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Autore: Lost In Donbass    15/03/2016    2 recensioni
Tom è un traduttore di romanzi, squattrinato, disordinato, con la memoria particolarmente corta e la mania di cacciarsi in casini molto più grandi di lui.
Bill è un giornalista, geniale, psicologicamente instabile, dotato di una memoria elefantiaca e affetto da nevrosi acuta.
Si sono visti e rivisti, questi due ragazzi, ma solo ora si decideranno a parlarsi, a riconoscersi, a entrare in un contatto che di sano non ha proprio niente. E in una Berlino misteriosa, tra amici inconcludenti, grunge degli anni 90, ricordi che vengono a galla, crisi di nervi e perle filosofiche di periferia, riuscirà Tom a salvare Bill da se stesso? O lo perderà di nuovo, forse per l'ultima volta?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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CAPITOLO DUE: I CASI DEL DESTINO

-Questo sarebbe l’articolo?
Bill alzò di scatto lo sguardo, fissando i grandi occhi contornati da un preciso strato di trucco nero, il più sobrio possibile, sul grassoccio capo redattore del giornale. L’uomo stringeva tra le dita grassottelle e unticce un vistoso pacco di fogli fittamente scritti, guardandoli da sopra un monocolo di ottone, la tempia destra che pulsava vistosamente e gli faceva venire un imbarazzante tic nervoso all’orecchio.
-Sì, signore. L’articolo che mi aveva commissionato.
-Bill, ti rendi conto di cosa hai scritto, vero?- disse il caporedattore, prendendo un profondo respiro, tentando di non fare aumentare vertiginosamente i battiti del cuore, e di non saltare al collo di quella specie di checca nevrastenica che lo guardava dall’alto dei suoi stivali di pelle nera col tacco a stiletto.
-Certo che mi rendo conto di quello che ho scritto.- Bill chinò la testa di lato, sfarfallando le lunghe ciglia appesantite dal mascara.
-E ti sembra che io possa pubblicare un simile articolo sul nostro giornale?
-Non vedo il problema, signore.
Bill si sedette sulla scrivania di vetro del sudato e ansante capo redattore, accavallando le gambe vagamente femminee, in un movimento di una sensualità disarmante, passandosi una mano tra i capelli biondo platino.
-Ovviamente glielo posso battere a computer in dieci minuti.- girò voluttuosamente una pagina, rivelandone un’altra fitta della sua calligrafia larga e rotonda, abbellita da svolazzi, disegnini, cuori e incredibili miniature stilizzate. – Ha qualcosa che non va?
Il capo redattore si mise le mani tra i radi capelli imbrillantinati, asciugandosi il sudore che colava a rivoli dal suo grasso e flaccido viso rubicondo, cercando di mantenere la calma e di non saltargli al collo.
-Allora, quante volte ti ho già detto che  non puoi scrivere articoli lunghi più di dieci pagine a mano?!- ruggì l’uomo, sbattendo un pugno sul tavolo. – Io non riesco a capire se sei completamente scemo o fai bellamente finta di non stare a sentire.
-Ma io non riesco a concentrare quello che voglio dire in meno di sette pagine.- si difese Bill, riordinando seraficamente il suo pacco di fogli – Devo dire alla gente il mio punto di vista, non devo esporre solo i fatti obiettivamente.
-Allora opto per scemo.- grugnì il caporedattore. – Alla gente non interessa il tuo dannato punto di vista, razza di … di … - si morse il dorso della mano per evitare di riversare addosso a quel ragazzino troppo dotato una serie di epiteti molto poco fini.
-Se interessasse solo il fatto obiettivo, allora andrebbero a consultare le enciclopedie, signore. Se leggono un giornale, vuol dire che interessa sentire i pareri delle persone. Però io non ce la faccio ad ammassare la mia linea di pensiero in merito a un determinato argomento in poche pagine.- Bill sorrise gentile, prendendo un altro pacchetto di fogli e consegnandolo al capo redattore – Questa qui è l’appendice dell’articolo. Pensavo che me la potesse pubblicare nel prossimo numero. Spero solamente che la mia scrittura sia decifrabile; l’ho scritto questa notte sulla metropolitana, forse è un po’ rovinata.
Bill guardò con disappunto uno sbafo di penna dovuto a un sobbalzo della metro, passandoci ossessivamente il pollice sopra nel tentativo di cancellarlo.
-Un’appendice? Non solo hai scritto trenta pagine per una dannatissima denuncia al Gropiusstadt, ma ci hai pure fatto un’appendice?- il caporedattore era fuori di sé, lo si capiva da quella vena sulla tempia che andava ingrossandosi e al sudore che cominciava a macchiare il colletto della camicia già irrimediabilmente macchiato da vecchi aloni di sudore.
-Non sapevo dove inserire i riferimenti letterari e cinematografici. Quindi ne ho fatto un articolo a parte da ricollegare a quello principale.- Bill sorrise dolcemente, recuperando i suoi pacchi di fogli – Mi faccia sapere se devo correggere qualcosa.
Se ne andò ancheggiando come era abituato a fare, i bracciali tribali che cozzavano rumorosamente tra loro, guardando con un sorriso soddisfatto il ritratto che emergeva dalle sue carte. Il ritratto a carboncini che aveva disegnato non appena era arrivato a casa, quello di quel ragazzo della Escenbach Strasse. Oh, lo sapeva che era lui il Fante di Picche. Glielo leggeva dentro, che sapeva qualcosa che il suo cervello si rifiutava di elaborare. Poi si girò, una volta arrivato sulla porta dell’ufficio, rivolgendo al capo redattore uno dei suoi soliti sguardi languidi e vuoti
-Comunque, non mi considererei scemo. Perlomeno, fino a qualche anno fa avere un quoziente intellettivo di 190 non era valutato da scemi. Se poi sono cambiati i tempi, beh, non sta a me giudicare.
Sentì chiaramente l’insulto che gli urlò dietro il capo redattore mentre si avviava pacificamente verso l’ufficio, sorridendo placidamente in modo quasi impercettibile non appena vide un oggetto non ben identificato schiantarsi sul muro dove pochi secondi prima c’era lui.
 
-Julia, Julia, Julia!
Tom era affondato letteralmente nel divano di casa, che sicuramente aveva visto giorni migliori, con due dizionari di inglese in mano, uno di slang, il computer e il maledetto libro aperto sulle gambe. Si grattò la guancia, aguzzando gli occhi per cercare un qualche significato nascosto di quella stupida frase che lo stava dannando da un’ora a quella parte, maledicendo silenziosamente quella cretina di Paris ( e poi dai, come cazzo fai a chiamare un personaggio di un libro con un nome così orrendo?!) che si andava a impelagare con modi di dire sconosciuti all’umanità intera. Il vecchio divano che un tempo era stato rosso, ma che in quel momento poteva vantare interessanti chiazze di senape, fritto, sudore, e qualcos’altro di non ben identificato, probabilmente resti di qualche serata particolarmente snervante, cigolò sotto il suo peso quando tentò di girarsi.
-Cosa vuoi?- ruggì Julia dall’altra stanza – Sei sempre a rompere!
-Ma tu lo sai cosa vuol dire “I wanna take a ride on your disco stick”?!
-Tom! Che eri un pervertito si sapeva, ma non a sti livelli!
Julia apparve sulla soglia del piccolo salotto, i capelli biondi tirati in una codina, la bocca sottile piegata in una smorfia divertita, i pantaloni non ancora del tutto infilati e il maglione sghimbescio addosso.
-Perché?- Tom fece una smorfia confusa – Cosa vuol dire? È un’ora che sto cercando di capirlo, ma l’unica soluzione a cui sono giunto è che Paris vuol fare un giro su un disco di colla, e io non ho la più pallida idea di cosa sia un disco stick!
Julia trattenne una risata, dandogli un’affettuosa pacca sulla testa
-Si vede che non ascolti Lady Gaga, amico.
-I dischi di Lady Gaga si chiamano dischi di colla? Davvero?- Tom spalancò gli occhi, scostandosi i capelli unticci dal viso. Doveva lavarli, forse. Cioè, doveva lavarsi del tutto, piuttosto. Sembrava un barbone.
-Vuol dire “Voglio fare un giro sull’amico là sotto”.- Julia scoppiò a ridere.
-Ma mi stai prendendo in giro?- Tom fece tanto d’occhi – Una gnocca come Paris non può voler andare a letto con uno sfigato come Lloyd, dai!
-Che sia strano o meno, non lo so, comunque vuol dire quello.- Julia finì di abbottonarsi i jeans e si sistemò il maglioncino, sciogliendosi la coda e dandosi una veloce pettinata con le dita. – Esci stamattina?
Tom annuì, scrivendo la fantomatica prima traduzione, grattandosi piuttosto volgarmente la pancia e passandosi una mano sul viso.
-Sono a pezzi, Juls! Ho sonno.- si lamentò. – E in più mi tocca anche andare nella sede di un giornale per recuperare delle cose che servono al mio capo. Non voglio.
-Sei tu che decidi di fare le ore piccole perché vivi in ritardo; e comunque, se devi fare questa commissione, lavati! E vedi di farti una doccia come si deve, puzzi di fritto e di sudore come se fossi un cencioso pezzente
-Juuuuls, lo sono un cencioso …
-Thomas, se scopro che non ti sei lavato, pettinato, e vestito con dei vestiti decenti e non stracci bucati e pieni di patacche, giuro su Dio che non ti apro e ti spedisco a dormire sotto un ponte!
Tom sbuffò, nascondendosi dietro un cuscino bucherellato. C’era un motivo psicologico, oltre che fisico, per cui non avrebbe mai voluto una donna come fidanzata, a causa di un brutto lavaggio del cervello durato tutta l’infanzia, tutta l’adolescenza e adesso anche l’età semi adulta: ovvero, essere cresciuto a stretto contatto con una coetanea arcigna, supponente, militarista, intrigante, rompiscatole, ficcanaso, audace, guerrafondaia, femminista, lesbica e per di più dal pugno di ferro. Insomma, non che Julia gli avesse particolarmente illuminato la prospettiva di avere una fidanzata, o, perché no, magari anche una moglie. E si sa che certe traumi infantili ti segnano a vita.
-Ok, capito l’antifona. Mi lavo, contenta?- sbadigliò, alzandosi dal divano dove si era addormentato la notte prima.
-A proposito, stasera a cena viene Becca.- Julia fece un sorrisino divertito nel vedere Tom bloccarsi e girarsi con un’espressione terribilmente distrutta
-Dimmi che ho sentito male, che ho i postumi di una sbornia.
-Hai sentito benissimo, tesoro. Stasera ospitiamo Rebecca, e tu non me lo impedirai.
-Ma Becca uguale giapponese. A me non piace il sushi! E nemmeno i noodles, o la tempura, o tutte quelle rumente che mangiano i musi gialli.- Tom la guardò con aria disperata, boccheggiando. L’ultima volta che la fidanzata della sua migliore amica lo aveva letteralmente obbligato a mangiare quello stramaledetto sashimi, aveva passato una notte intera a vomitare ininterrottamente pezzi di pesce crudo e chicchi di riso. Certo, avrebbe potuto opporsi dicendo che era allergico all’anguilla, ma come potevi opporti a quegli enormi occhi giallastri, a quei capelli cotonati rosa bubblegum e a quei piercing appesi al naso e alle sopracciglia? Stesse turbe femminili che non avrebbero mai lasciato quietare Tom.
-Oh, su, quante storie che fai sempre!- lo redarguì Julia con un gesto della mano, infilando nella borsa le chiavi – Vado a fare la spesa, ho il turno al pomeriggio oggi.
Tom sospirò, mentre vedeva Julia scomparire dietro al portoncino con quel suo sorrisetto combattivo e  tagliente, vagamente “da squalo”, come amava definirlo Tom da tempo immemorabile. In fondo, Julia era un po’ uno squalo, in senso buono, ovviamente. Era una buona amica, Tom le era grato di essere sempre rimasta al suo fianco, senza mai abbandonarlo un solo minuto; il loro era uno di quegli amori platonici che duravano da una vita intera, troppo difficile da spezzare, duro come il diamante e impossibile da scalfire, un misto di amore, odio, affetto, litigi, come quello di due fratelli che non fanno che azzuffarsi ma che sarebbero pronti a dare la vita per l’altro. Loro due erano fatti così, troppo testardi per ammettere davanti a qualcuno che si adoravano, ma troppo incapaci di vivere senza l’altro per osare anche solo stare una settimana distanti. Erano cresciuti insieme, si erano fatti le cicatrici nella stessa parte di città, avevano condiviso tutte le gioie e i dolori di una vita, si erano sempre e immancabilmente schierati dalla stessa parte, si erano fatti anche il primo occhio nero insieme. E se non era un segno di amicizia tirarsi un pugno in contemporanea e spappolarsi mezza faccia a vicenda.
Tom grugnì rumorosamente, trascinandosi mollemente in bagno per affrontare quel nemico comune che era la doccia. Si specchiò con poco coraggio. Forse Julia aveva ragione, sembrava uno spiantato visto da quella prospettiva (anche se, a ben pensarci, in quale prospettiva Tom non pareva il tipico prototipo di spiantato sfigato?). Studiò i suoi grandi occhi scuri, in quel momento gonfi e cisposi dal sonno e dalle tante ore passate a leggere e a cercare su dizionari antiquati e polverosi, il viso tirato e stanco, i capelli unti e scarmigliati che gli ricadevano sotto le spalle, la barba disordinata, la canottiera unta e bucata, le braghe della tuta ancora più unte e bucate della canottiera, il fisico che per qualche strano motivo sconosciuto all’Umanità rimaneva attraente e quasi muscoloso (che poi, Tom non capiva come diavolo potesse avere quel fisico che mandava in palla tutta la popolazione giovane femminile che incontrava quando non faceva altro che vivere la sua vita parcheggiato sul divano a mangiare patatine e a guardare la tv, alzandosi occasionalmente per andare a bere al pub o per scroccare una pizza alla pizzaiola all’angolo). Insomma, un disastro, come al solito.
-Vai così che sei figo Tom!- urlò al se stesso nello specchio, alzando il pugno chiuso con un sorriso tirato che gli si spense subito sul viso.
-Madonna, Tom, tu sì che sei uno che spacca!- esclamò nuovamente, facendosi l’occhiolino con una mossa vagamente da Fonzi.
-Arriva Tom, gente, non c’è n’è più per nessuno!- strillò, tentando per una mossa che ricordava un ibrido tra 007 e Jack Sparrow.
-Oi, Tom, lo sai che sei un fottuto fallito del cazzo?- si disse, dando al se stesso di là un amichevole pugnetto sulla spalla. Era l’unica frase con un briciolo di verità dietro, purtroppo. Sbuffò, dando una testata allo specchio e cominciando la lotta impari con quella doccia bastarda.
Quando poi riuscì a trovare dei vestiti relativamente puliti e non impregnati di inchiostro e fritto di patatine, legandosi i capelli in un muccetto quasi ben fatto, si sentì quasi perfetto. Forse, per una volta in vita sua, avrebbe fatto una figura quasi bella. Quasi, perché lui non era mai stato qualcosa al 100%. Si avviò mollemente per le strade rumorose e incasinate di Berlino, le mani affondate nelle tasche, sentendo il caldo föhn che soffiava incessante sulla sua pelle, appesantendo l’aria bollente di quell’estate dannatamente umida e appiccicosa. Non che a Magdeburgo facesse sto gran freddo, in fondo. Ma a Berlino c’era un’umidità tale che proprio Tom non riusciva a sopportare, e sette anni non gli erano ancora bastati per acclimatarsi. Lo sentiva ogni giorno, quando andava a tradurre i suoi libri seduto ai piedi della grande quercia di uno degli immensi parchi, quel vento bollente che gli entrava nel naso e nella bocca e non lo faceva respirare, quella fastidiosissima cappa d’umidità estiva che proprio non perdonava. Si frugò in tasca, estraendo il bigliettino dove aveva trascritto l’indirizzo piuttosto pasticciato della sede del “Flugel”, quel giornale con gli articoli alternativi e straordinariamente assurdi che ogni tanto Tom leggeva. Non aveva propriamente capito cosa dovesse ritirare per conto del suo vecchio e decrepito capo, solo che c’era in ballo una spedizione dall’estero, che per qualche motivo contorto si era fatto recapitare al “Flugel”. Si accese una sigaretta sbuffando, imboccando qualche stradina secondaria dove i palazzi oscuravano il selciato e tenevano un po’ lontana quell’afa sconosciuta, oltrepassando una serie di giardini nascosti nel retro di questi vecchi palazzi bui e decrepiti, svicolando in stradine strette e puzzolenti ma straordinariamente fresche, superando negozi talmente tenebrosi e oscuri da farti passar la voglia di entrarci, scantonando per vicoli dalla fama molto dubbia. Finalmente sbucò davanti alla facciata di quel benedetto giornale, un po’ scrostata, nascosta nel buio di un vicoletto, quasi invisibile se non fossi stato intenzionato a cercarla. L’insegna “Flugel” era quasi mangiata da rose rampicanti che tingevano l’ambiente di un forte arancione e rosa pallido. Sicuramente un posto alternativo, pensò Tom, mentre si arrischiava ad aprire il portone.
-Desidera?
Nemmeno il tempo di mettere piede dentro la sala luminosa e fresca della redazione, che una ragazza alta e magra gli fu addosso, sventolando un ventaglio.
-Aehm, io sono qui per conto del signor Levi. Dovrei ritirare un pacco che è stato recapitato qui …
-Oh, allora devi andare dal capo!.- la ragazza fece una smorfia che a Tom non piacque per nulla – Secondo piano, quinta stanza, c’è comunque una targhetta di riconoscimento. Comunque, trattalo con le pinze, è nervoso oggi.
-Ah, ok, ma … - Tom non fece in tempo a fare una frase di senso compiuto, che la tipa era fuggita via come una lepre.
Tom sospirò rumorosamente, imboccando le scale che portavano al secondo piano, in mezzo a persone agitate e strepitanti che gli sfrecciavano da tutti i lati, scontrandolo senza nemmeno fermarsi o scusarsi, sbattendolo di qua e di là come una sardina. Certo che non gli sarebbe piaciuto lavorare in un ambiente simile, lui impazziva in mezzo al caos, alla gente, al nervosismo imperante. Era ancora di quelle persone vagamente vecchio stampo, di quelle che avevano bisogno della tranquillità e del riposo mentale, che non poteva soffrire la fretta (cercava ancora di nascondersi dietro alla scusa fasulla della finta frase zen che rifilava sin dalla prima elementare a sua madre quando lo voleva buttare giù dal letto “La fretta non è amica del sapiente, dovreste saperlo. Io vado con calma e con saggezza. Sì, erano solo utopiche giustificazioni per la sua naturale predisposizione a vivere sempre con cinque minuti di ritardo sulla tabella di marcia; comunque, se aveva contato giusto, la Morte sarebbe potuta arrivare in ritardo visto che lui avrebbe brillantemente mancato l’appuntamento con l’Oscura Signora, troppo in ritardo per precipitarsi sul luogo dell’incontro). Naturalmente lento in tutto quello che faceva, dal lavarsi i denti, al fare il filo a un ragazzo, al tradurre i libri, Tom viveva come un Trasformer dei primi film, come lo amava chiamare Julia, e vagava tranquillamente dietro a tutta quella massa di persone nervose come se non gli importasse. D’altronde, dal tanto correre cosa ne avrebbe ricavato se non polmoni a pezzi e gambe stanche?
Arrivò davanti all’unica porta chiusa di tutto il corridoio, spintonando in mezzo alla fiumana di gente esagitata e strillante, e lì si bloccò, mettendosi in ordine la coda di capelli ribelli e prendendo un profondo respiro. Ci teneva a recuperare quel dannato pacco, portarlo al signor Levi, e concentrarsi nella traduzione del romanzo più brutto che avesse mai letto visto che se non lo avesse portato in tempo forse era la buona volta che il buon vecchio ebreo lo avrebbe cacciato dalla casa editrice.
Bussò con discrezione, tossicchiando.
-Chi è?!- ruggì una voce tonante da dentro. Non molto rassicurante.
-Ehm, sono un inviato di Juda Levi … dovrei ritirare un pacco che è stato recapitato qui a suo nome … - rispose Tom, posando la mano sulla maniglia e provando a girarla senza successo.
-Fuori di qui!- tuonò la voce.
-Ma non voglio disturbarla, voglio solo prendere il pacco.- insisté il ragazzo.
-Dopo! Ora ho da fare, passa dopo!- qualche imprecazione volò nella stanza.
-Giuro che non ci metto tanto, prendo il pacco e lei non mi vede nemmeno …
-Ho detto di no! Non disturbare o ti caccio a pedate!
-Senta, io dovrei …
-Aspetta un attimo, nervoso ragazzino!
Tom boccheggiò. Non che non fosse abituato a essere trattato male e a essere insultato senza un motivo apparente, però dannazione, quello non gli piaceva. E nessuno lo chiamava più ragazzino, e che diavolo! Aveva 26 fottutissimi anni, aveva smesso di essere un ragazzino tanti anni prima. Già c’era sua madre che era rimasta bloccata a quando lui aveva compiuto tredici anni e più in là aveva deciso di non andare. Senza dimenticare la zia Gretel che oltre i nove non andava (e Tom ricordava ancora con un certo imbarazzo il suo diciottesimo compleanno e la zia Gretel che entrava in casa tranquillissima, senza rendersi conto della mezza orgia in corso con un film di serie Z in tv e i The Ramones che rintronavano nello stereo, e gli consegnava con aria solenne un pigiamino di Spider Man da bambino con un bigliettino a fiori con su scritto “Buon nono compleanno al mio nipotino preferito”. Beh, erano dieci anni che Tom non faceva che ricevere pigiamini di Spider Man e biglietti da nono compleanno).
-Non provi a chiamarmi ragazzino, sono un lavoratore io, parte attiva della comunità di questo Paese, contribuisco anche io ad accrescere la posizione della Germania … - Tom avrebbe continuato con il suo sproloquio dando qualche pugno nella porta finché non gli avesse aperto e gli avesse dato quel benedetto pacco, quando sentì una voce dolce e melodica, tenera e vibrante dire
-E’ inutile, non ti ascolterà mai.
Si girò di scatto, sbuffando, cercando la fonte della voce ma nessuno sembrava essere interessato alla sua berciante persona che picchiava i pugni sulla porta del capo redattore. Correvano, lo oltrepassavano come se non fosse nemmeno lontanamente esistito. Che se la fosse sognata? Beh, non sarebbe stata un’esperienza nuova, quella di sentire strane vocine che …
-Sono qua sotto.
Sentì una mano tirargli il bordo dei jeans, e abbassò di colpo lo sguardo, con un urlo soffocato ma terrorizzato. Seduto ai suoi piedi, con la schiena poggiata al muro e le gambe intrecciate in una posizione yoga, un computer in grembo e un altissimo pacco di fogli accuratamente scritti a mano giacente al fianco, stava un ragazzo. O per meglio dire Il Ragazzo. Con i capelli biondo platino accuratamente pettinati all’indietro, il viso truccato, i gioielli e i piercing sfavillanti alla luce al neon dell’anonimo corridoio, i vestiti eccentrici e stravaganti, il sorriso larghissimo e infantile, gli occhi turbolenti ma straordinariamente vuoti come quelli di una bellissima bambola.
Tom trattenne inconsapevolmente il fiato, sussurrando, quasi più a se stesso
-Ma … ma tu … tu sei il ragazzo di ieri …
-Esattamente.- il biondo scoppiò a ridere, una risata argentina e cristallina, vagamente cantilenante come la voce quando parlava – Sono io.
Tom boccheggiò, fissando di nuovo quella specie di meraviglia notturna che lo fissava seduto per terra, sfarfallando quei dannati occhi profondi come l’oceano e vasti come l’Universo intergalattico. Non ci poteva credere, che scherzo del Destino era mai quello?! Il ragazzo si leccò le labbra carnose, in un modo che Tom trovò stranamente inquietante ma eccitante, e gli fece segno di sedersi sul pavimento vicino a lui e al suo pacco di fogli.
-E ora, Fante di Picche, ora ti ricordi di Alice?
 
 
  
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