Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    16/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~ Caterina si mosse rapidamente in avanti e di lato, soffiò e diede l'ultimo affondo, colpendo con tutta la forza che le era rimasta nelle braccia.
 Tommaso Feo cercò di parare il colpo, ma inciampò sui suoi stessi piedi e finì in terra sollevando una nuvoletta di polvere.
 Il terreno era abbastanza secco perché da qualche giorno non pioveva più e così il cortile fangoso della cittadella della rocca di Ravaldino era diventato un cortile polveroso.
 “Pietà! Pietà!” scherzò il castellano, lasciando cadere la sua spada spuntata e alzando le braccia in segno di resa.
 Caterina sorrise a quell'esclamazione e gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi.
 Tommaso l'accetto e la ringraziò, lasciandosi davvero aiutare nello sforzo, tanto che per un momento anche Caterina restò sbilanciata a causa del peso del castellano.
 “Per oggi basta così.” disse la Contessa, raccogliendo la spada di Tommaso e indicando l'armeria con un breve movimento del capo: “Sono stanca, continueremo domani.”
 Da qualche tempo Caterina aveva cominciato a frequentare con una certa assiduità la rocca di Ravaldino e sfrutava ogni occasione per esercitarsi nel cortile d'addestramento con la spada o con le altre armi.
 Tommaso Feo si era personalmente proposto come compagno d'allenamento e in un certo senso alla Contessa aveva fatto piacere poter avvalersi di lui.
 Fin dalle prime sessioni di esercizio, Caterina aveva notato con piacere come l'uomo non le riservasse alcun trattamento di favore. Anzi, più di una volta l'aveva visto indisporsi parecchio per essere stato battuto da lei, pur avendoci messo tutto l'impegno possibile.
 A Caterina serviva davvero qualcuno così, per riprendere bene confidenza con la spada. Se avesse avuto un meastro d'armi prezzolato a sfidarla, non avrebbe avuto modo di migliorarsi, né di saggiare la propria forza e la propria preparazione.
 L'unico inconveniente di quella situazione era sapere cosa ne pensavano i forlivesi di tutte quelle ore che lei passava oltre le alte mura di cinta della cittadella annessa alla rocca. Le malelingue sapevano ferite tanto quanto una spada e forse anche di più.
 Una volta nell'armeria, mentre il castellano e la Contessa si toglievano la polvere dai vestiti – soprattutto Tommaso Feo, che era stato mandato a gambe all'aria più di una volta – Caterina sentì che era arrivato il momento di affrontare un argomento spinoso.
 “Ormai saprete anche voi – cominciò, passando uno straccio sulla lama smussata della sua spada d'allenamento per ripulirla – che in città si è sparsa una voce secondo la quale voi sareste il mio amante.”
 Feo, alzando un sopracciglio, annuì appena, mentre rimetteva al suo posto i guanti di pelle usurati e macchiati.
 “Spero che non ne siate offeso.” aggiunse Caterina, sciogliendo il nodo del laccio che teneva fermo il suo giaccotto di cuoio bollito.
 “Assolutamente no.” rispose Tommaso, con disinvolutura.
 Caterina lo osservò un momento, soffermandosi sul profilo sottile e sui capelli scuri che gli coprivano in parte il volto, mentre stava così chino a togliersi gli schinieri imbottiti.
 “E spero anche che non ne siate troppo lusingato.” buttò lì Caterina, notando uno strano rossore farsi largo sul collo del castellano.
 Feo deglutì un paio di volte, poi rispose, con un certo nervosismo: “Non mi permetterei mai.”
 Caterina finì di levarsi di dosso le protezioni da allenamento e concluse: “Bene, sono felice di sentirlo. Perché, se dovessi venire a sapere che siete voi la fonte di tali chiacchiere, sappiate che non esiterei a prendere provvedimenti.”
 E così dicendo lasciò l'armeria, con Tommaso Feo che la guardava di sottecchi.

 Su consiglio della moglie, Girolamo aveva deciso di presenziare alla messa in San Mercuriale, quella domenica.
 Il clima era piacevole e non c'era la confusione solita per le strade, quindi il Conte non si era trovato in difficoltà, benché non fosse seguito dal suo solito codazzo di guardie.
 Seguì con scarso interesse la funzione, concentrandosi più che altro sulle persone che lo circondavano. Alcuni ricambiavano il suo sguardo con malcelata ostilità, mentre altri lo ignoravano completamente.
 Una volta finita la messa, Girolamo uscì dal portale della chiesa quasi per ultimo.
 Proprio mentre guadagnava la sua occhiata di sole sul selciato, intravide un volto a lui ben noto a pochi passi da sé.
 Fu tentato di far finta di niente, ma in quei giorni stava cercando di fare tutto quello che gli diceva Caterina e tra quelle cose c'era anche cercare di recuperare i soldi prestati agli Orsi.
 “Checco.” disse allora, avvicinandosi all'uomo, che lo guardò con occhi accigliati, decisamente sorpreso di vederlo lì, in mezzo alla gente comune e senza scorta.
 “Mio signore.” rispose l'uomo, mentre attorno a lui e al Conte si assemblava una piccola folla.
 In molti avevano sentito dire di come i due in quel periodo si stessero rinfacciando dei debiti e ognuno era curioso di vedere chi l'avrebbe avuta vinta.
 “Sto ancora aspettando quel che mi dovete.” fece Girolamo, mentre sentiva la fronte imperlarsi di sudore.
 L'attenzione che si stava concentrando su di loro lo metteva in difficoltà. Se non fosse stato tanto codardo da voler evitare la figuraccia pubblica di andarsene a metà discorso, lo avrebbe fatto.
 “Vi ho già spiegato che dovrete pazientare ancora un po'. Se li avessi, ve li avrei già restituiti i vostri dannati denari. E poi anche voi mi dovete del denaro, ma certo non continuo a darvi l'assillo come fate voi con me!” disse Checco Orsi, mandando il Conte a quel paese con un gesto stizzito.
 I presenti reagirono con un sonoro 'oh' a quel modo di fare sprezzante e tanto bastò a Girolamo per accendersi come avrebbe fatto nella sua prima gioventù.
 “Checco, Checco! Tu mi farai fare qualche pazzia...!” gridò il Conte e alzò le mani ad artiglio, come se volesse strangolare quello che gli stava davanti.
 Orsi si tirò indietro, mentre Girolamo cercava di controllarsi mordendosi scenicamente il dorso della mano.
 Qualcuno cercò di placare il Conte e di invitare entrambi i contendenti a trovare un accordo soddisfacente. Non pochi, poi, avevano cominciato a dire che il Conte era impazzito e che avrebbe ucciso Checco Orsi davanti al portale della chiesa.
 Alla fine fu Girolamo a lasciare per primo il campo di battaglia, mettendosi a correre verso il palazzo, già pentito dello scatto d'ira che lo aveva colto davanti a così tanti forlivesi.
 “Quel pazzo...!” disse Checco Orsi, appena fu certo che Girolamo fosse lontano: “Pretende di incassare i debiti altrui, ma non si fa pena di saldare i propri!”

 “Vedete che è necessario introdurre queste nuove tasse e con effetto immediato.” spiegava Menghi, mostrando i conti a Girolamo, i cui occhi seguivano le file di numeri scritti in piccolo senza capirci nulla.
 “Deve esserci un'alternativa.” disse il Conte, debolmente.
 “Ovviamente c'è un'alternativa: lasciar fallire lo Stato!” si lamentò Menghi, come se la cosa lo gettasse nello sconforto più totale.
 “Vorrei prima consigliarmi con mia moglie...” prese tempo Girolamo, tormentandosi il polsino della giacca ricamata con la rosa dei Riario.
 “Non possiamo attendere ancora... Mio signore, la questione è grave. Se non firmate subito, dando la possibilità ai riscossori di iniziare immediatamente il loro lavoro, allora lo Stato sarà in un vicolo cieco da cui non usciremo.” disse Menghi, allungando in modo apparentemente casuale il foglio che Girolamo avrebbe dovuto sottoscrivere.
 “Dov'è mia moglie?” chiese il Conte, sentendendosi in trappola.
 “L'hanno vista andare alla rocca di Ravaldino...” disse Ludovico Orsi, maligno: “Ci va molto spesso, ultimamente...”
 Girolamo lanciò un'occhiata al suo consigliere, che da quando era arrivato non faceva altro che tirar su col naso. Difficile capire se fosse una raffreddatura a tormentarlo o altro, fatto restava che pareva davvero un convalescente che si era presentato a palazzo per puro spirito patriottico.
 “In effetti, negli ultimi tempi tutti l'hanno vista spesso andare là...” confermò Menghi, assecondando il gioco del suo complice.
 “L'altro giorno, alla locanda, ho sentito un bifolco – soggiunse Orsi, rigirando il dito nella piaga – insinuare che la Contessa sia stata vista di più accanto a quel Feo in queste ultime settimane che non accanto a voi, Conte, in tutti questi anni di signoria.”
 “Fandonie!” scattò Girolamo, afferrando d'impeto il foglio che Menghi gli stava ancora porgendo e intingendo la penna nell'inchiostro: “Tutte assurdità!” ululò, mentre firmava con rabbia il pezzo di carta che avrebbe portato nuove tribolazioni a tutti i forlivesi.

 Caterina lesse la lettera di sua madre fino a impararla a memoria. Era sopraffatta dalla gioia di pensare che sia Lucrezia sia Bianca fossero già in viaggio alla volta di Forlì.
 Non ricevendo una pronta risposta, per un po' aveva temuto che sua madre le avrebbe opposto un rifiuto, adducendo come scusa le stesse dichiarazioni fatte da Caterina nella sua precedente lettera.
 Invece Lucrezia aveva scritto di essere oltremodo felice di poter finalmente ricongiungersi a lei e si dichiarava pronta ad affrontare sia il lungo viaggio sia qualunque inconveniente del soggiorno in una città non completamente tranquilla.
 Caterina non ne aveva parlato coi suoi figli, anche se era certa che sarebbero stati tutti felici – Ottaviano compreso – di sapere che a breve avrebbero conosciuto non solo la loro nonna, ma anche una delle loro zie.
 Credeva che non fosse prudente far loro promesse, non prima di essere completamente certa dell'arrivo di Lucrezia. I tempi erano incerti e i viaggi pericolosi. Temeva che un qualsiasi inconveniente avrebbe potuto far ritardare le due o anche far loro decidere di annullare il tutto e allora sarebbe stato difficile gestire la reazione dei suoi figli. O meglio, quella di Ottaviano.
 Quel ragazzino reagiva estremamente male a un sacco di cose, ma il sentimento che pareva provarlo maggiormente era la delusione.
 Caterina non ne aveva fatto parola nemmeno con Girolamo, ma per motivi diversi.
 Era stata tentata di farlo, ma quando era tornata dal suo solito allenamento con Tommaso Feo, suo martio si era subito scagliato contro di lei con assurde invettive. Assurde fino a un certo punto, però, dato che la stessa Caterina aveva sentito più di una persona in città spettegolare sullo stesso identico argomento.
 “Io lo sapevo!” le aveva gridato dietro Girolamo, passandosi le mani tra i riccioli e tirandoli come se davvero volesse strapparseli: “Tu mi hai tradito con quello zotico fin dal primo momento! Lo vedo come ti guarda...!”
 “Ma di che stai parlando?” aveva allora controbattuto lei, sapendo già chi fosse l'oggetto di una simile accusa.
 “Io ti proibisco di andare ancora alla rocca con... Con... Con quello...!” aveva proseguito Girolamo, tanto frenetico da mangiarsi le parole.
 “Tu non puoi proibirmi nulla.” l'aveva zittito Caterina e se n'era andata nelle sue stanze, mentre suo marito ancora le gridava dietro ultimatum di ogni tipo.
 Una volta da sola, Caterina aveva riletto la lettera di sua madre per darsi coraggio e pensare che presto non sarebbe più stata sola.
 Tuttavia non riusciva a togliersi dalla mente quelle voci perfide che la volevano amante del castellano della rocca di Ravaldino.
 Non le piaceva pensare che i forlivesi avessero quell'immagine di lei e, in più, non capiva perché in molti erano giunti a quella conclusione solo perché era stata vista andare spesso alla rocca.
 Trovava assurdo anche solo il pensiero che Tommaso Feo fosse il suo amante.
 Forse, all'inizio, appena l'aveva conosciuto, l'aveva trovato interessante – più interessante di suo marito di sicuro, ma per quello bastava poco – e, anche dopo averlo conosciuto meglio, continuava a trovarlo un uomo valido e un soldato zelante. Però si sentiva così estranea a quel sentimento che chiamavano 'amore', e ancor di più a quell'amore travolgente e passionale che nelle poesie e nelle canzoni si diceva potesse nascere tra una donna e un uomo, che la sola idea di trovarsi un amante, fosse egli Tommaso Feo o chiunque altro, la faceva sbellicare dalle risate.
 Di farsi un amante, Caterina, non ne vedeva proprio il motivo.

 'Il momento sembra propizio, e tutto quanto è apparecchiato a parte gli ultimi dettagli. Le recenti mosse politiche hanno portato dalla nostra ogni ceto e nessuno si tirerà indietro, quando sarà il momento di agire. Aspettiamo solo l'ordine definitivo, anche se prima alcune domande turbano ancora me e i miei amici carissimi. La nostra preda è un vicario vaticano, quindi alla sua morte come dovremo agire? Non possiamo certo dichiararci nuovi signori della città, perché non saremmo legittimati agli occhi di Roma. Inoltre gli O. continuano a farci velate pressioni perchè vorrebbero per loro la città e hanno intuito che stiamo archietettando qualcosa. Ditemi che fare e che pensare, vostro fedele M. M.'

 'Quando l'avrete ucciso e quando avrete preso la rocca – e solo allora, badate bene! – potremo imporre il nostro consiglio al papa e lui metterà a capo della città solo chi io indicherò. Il papa è ormai mio parente prossimo e mio solido alleato dunque non potrà fare altrimenti. Voi non datevi pensiero e limitatevi a far andare il colpo come deve, senza perdere tempo ad arrovellarvi su cose che non spetta a voi ragionare e sciogliere. Per quel che concerne gli O., lasciate pure che si illudano di poter avere un ruolo dopo la morte della nostra preda. Che ci assecondino. A volte, per comandare, bisogna essere pronti a sfruttare le illusioni dei più deboli. Che la cosa succeda a Pasqua o al massimo entro una settimana da quel giorno. Dieci anni sono passati dalla morte di mio fratello. Ormai è ora che chi deve paghi il conto per le sue azioni e bruci all'inferno per l'eternità. L.'

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas