'altra volta a noi…” Gli ringhiò in faccia Sherlock, così vicino da far mischiare i loro respiri creandone uno, unico, carico della sua rabbia e della paura del medico.
“Sherl…” Provò di nuovo John, cercando di muoversi, ma il peso del detective lo spingeva con forza contro il pavimento.
Non voleva respirare l’odore dell’altro, perché la risposta ad uno stimolo così forte sarebbe stata quella di completo asservimento, cosa che in quel frangente sarebbe potuta essergli fatale. Allo stesso tempo aveva la necessità, il bisogno, di incamerare almeno un po’ di ossigeno, o avrebbe finito col soccombere comunque.
Ad ogni modo Sherlock non stava provando a morderlo, si rese conto dopo qualche attimo. La  testa del detective era praticamente sopra la sua, tanto da far sfiorare le loro fronti. Non era stato quindi il suo avvicinarsi al divano, dopo un paio di tentativi falliti di chiamarlo, ad aver fatto scattare la frenesia che vedeva chiaramente negli occhi neri e vuoti dell’altro.
John rovesciò indietro la testa, tentando di aprire il più possibile le vie aeree.
Staccò le mani da quelle di Sherlock, appoggiando la destra al braccio del detective mentre con l’altra saliva fino a sfiorargli il viso.
Gli appoggiò l’indice ed il medio sulla guancia, premendo appena.
Cercò poi di calmarsi, provando ad abbassare la propria scia su segnali meno pericolosi.
L’aria filtrava a fatica attraverso la bocca socchiusa, ma provò comunque a rilassarsi.
Sentì il peso di Sherlock farsi più forte contro il proprio petto, mentre lasciava che i muscoli allentassero la loro tensione.
“Ehi.” Lo chiamò, ottenendo il cambio un ringhio sommesso. “Sherlock. John.” Riuscì a dire, ingoiando la scia dell’altro ed insieme a lei l’istinto di lasciar andare tutto.
Il detective si bloccò appena, sbattendo un paio di volte gli occhi.
“Ehi.” Sussurrò di nuovo, osservando il detective rispondere al richiamo con brevi movimenti oculari. Per un attimo i loro occhi si incrociarono, ed il medico ebbe la sensazione che dietro tutto quel buio Sherlock riuscisse di nuovo a riconoscere qualcosa.
Ad ogni battito di ciglia, John vide le iridi dell’altro farsi più chiare, il suo sguardo più presente. Gli occhi virarono al marrone, poi ad un verde scuro, paludoso, infine al loro consueto colore.
Quando - con l’ultimo chiusura delle palpebre - Sherlock tornò lucido, fu per lui come riuscire a respirare nuovamente dopo una lunga apnea.
Un’enorme quantità di informazioni sensoriali esplosero nella sua testa e si guardò attorno spaesato, prima di riuscire a mettere a fuoco John, viso rosso ed occhi lucidi, premuto da tutto il suo peso contro il pavimento, tra il tavolino rovesciato e le schegge di vetro dei loro bicchieri infranti.
“Cosa…” Balbettò, lasciando andare la presa attorno al collo del medico e spostandosi di lato, incurante dei vetri che gli ferivano le mani mentre, con gesti strascicati, si spingeva a sedere più lontano possibile dall’altro.
John rotolò sul fianco, riuscendo finalmente a prendere una buona boccata di ossigeno. I polmoni bruciavano, così come occhi e gola. Tremante, si tirò su, puntellandosi sui gomiti per cercare di raggiungere la posizione seduta.
La scia di Sherlock, un misto di terrore e agitazione, lo travolse, riempiendogli naso e bocca.
A fatica, spostò il peso sul gomito destro, girandosi quel tanto da riuscire a guardare il detective.
Sherlock, occhi spalancati e respiro strozzato, lo stava fissando espressione atterrita.
Mai, da quando lo aveva conosciuto, aveva immaginato che qualcosa potesse spaventarlo a tal punto ed ora, osservandolo premersi con le gambe contro la seduta del divano, gli sembrò che non fosse nemmeno lui.
C’era qualcosa, in quello sguardo, che lo spinse a chiamarlo, nonostante il cuore continuasse a martellargli nel petto e sentisse ancora la pressione delle sue dita attorno alla gola.
“Sherlock.” Sussurrò, senza nessuna inflessione nella voce. Non era una domanda, né un monito, o un’accusa. Era il suo nome, sospeso tra di loro come una corda che poteva spezzarsi come stringersi tanto da avvicinarli, o al punto da strozzarli.
Il detective, il respiro ridotto ad una serie di singhiozzi scomposti, provò a guardare John negli occhi, scoprendo di non riuscire a farlo.
Aveva rischiato di fargli male, molto, e sapeva che avrebbe potuto non rendersene conto fino a quando non fosse stato ormai troppo tardi.
Ogni cellula del suo corpo, come quella di ogni Alpha, era nata con un’inclinazione alla violenza, alla furia più sorda.
Per questo aveva sempre tenuto a distanza chiunque potesse avere su di lui la capacità di azzerare la sua volontà e, per lo stesso motivo, non riusciva a pensare ad altro in quel momento che ad allontanarsi il più possibile da lì.
Aveva bisogno di capire cosa fosse successo.
Come fosse passato dal ringhiare ad un Victor parto della propria mente al tenere con tutte le forze John schiacciato contro il pavimento.
Aveva bisogno di aria, di acqua.
Aveva bisogno che John se ne andasse, gli urlasse contro, uscisse di casa.
I sensi di colpa non erano mai stati qualcosa alla quale aveva dato peso, ma adesso sentiva l’impulso di espiare le proprie colpe, nonostante non riuscisse a capire perché le avesse compiute e perché avessero su di lui presa tale.
La scia di Sherlock mutò, si abbassò, poi crebbe e virò di intensità, un diverso sentore per ogni pensiero che gli stava attraversando la mente.
John lo osservò muovere gli occhi -  perso - davanti a sé, in cerca di una spiegazione razionale che non riusciva a raggiungere.
Quello sguardo richiamò al medico un altro, simile, visto molti anni prima.
Non apparteneva ad un Alpha, ma ad un Omega. Un ragazzo, chino con le lacrime agli occhi su un’immagine di sé che non riconosceva.
Si rivide in lui, nella sua paura di essersi perso. Riconobbe in quel silenzio piegato su se stesso la disperazione di chi sta cercando un motivo.
Sherlock chiuse gli occhi, pronto a darsi una spinta per mettersi in piedi e sparire oltre la porta della propria camera.
A metà del movimento, si sentì afferrare per la manica della camicia e spingere indietro.
Aprì gli occhi, confuso, lasciandosi cadere con le spalle contro la seduta del divano.
John lasciò andare la presa, e si sedette accanto a lui, spalla contro spalla.
Per qualche secondo rimasero immobili, ognuno con il proprio respiro scoordinato e il proprio odore come unico mezzo di dialogo.
Alla fine fu Sherlock a girarsi verso John, continuando comunque a tenere gli occhi lontano da quello dell’altro.
“Non capisco.” Ammise, sentendo le parole prendere faticosamente forma sotto i movimenti impacciati della propria lingua. Non era del tutto sicuro di averne mai pronunciate di tanto sincere, prima di allora, e quel pensiero si frazionò in mille altri, troppi, per prendere forma compiuta.
“Va tutto bene.” Sussurrò il medico, lasciando andare all’indietro la testa contro il cuscino del divano. “Davvero.” Aggiunse, voltandosi verso di lui. “Parlami. Spiega.”
Sherlock scosse la testa, incapace di trovare le parole adatte a raccontare quanto fosse successo. Bloccato. Non abituato a chiedere scusa. A sentire di doverlo fare.
“Ok.” John scostò con i piedi il tavolino, allungando le gambe. “Allora fa’ comunque una cosa per me. Vuoi?” Chiese, aspettando in silenzio che l’altro annuisse, lento.
“Resta.”
 
***
 
Thomas Raffles - Beta Minus, addetto alla pulizia vetri dello Zoo di Londra – timbrò il cartellino, trattenendo uno sbadiglio con il dorso della mano.
Lanciò un’occhiata all’orologio all’ingresso dell’aria dipendenti, osservando la lancetta dei minuti spostarsi sul 12 con un movimento secco. Le cinque di mattina in punto.
Si cambiò con calma, solo nello spogliatoio, una piccola radio portatile ed il suo suono metallico come unica compagnia.
Chiuse la tuta da lavoro ed infilò gli stivali di gomma.
Bloccò la radiolina alla cintura dei pantaloni, e si diresse verso la stanza dell’attrezzatura.
Prese il carrello delle pulizie e si avviò lungo il corridoio, in direzione della struttura di esposizione marina.
Con calma ed attenzione pulì ogni vetro dell’Acquario, passando poi alla zona degli animali tropicali.
Una volta finito uscì dal complesso, incamminandosi verso l’enorme area degli animali polari.
Le vasche, in quella zona, erano state create per una doppia fruizione da parte del pubblico: le si poteva osservare dall’alto, esternamente, dove erano state ricreate delle zone di terraferma sulle quali gli animali potevano fermarsi e riposare, e dal basso, scendendo in un piano interrato, in modo da poterli vedere nei loro momenti di attività acquatica.
Come ogni mattina, Raffles scese le scale che conducevano alla zona visitatori con passo allegro.
Adorava la vasca degli orsi polari, la più grande di tutte. Circolare, era visibile all’interno per circa la metà del suo diametro, attraverso un enorme vetrata. Iceberg imponenti erano stati riprodotti con cura, e li si poteva scorgere in tutta la loro bellezza subacquea. Volendo, si poteva seguire il loro profilo fino alla superficie, salendo attraverso una rampa di scale fino ad una piattaforma rialzata che aggettava sulla vasca.
Era raro, a quell’ora, trovare gli orsi in acqua. Ciò nonostante, c’erano state mattine nelle quali aveva pulito accompagnato dallo sguardo attento e curioso di quelle bestie maestose.
La prima cosa che notò, non appena il metallo della vasca lasciò il passo alla parte trasparente, fu il rosso.
Le striature di rosso che ballavano nell’acqua, quasi fossero piccoli animali intenti a muoversi in branco.
L’uomo appoggiò una mano al vetro, lasciando cadere a terra gli strumenti. Continuando a premere il palmo contro la superficie fredda, iniziò a muoversi lungo la vasca.
La seconda cosa che vide, poco dopo, fu la scritta.
Nera, chiara, spiccava contro il candore dell’acqua ed il purpureo di quelle macchie che vi si agitavano dentro ad ogni suo movimento.
 
Quattro, cinque e sei,
dì qualcosa se ci sei!
 
Tocca a Sherlock. [3]
 
“Ma che diavolo…” Imprecò a mezza voce, aggrottando la fronte. “Che scherzo idiota!” Aggiunse, guardandosi intorno.
“C’è qualcuno?!” Urlò poi, ricevendo in risposta solo l’eco della propria voce, prima di tornare a voltarsi verso la vasca.
Fu allora che lo vide. L’uomo. Il corpo.
Tenuto ancorato al fondo da un peso, una corda stretta attorno alla caviglia destra.
Emerse da dietro la scritta, come se prima le lettere lo avessero reso opaco, sfocato.
Sembrava osservarlo con aria di rimprovero, gli occhi spalancati immobili e vuoti, la bocca socchiusa in un espressione sorpresa.
“Cristo!” Esalò Raffles, chinandosi in avanti e appoggiandosi con le mani al vetro.
L’uomo nella vasca, busto nudo trafitto da varie ferite ed capelli ondeggianti attorno al viso, dondolò avanti e indietro con forza, mentre l’acqua si increspava ed alzava, lasciando spazio all’enorme maschio di orso polare che si era appena lasciato cadere al suo interno.
L’addetto osservò con orrore l’animale muoversi verso il corpo con grosse bracciate.
Quando gli fu sufficientemente vicino, con il muso gli toccò un fianco, facendo uscire altro sangue dalle ferite, che andò a sommarsi alle altre striature rosse presenti.
“Dio, dio, dio…” Raffles cadde all’indietro mentre l’orso, con una zampata, apriva nuovi squarci nella carne dell’uomo.
Con un gesto disperato, l’addetto riuscì a mettersi in piedi, inciampando un paio di volte mentre correva in direzione del più vicino segnalatore di pericolo, di fianco alla gabbia dei leoni.
Ruppe il vetro con un pugno, ignorando il dolore ed i tagli, ed abbassò la leva con le ultime forze rimaste, prima di sentire le gambe cedere del tutto e di accasciarsi a terra, tremante.
La sirena iniziò a suonare, accolta con agitazione dagli animali.
Il silenzio venne riempito da ogni forma di verso e rumore, che si unirono al suono assordante dell’allarme.
Dopo circa trenta secondi, una delle guardie notturne arrivò correndo.
“Che succede?!” Domandò, chinandosi sull’uomo.
Raffles, incapace di raccontare l’orrore, riuscì solo ad alzare un dito in direzione della vasca.
Il poliziotto si portò la ricetrasmittente fissata alla spallina della giacca alla bocca, chiedendo rinforzi. Poi, pistola ben ferma tra le mani, si avviò con passo attento verso il luogo che gli era stato indicato.
 
Circa venti minuti dopo, Lestrade – sveglio da poco, pronto per la sua abituale doccia mattutina - venne raggiunto dalla telefonata concitata di uno dei suoi uomini del turno di notte.
Meno di un’ora più tardi l’Ispettore, con quattro dei migliori poliziotti della sua divisione, suonò il campanello di Backer Street.
 
***
 
“Non se ne parla.” Sherlock si lasciò cadere sulla poltrona, incrociando le braccia contro il busto.
“Avanti, cosa mai può accadermi?” John, vestaglia ben chiusa sul pigiama scuro, guardò il detective e poi Lestrade, immobile sulla porta dell’appartamento.
“Vediamo… potresti morire, ad esempio. O venire rapito. O, per quanto la cosa potesse apparirmi assurda ed altamente improbabile fino a pochi minuti fa, finire in una vasca dello zoo di Londra legato ad un piombino.” Elencò il detective, agitando le mani davanti a sé.
“Sarà con due dei miei uomini migliori.” Tentò ancora l’Ispettore, ricevendo in cambio un’occhiata di derisione.
“I tuoi uomini migliori.” Ripeté Sherlock, arricciando le labbra in un sorriso. “Considerando che ti ho sentito affermare più volte che Donovan e Anderson sono due persone competenti… Forse l’opzione “mangime per animali” non è neanche da considerarsi la peggiore.”
“Sherlock.” Lo richiamò John, con tono ammonitorio.
“Ancora non ho capito perché l’autopsia non possa farla Stamford.” Disse il detective, voltandosi verso John, immobile accanto a Lestrade, e socchiudendo gli occhi.
“Perché domani si sposa, Sherlock.” Spiegò per l’ennesima volta l’Ispettore, portandosi due dita all’attaccatura del naso.
“È la seconda volta che lo dici. Quello che non capisco è cosa gli impedisca di lavorare oggi, dato che si sposa domani.” Cercò di spiegare Sherlock, alzando gli occhi al cielo ed assumendo il tono di voce di un adulto intento a spiegare qualcosa ad un bambino piccolo.
“Perché si sposano nella città natale di lei, a trecento chilometri da qui.” Sospirò John, cercando di non perdere la pazienza.
“Sono partiti tre ore fa.” Aggiunse Lestrade, cercando di calmarsi.
“Non mi interessa, troppo pericoloso. Trova qualcun altro.” Sherlock si voltò verso in caminetto, accavallando le gambe. La discussione per lui era conclusa.
“Bene. Se è questo che pensi…” John si diresse alla porta, superando l’Ispettore. “Greg, il tempo di cambiarmi e possiamo andare.” Gli disse, avviandosi verso il piano di sopra.
“Cosa credi di fare?!” Gli urlò dietro Sherlock, incapace di nascondere del tutto il tono ansioso che permeava la domanda.
“Niente di straordinario.” Urlò John a sua volta, e la sua voce riecheggiò lungo le scale.
“Solo il mio lavoro. Adesso preparati e va’ a fare il tuo!” Terminò, aprendo la porta della sua camera e richiudendosela alle spalle.
“Lo farai ammazzare.” Sibilò Sherlock, serio, voltandosi verso Lestrade.
“Sto cercando di fare in modo che a nessuno di voi due succeda niente.” Rispose l’Ispettore, calmo, avvicinandosi all’altro.
“Bene, allora dirotta anche gli sforzi che stai facendo per me su di lui. Non mi servono due agenti di guardia. Mandali tutti e quattro al Bart’s con John.” Sherlock si alzò dalla poltrona, diretto verso la sua camera.
“Non posso.” Rispose Lestrade, seguendolo con gli occhi.
“Certo che puoi. Fino a prova contraria sei tu a dare ordini. Ed io e te siamo più che sufficienti su una scena del crimine.” Lo rimbeccò il detective, con tono sbrigativo.
“Per una volta, una, Sherlock, potresti semplicemente fidarti di me?” L’ispettore sospirò, lento. “Non sai ancora tutto e… credimi, quegli agenti servono anche a te.” Aggiunse, abbassando il tono di voce.
“All’obitorio, due dentro la stanza con lui e due fuori, a monitorare il corridoio. Queste sono le mie condizioni. Non ne accetterò altre.”
“Dio.” Lestrade lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Non avrei mai pensato di vederti un giorno contrattare per la sicurezza di un’altra persona. Giuro.”
Sherlock lo guardò appena, accennando un sorriso e tornando a voltarsi verso la sua camera da letto. “Affare fatto?” Chiese quindi, rimanendo immobile, in attesa di una risposta.
“Qualcuno l’ha mai spuntata, con te?” Domandò l’Ispettore, scuotendo la testa.
“Lo prendo con un “sì”.” Sentenziò Sherlock, iniziando a muoversi.
“Ad ogni modo… sì, qualcuno l’ha spuntata con me.” Gli rispose, prima di sparire oltre la porta della sua stanza.
“Dev’essere davvero straordinario, per essere riuscito a farti fare qualcosa contro la tua volontà!” Gli gridò dietro Lestrade, prima di andarsi a sedere sul divano, sconsolato, in attesa che i due si preparassero.
Sherlock, fermo oltre la porta, chiuse gli occhi, tornando per un attimo al pomeriggio del giorno prima.
“Resta.” Gli aveva detto John, senza alcun timore nella voce.
E lui era rimasto. Loro, erano rimasti. Vicini, in silenzio, fino a quando la fame e la stanchezza non si erano fatte troppo forti, costringendoli a staccarsi, a tornare al mondo.
Ad un certo punto non c’era più stato neanche lo stimolo olfattivo. Si erano mescolati, ed azzerati. I pieni ed i vuoti del loro odore uniti, appianati.
Sì, qualcuno l’aveva avuta vinta, con lui. Gli aveva chiesto di restare. E lui lo aveva fatto.
 
***
 
“Videocamere?” Domandò Sherlock, passando un dito sul suo nome, distratto.
“Gli apparecchi erano accesi, ma su i nastri non è stato registrato nulla. Secondo i nostri tecnici ha disattivato l’intero circuito. A distanza, probabilmente, dato che i pannelli si trovano nel gabbiotto della sicurezza e le guardie notturne non si sono accorte di niente.”
Lestrade, appoggiato alla parete del lungo anello attorno alla vasca, rilesse ancora una volta il messaggio, sentendo un brivido salire lungo la schiena.
“Tocca a Sherlock.” Sillabò, a voce alta. “Hai capito adesso perché volevo degli agenti anche per te?” Chiese poi, sospirando.
“Sarebbero stati inutili. Non è una minaccia.” Commentò il detective, indietreggiando di un passo per guardare la scritta nel suo insieme.
“Certo, come potrebbe esserlo. D’altro canto c’era solo un uomo morto ancorato al fondo della vasca…” Sospirò l’altro, alzando gli occhi al cielo.
“No, Lestrade. Non è una minaccia, è un invito.” Ribadì Sherlock, iniziando a muoversi verso le scale, diretto alla zona rialzata.
“Un invito?” Ripeté l’Ispettore, confuso.
“Ha finito il suo lavoro, per adesso. Ora tocca a me.” Gli spiegò il detective, salendo a due a due i gradini. “Sta a me muovere. È una partita a scacchi, e lui ha messo in pausa l’orologio.” Terminò, arrivando al ballatoio e sporgendosi in avanti sul parapetto.
“Dì qualcosa se ci sei.” Canticchiò il detective, osservando lo specchio d’acqua sotto di loro.
“Non avrai intenzione di giocare con questo folle, vero?” Chiese Lestrade, affacciandosi a sua volta.
“Direi che non posso tirarmi indietro, dato che la mia presenza è stata espressamente richiesta.” Rispose Sherlock, iniziando a muovere gli occhi lungo i bordi dei finti iceberg.
“Come caleresti un uomo in un posto del genere?” Domandò l’Ispettore, guardandosi attorno.
“Nel modo più semplice.” Gli rispose l’altro, mimando di sollevare un peso oltre il parapetto. “Lo butterei di sotto. Il peso legato alla caviglia ha fatto tutto il lavoro, non lui. Sempre poi che non l’abbia fatto fare ad uno dei suoi uomini…” Terminò, abbassando lo sguardo sulla griglia del parapetto, in cerca di eventuali indizi.
“Uomini? Non mi pare avessimo mai parlato di uomini.” Lestrade, a sua volta, seguì Sherlock nella sua opera di ricerca.
“Ah, sì. Ci sono degli uomini. Beta. Li ha usati in almeno due casi: per la scritta in casa di Molly Rogers, e per l’iniezione a John.” Buttò lì il detective, con noncuranza.
“Cosa?!” Lestrade tornò in posizione eretta, assumendo un’espressione sconvolta. “Quando, esattamente, avevate intenzione di dirmelo?!”
“Quando sarebbe stato utile. Non che adesso lo sia, chiaramente.” Rispose Sherlock, con voce tranquilla. “Sono burattini, semplici esecutori.” Aggiunse, iniziando a camminare lungo il ballatoio.
“Meraviglioso. Perché preoccuparsi di arrestarli, allora. Hai ragione.” Sbuffò l’Ispettore, scuotendo la testa.
“Catturare pesci rossi mentre uno squalo minaccia i bagnanti è ridicolo. Uno spreco di energie.” Commentò il detective, serafico.
“No, se i pesci rossi stanno aiutando lo squalo a nascondersi!” Ringhiò l’altro, in risposta.
“I pesci rossi sono quello che sono, Lestrade, niente di più. Piccoli. Inutili. Servono solo a rendere meno chiare le increspature dell’acqua con il loro movimento. E verranno sbranati a loro volta non appena divenuti inutilizzabili. Non darti pena per loro, probabilmente sono già morti.”
Sherlock tornò indietro, superando l’Ispettore, diretto alle scale.
“Magnifico. Altri cadaveri.” Sospirò l’uomo, seguendo il detective al piano di sotto. “Qual è il piano, adesso?” Domandò quindi, quando furono nuovamente davanti alla scritta.
“Andare al Bart’s per avere i risultati dell’autopsia.” Rispose distrattamente  Sherlock, estraendo il cellulare.
“Per quello basta una telefonata.” Lestrade prese a sua volta il telefono, in cerca del contatto di John.
“No.” Rispose Sherlock, secco, scattando una foto alla vasca. “Qui abbiamo finito. Andiamo all’obitorio.”
“Lo sai che non è possibile entrare nella camera mortuaria, fino a quando John sta lavorando, vero?” Lestrade, rassegnato, seguì il detective oltre la porta di uscita della struttura.
“Certo.” Confermò l’altro, lanciandogli un’occhiata che sottolineava l’ovvietà della risposta.
“Quindi cosa avresti intenzione di fare, per tutta la durata dell’esame autoptico?”
“Niente di particolare.” Sherlock alzò il bavero del cappotto e si chinò leggermente in avanti, i capelli spinti contro fronte ed occhi dal vento forte che nel frattempo si era alzato. “Controllare che i tuoi uomini svolgano al meglio il proprio incarico.” Terminò, senza aggiungere altro.
I due camminarono in silenzio fino alla macchina.
“Dovresti dirglielo, sai?” Tossicchiò Lestrade, aprendo lo sportello.
“Ti pregherei di essere più specifico, nelle tue affermazioni.” Rispose l’altro, salendo.
“A John. Dovresti dirgli che ci tieni a lui.” Soffiò fuori tutto insieme l’Ispettore, mettendo in moto e mantenendo lo sguardo ostinatamente rivolto al parabrezza.
Sherlock si voltò a guardarlo con aria oltraggiata.
“Che assurdità stai dicendo?!” Rispose, la voce più alta di quanto avrebbe voluto.
“Dio, come fai a non capirlo? È talmente ovvio!” Lestrade si immise nella carreggiata, accendendo la sirena.
“Ovvio perché sono un Alpha e lui un Omega?” Disse l’altro, alzando gli occhi al cielo.
“No, ovvio perché tu sei Sherlock Holmes, l’uomo più indisponente che abbia mai conosciuto in vita mia, e lui è John Watson, il più incredibile che abbia avuto la fortuna di poter chiamare amico. E che Dio mi aiuti – l’Ispettore scosse la testa, accennando un sorriso sconsolato – ma penso che sareste perfetti, assieme.”
“Non essere assurdo.” Sherlock si voltò verso il proprio finestrino, irritato.
“Non essere testardo.” Lo rimbeccò Lestrade, per poi rimanere in silenzio.
“I Legami sono inutili.” Specificò il detective, continuando a seguire con gli occhi i palazzi susseguirsi lungo la strada.
“E chi ha parlato di Legame.” Sorrise l’altro, svoltando. “Non penso proprio che John permetterebbe a qualcuno di affondare i denti nel suo collo. Ma - aggiunse, immettendosi in un incrocio dopo aver controllato che le macchine si fossero fermate udendo la sirena – penso che potrebbe accettare l’idea di rimanere a Baker Street anche una volta finito tutto questo.”
“Fra meno di tre settimane andrà in Calore, Lestrade. Non potrà rimanere comunque.” Specificò Sherlock, sentendo una morsa fredda e vibrante stringergli il petto.
“Tu vuoi che se ne vada?” Chiese l’Ispettore, lanciandogli uno sguardo veloce con la coda dell’occhio.
Sherlock rimase immobile, mani appoggiate sulle gambe e viso al finestrino, in silenzio.
“Non ci sarà mai nessuno come lui, lo sai?” Tentò ancora Lestrade, timidamente.
Il detective annuì appena, un leggero movimento della testa che si confuse con quelli della macchina.
 
***
 
John, spogliato il corpo dei pantaloni e della biancheria, cercò tracce di fibre ed altro, non trovandone. L’acqua della vasca aveva dissolto, lavato od azzerato ogni traccia, biologica o meno.
Il medico lavò comunque con la pompa l’uomo, lentamente, rispettosamente, aspettando che i fori nel lettino drenassero il liquido.
Prelevò le impronte, campioni di sangue e saliva, ed infine accese il registratore, iniziando l’esame autoptico.
Analizzò ogni ferita, misurandone diametro, lunghezza e profondità.
Praticò quindi l’incisione a Y, partendo dalle clavicole e arrivando fino al petto, per poi scendere verso il basso.
Uno ad uno, elencandoli, iniziò ad estrarre gli organi interni, pesandoli. Giunto allo stomaco, lo trovò particolarmente pesante, e la cosa lo insospettì.
Lo prese e di diresse verso il bancone per i sezionamenti.
Con attenzione, lentamente, praticò un taglio netto, dividendolo a metà.
Qualcosa, al suo interno, si aprì a sua volta, separato dalla lama del coltello, e si sparse nell’aria in una nuvola di fumo bianco.
“Cosa…” Tossì John, spostandosi con un rapido gesto della mano la mascherina a coprire anche il naso. [4] “Che diavolo…”
Nel giro di qualche secondo la sostanza scomparve, ed il medico cercò all’interno dello stomaco tracce di qualsiasi genere, trovando solo un piccolo grumo di materiale non biologico. Lo estrasse con le pinzette, adagiandolo nel contenitore con acqua distillata poco distante. Dopo qualche minuto, il grumo si sciolse, rivelandosi una striscia di nastro adesivo trasparente.
John la guardò, confuso, spostandola dentro un contenitore sterile.
“Non capisco.” Mormorò, guardandola adagiarsi sul fondo della provetta.
Tornato al tavolo operatorio, lasciò una nota vocale sull’accaduto, cominciando nuovamente ad elencare, estrarre e pesare, senza riscontrare altre difformità.
Alla fine passò all’esame del cranio e del suo contenuto.
Una volta terminato, ricucì l’uomo e lo coprì con un lenzuolo, finendo di registrare le ultime analisi mentre si toglieva guanti, camice e mascherina, gettandoli nell’apposito cestino.
Si passò le mani su gli occhi, sentendoli bruciare. La stanchezza della notte passata nell’incapacità di riposare come avrebbe dovuto era tutta lì, nelle palpebre pesanti, nella rigidità del collo, nel gonfiore diffuso che percepiva attorno alla zona oculare.
Le note del violino di Sherlock, al piano di sotto, avevano avuto su di lui l’effetto di amplificare i pensieri, complicati, pesanti, che si stavano affollando nella sua mente, costringendolo a rimanere immobile, occhi aperti e sguardo al soffitto.
Una riflessione, su tutte, gli aveva impedito di riposare: cosa lo avesse spinto a chiedere al detective di rimanere con lui, nonostante lo avesse afferrato e scaraventato a terra solo qualche secondo prima. Sapeva che in parte quella scelta era stata dettata dall’essersi reso conto che Sherlock non lo avesse aggredito con le intenzioni di un Legame coatto, ma allo stesso tempo si conosceva sufficientemente bene per affermare con certezza che chiunque altro, nella stessa situazione, avrebbe ottenuto da lui un occhio nero, o almeno un tentativo violento di ribellione. Invece, non solo aveva provato – riuscendosi - a calmarlo, ma si era sentito in dovere di rassicurarlo che non fosse successo nulla di grave. Ancora più strano - e, ai suoi occhi, preoccupante - era la pace, l’incredibile tranquillità che aveva sentito prendere forza nei suoi respiri durante tutto il tempo nel quale erano rimasti affiancati, in silenzio.
Qualcosa, nella sua testa, gli ripeteva che fosse l’inattivazione dello Snubber e portare con sé tutte quelle sensazioni. Qualcos’altro, invece, premeva affinché ammettesse che, al di là di cosa lo avesse determinato, non si era mai sentito tanto in pace, a casa, in vita sua come in quel momento.
John sbuffò, scuotendo la testa con forza, riemergendo dai propri pensieri.
Aveva bisogno di un caffè, subito. E di mantenersi lontano da Sherlock per qualche ora, per riacquistare la propria lucidità mentale. Forse avrebbe potuto telefonare a Greg, dicendogli che aveva bisogno di più tempo, che voleva fare degli esami aggiuntivi e più approfonditi.
John si passò stancamente una mano tra i capelli e si diresse alla porta, facendo cenno ai due agenti all’interno di lasciarlo passare.
I due uomini si fecero da parte, aspettando che uscisse nel corridoio per seguirlo a loro volta.
“Finalmente.” La voce di Sherlock, bassa, atona, fu la prima cosa che giunse ai sensi del medico, ancor prima della sua scia.
John si voltò verso destra, in direzione delle sedie dove solitamente i parenti attendevano di poter accedere alla sala per le identificazioni.
Greg alzò una mano in segno di saluto, accennando un sorriso.
“Che ci fate qui?” Sospirò il medico, avvicinandosi a loro.
“Davvero lo stai chiedendo, o è una frase fatta? Ad ogni modo ho provato ad aprire l’emiciclo, ma è chiuso a chiave.” Domandò Sherlock, guardandolo.
“Frase fatta.” Confermò John, appoggiandosi al muro di fronte a loro, osservando i lineamenti tirati del detective. Anche lui non doveva aver dormito molto, anzi, non doveva aver riposato affatto. Ancor più pallido del solito, sembrava sul punto di spezzarsi. Come aveva fatto a non notarlo, quella mattina?
“Novità?” Chiese Lestrade, alzandosi.
“Nessuna indicazione su chi possa essere. Niente tatuaggi, o segni particolari. Forse le impronte sapranno dirci di più.” John sospirò, spingendo con ancora più forza la schiena contro la parete.
“Però una cosa posso dirla già da ora: non è stato l’orso ad ucciderlo.”
Sherlock socchiuse gli occhi, in attesa che l’altro continuasse.
“Aveva molte ferite profonde sul corpo. Bordi netti, larghezza esigua, grossa profondità.” Spiegò il medico.
“Coltello.” Rispose il detective, lasciandosi andare contro la spalliera e congiungendo le mani, appoggiandole poi alle labbra.
“Sì, ritengo che siano compatibili con ferite da arma bianca. L’orso ci ha solo “giocato”. I segni delle unghie erano poco profondi.” Annuì John, stropicciandosi gli occhi con un gesto nervoso che il detective seguì attentamente. “Inoltre non aveva acqua nei polmoni. Era già morto prima di finire nella vasca.”
“Quanto meno ha risparmiato a quel poveretto una morte lenta e dolorosa come l’annegamento.” Commentò Lestrade, iniziando a muoversi nervosamente lungo il corridoio.
“Quanto meno si è risparmiato di trascinare per tutto lo zoo un uomo recalcitrante.” Lo corresse Sherlock.
“Già.” John si diede una piccola spinta con i reni, staccandosi dal muro.
“Caffè?” Gli domandò Sherlock, alzandosi.
“Sì.” Rispose il medico, facendo cenno con una mano a Lestrade di unirsi a loro. “Andiamo Greg. Stacca un attimo.”
L’Ispettore guardò prima loro, poi i quattro agenti fermi poco più in là. Infine annuì, indicando ai suoi uomini di precederli.
“Mi domando perché volesse quell’uomo proprio in quella dannata vasca.” Lestrade allungò il passo, avvicinandosi a John e Sherlock.
“Leone ruggente e orso affamato, tale è il malvagio che domina su un popolo povero.” Citò il detective, ed il medico si voltò a guardarlo con aria interrogativa.
“Bibbia. Proverbi. Versetto 28,15. Non che pensi davvero che abbia scelto quel posto in base alle sacre scritture.” Rispose Sherlock, guardando dritto davanti a sé.
“Allora, in cosa consisteva la filastrocca, questa volta?” Domandò John, spostando gli occhi su Lestrade.
Sherlock si voltò verso l’Ispettore, intimandogli con lo sguardo di tacere.
“Le solite cose. Qualcosa sul rispondere…” Mentì Lestrade, ricambiando l’occhiata del detective con una severa. Devi dirglielo, sembrava ordinargli.
“Quattro, cinque e sei, dì qualcosa se ci sei.” Recitò Sherlock, tornando a guardare avanti a sé.
“Mhm.” Commentò John, pensieroso. “Cosa pensate che dovremmo dire? Sempre che sia una richiesta specifica, e non il mero passatempo senza senso di uno psicopatico.”
“Come ho già detto, non è un folle.” Puntualizzò il detective, sentendo il medico irrigidirsi, accanto a lui.
“Pensavo di aver già spiegato come la penso su-“ Sospirò Sherlock, voltandosi verso John e trovandolo con il volto arrossato. “Che succede?” Il detective si fermò, bloccandolo per le spalle e facendolo girare in modo da poterlo guardare bene in viso.
“Niente.” Rispose l’altro. “Ho solo un gran caldo.”
Sherlock gli posò il dorso di una mano sulla fronte. “Non sembri avere la febbre.” Constatò, leggermente confuso.
“È probabile che sia la stanchezza. O la tensione per la mia prima autopsia da solo.” John accennò un sorriso, staccandosi con un movimento gentile dalla presa del detective.
“Prendiamo il caffè, sbrighiamo le ultime formalità con il corpo e vi faccio accompagnare a casa.” Disse Lestrade, allungando il passo.
“Veramente preferirei tornare a piedi.” John si sfilò il maglione, rimanendo in camicia. Sherlock lo osservò tornare, nel giro di qualche secondo, al suo normale colorito. Qualcosa stava iniziando a farsi largo nei respiri del detective. Era solo un vago sentore, ma diveniva più forte ad ogni boccata d’aria.
“Cosa resta da fare, con il cadavere?” Chiese quindi, voltandosi verso Lestrade, che alzò le spalle.
“Devo trascrivere le registrazioni, inviare i campioni ad analizzare e consegnare le impronte alla polizia.” Rispose John, senza capire.
“Bene. Lestrade prenderà le impronte, io porterò i campioni in laboratorio e tu ti occuperai delle registrazioni. A casa.” Sherlock si girò, diretto nuovamente verso la sala mortuaria, e fece segno all’Ispettore di seguirlo.
“Cosa?! No!” Protestò John, raggiungendolo a passo veloce. “NO.” Ribadì, fermando Sherlock con una mano. “È il mio lavoro, non hai il diritto di-“ Le parole gli morirono in gola, premute contro le pareti della laringe come lui a ridosso del muro del corridoio, il viso del detective a pochi millimetri dal suo.
“Sherlock!” Tentò Lestrade, afferrandolo per un braccio, da dietro.
“Sei appena entrato in proestro [5]. Va’. A. Casa. SUBITO!” Sibilò Sherlock, in un sussurro, negli occhi lo sguardo feroce di una bestia che sta proteggendo il proprio territorio.
“È assurdo, mancano ancora due settimane!” Ringhiò John, con voce rotta.
“Va’ a casa, per favore.” Ripeté il detective, cercando di abbassare ed addolcire il tono. “Ti farò avere tutto quello che serve.”
“Ti stai sbagliando.” John appoggiò le mani sul petto dell’altro, dandogli una leggere spinta all’indietro. Sherlock si lasciò allontanare, arretrando di un passo.
“Benissimo. Avrai modo di urlarmi contro stasera, se dovessi avere ragione tu. Adesso, però…” Disse, indicando i quattro agenti immobili poco più avanti.
“Che sta succedendo?!” Lestrade lasciò andare Sherlock e si sporse oltre le sue spalle, per riuscire a guardare John.
“Succede che non è più sicuro per lui rimanere qui.” Spiegò il detective, sbrigativo, iniziando nuovamente a camminare. “Dì ai tuoi uomini di accompagnarlo a Baker Street!” Urlò in direzione dell’Ispettore, allontanandosi in direzione dell’obitorio.
“John, cosa-” Iniziò, ma il medico lo bloccò con un gesto della mano.
Un brivido freddo gli era appena risalito lungo la schiena, esplodendo poi in una bolla di calore non appena raggiunto il collo. Sentì il viso incendiarsi.
Non era stanchezza, né tensione accumulata.
Sherlock aveva ragione. Era iniziato.
“Fammi avere i nastri, in modo che possa trascrivere tutto e farti avere il referto prima possibile.” Riuscì a dire John, imponendosi di mantenere un tono di voce fermo. Si scostò dal muro, assumendo una posizione rigida, militare. Con passo sicuro, sforzandosi di non tremare, si avvicinò ai poliziotti, facendo loro segno di proseguire.
“Passerò personalmente a portarti le registrazioni!” Gli urlò Lestrade, in quelle parole un saluto ed una promessa.
John annuì, girandosi un attimo per lanciargli uno sguardo grato prima di seguire gli uomini lungo le scale, in silenzio.
 
Note:
[1] Seconda puntata della terza serie. Sherlock, in un tribunale, attorniato da donne che nella realtà sta contattando via chat. A suo fianco, John Watson, vestito diversamente dal solito. Più… Bello. Special, scena della cascata. John chiede a Sherlock come sia l’altro sé. Ecco. Ho amato molto queste due scene. E ho voluto far loro omaggio, in qualche modo. Il John della rappresentazione mentale di Sherlock è in alta uniforme, elegante, fiero. Perché, per me, è così che il detective lo vede, anche se forse neanche se ne rende pienamente conto. Un uomo forte. Bello. Un militare, ma non un soldato semplice. Un Capitano.
[2] Ok, mi ero ripromessa di non spiegare più nulla dei capitoli, ma questa volta devo fare un’eccezione: si capisce che quell’attimo è un “vuoto mentale” di Sherlock? :D
[3] “Get Sherlock”, scrive Moriarty in quel della Torre di Londra, prima di infrangere la vetrina con i gioielli reali. Adoro, letteralmente adoro quel pezzo. E dovevo metterlo anche qui. Ora, in seguito alla prima visione di quella puntata (in lingua originale, perché il mio legittimo consorte non vede nulla passato sotto lo schiacciasassi del doppiaggio), abbiamo discusso a lungo su cosa intendesse, letteralmente, Jim. Lui sosteneva che volesse dire “Tocca a Sherlock [essere arrestato]”, io l’ho sempre visto come “Tocca a Sherlock [muovere]”. Per quanto la mia versione del verbo “get” sia palesemente scorretta, la traduzione si prestava a questo gioco, per cui l’ho voluto riportare nel capitolo, nello scambio di battute tra Greg e Sherlock (anche se l’Ispettore pensa che stia per “Tocca a Sherlock [morire]”).
[4] Mi si potrebbe dire: perché diavolo non aveva la mascherina anche sul naso fin da subito? La risposta è semplice, quanto stupida… lavoro per otto ore al giorno con una mascherina sul viso. E vi assicuro che non è umanamente possibile tenerla sul naso per tutto il tempo. Di solito ci si limita a coprire la bocca, per evitare contaminazioni. Ho pensato che John la tenesse come me. E poi… beh, mi serviva che almeno una via aerea fosse vulnerabile. XD
[5] Dato che sono impazzita a dare una spiegazione “scientifica” agli inibitori ed alla Determinazione, mi sono detta che descrivere un “semplice” calore sarebbe stato troppo facile (il masochismo scorre forte in me. XD) Ecco perché sarà diviso in parti. Nello specifico mi sono ispirata alle quattro fasi di quello canino, perché… perché mi sembrava adatto. Ora, il proestro, nei cani, in teoria (ed in pratica) è quello in cui avviene il sanguinamento, che non combacia con la fase di accoppiamento. Chiaramente John non avrà perdite ematiche (ci vuole un limite a tutto, a mio avviso. XD) ma tutta un’altra serie di “avvisaglie”, tra le quali anche quelle che da noi si chiamano “scalmane” (non trovo al momento termine migliore, sono sfinita. Chiedo venia.), che sono solitamente proprie della menopausa (e delle quali abbiamo avuto un accenno nel capitolo.)
 
Angolo dell’autrice:
per prima cosa mi scuso. Questo capitolo è immenso.
Lo so, me ne rendo conto. Mi è costato due giorni di scrittura e, non lo nascondo, una grande fatica. Ma ci stiamo avvicinando alla conclusione e non voglio tralasciare nulla, neanche il più piccolo particolare. Avrei potuto dividerlo e farne almeno tre capitoli, ma non mi andava. Se la lettura dovesse essere troppo pesante, vi prego di farmelo notare. In quel caso provvederò alla divisione. ^_^
 
Detto questo…
Grazie. A tutte/i.  *__*
 
Come sempre risponderò ad ogni commento, vecchio e nuovo, non appena avrò un po’ di tempo. ^_^
 
Un abbraccio forte.
B.
   
 
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