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Autore: Adeia Di Elferas    18/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Sono arrivati i resoconti del feudo di Fortunago – annunciò Caterina, mettendo davanti al naso di suo marito un faldone di notevoli dimensioni – e sono in attivo, grazie al cielo.”
 Girolamo annuì, rincuorato da quella notizia.
 Si era sempre disinteressato di quel feudo avuto in dono da Ludovico Sforza alla morte di Pietro Dal Verme. Con un velo di inquietudine, si chiese se per caso quei resoconti non fossero gli unici in ordine proprio perché lui non ci aveva mai messo il becco...
 “Dove stai andando?” chiese poi il Conte, visto che la moglie stava raggiungendo la porta.
 “Alla rocca.” rispose Caterina, senza dare il tempo a Girolamo per ribattere in alcun modo.
 Lasciato solo con i resoconti del feudo di Fortunago, l'uomo cercò di decifrare quei numeri e quegli appunti stilati con tanto impegno da chi di dovere.
 Anche se intuitivamente capiva che quei registri erano più in regola rispetto a quelli di Forlì, non riuscì lo stesso a ricavarne delle informazioni precise e si sentì una volta di più un ignorante inadeguato al compito che gli era stato destinato.
 Forse il suo zio papa aveva davvero puntato sul cavallo sbagliato...

 Tommaso Feo stava ricontrollando i turni di guardia dei soldati, quando gli venne annunciato che la Contessa era appena entrata nella rocca e che desiderava vederlo subito.
 Gli parve strano, perché quel giorno non avevano in programma di esercitarsi, tuttavia si affrettò a lasciare le carte su cui stava lavorando sul tavolo e raggiunse la sua signora nel giro di un minuto.
 “Volete esercitarvi con la spada anche oggi?” chiese, quando la vide.
 Gli occhi verdi di Caterina erano inquieti e il modo in cui scosse il capo per declinare quell'invito fece corrucciare Tommaso, che domandò, a voce più bassa: “Qualcosa forse vi preoccupa, mia signora?”
 Caterina fece impercettibilmente segno di sì con il capo e disse: “Andiamo nel vostro alloggio un momento, dobbiamo parlare di un affare importante.”
 Ancora più accigliato, il castellano l'accompagnò fino nelle sue stanze. Chiuse la porta a due mandate, su richiesta della Contessa e poi si mise in ascolto, desideroso di sapere cosa mai fosse successo per giustificare tanta segretezza e tanta apprensione.
 “Vi prego di non giudicare irrispettoso quello che sto per chiedervi, ma dovete sapere che, a breve, molto a breve, verranno in visita in città mia madre e una delle mie sorelle.” prese a dire Caterina, mentre Tommaso si appoggiava appena alla parete con la schiena.
 In un altro frangente, forse, Caterina si sarebbe irritata dinnanzi a una postura così poco marziale.
 Avrebbe visto quel modo di porsi come una sfida o una mancanza di rispetto nei suoi confronti.
 Verso Tommaso Feo, però, non riusciva a nutrire quel genere di sentimenti e gli permetteva, nei limiti del ragionevole, pressoché ogni atteggiamento, quando erano soli.
 “Dunque, visto che non mi fido affatto né dei consiglieri di mio marito né tanto meno di di questa città, che vorrebbe veder tornare gli Ordelaffi, non posso che fidarmi di voi. Si tratta di una questione molto importante, perché non mi perdonerei mai se dovesse accadere qualcosa a mia madre o a mia sorella mentre sono qui, sotto la mia protezione. Ho bisogno di avere qualcuno di cui fidarmi ciecamente in caso di necessità.” continuò Caterina, stringendosi una mano nell'altra, le guance appena arrossate: “E quindi devo chiedervi: posso fidarmi di voi?”
 Tommaso si staccò dal muro e mosse un paio di passi verso la Contessa, il volto scuro e le braccia lungo i fianchi.
 “Siate sincero.” lo pregò Caterina: “Capirei e accetterei anche un no.”
 “Potete fidarvi, mia signora.” rispose calmo Tommaso Feo, quando le fu a pochi centimetri di distanza.
 “E perché posso fidarmi? Voglio essere completamente certa che la vostra lealtà sia motivata e profonda.” insistette Caterina, guardando ora gli occhi scuri ora le labbra decise del giovane uomo che le stava così vicino da poterne avvertire il respiro.
 “Potete fidarvi di me – assicurò Tommaso – perché io mi sono innamorato di voi fin dal primo momento in cui vi ho vista.”
 Caterina stava per ribattere in qualche modo, ma Feo alzò l'indice per zittirla e continuò: “Non vi siete mai chiesta perché, già prima della brutta storia di Zaccheo, io continuassi a chiedervi un'udienza?”
 “Sì...” ammise Caterina, ripensandoci: “Ma ho sempre creduto che voleste solo lamentarvi dei ritardi dei lavori alla rocca, come facevano in molti altri soldati... O qualcosa di simile...”
 “E invece era perché volevo vedervi da vicino e parlarvi a quattr'occhi.” la contraddisse subito Tommaso: “Sapevo di avere poche possibilità, visto che sono di Savona come vostro marito e che mio padre è stato al suo servizio per anni, anche se il Conte non l'ha mai sopportato. So bene che ogni cosa ricollegabile a vostro marito provoca in voi solo disprezzo e avversione. Però avrei voluto provare, perché mi ero convinto che se ci fossimo conosciuti meglio, anche voi vi sareste innamorata di me.”
 Caterina ascoltava ogni parola senza sapere cosa pensare. Avrebbe voluto interrompere subito quella scomoda confessione, ma voleva anche scoprire dove sarebbe andata a parare quell'ardita dichiarazione. Così lo lasciò parlare senza interromperlo più, benché sentisse le gote andare a fuoco e la gola seccarsi.
 “Ora vi conosco meglio. Ho avuto il privilegio di conoscere la donna oltre ai meravigliosi occhi verdi. Vi apprezzo, vi stimo e provo un sincero e profondo affetto per voi... Ma non vi amo. Non come un uomo ama una donna.” concluse Tommaso, facendo un brevissimo passo indietro.
 “Oh.” fu tutto quello che Caterina riuscì a dire.
 “Ed è proprio perché non vi amo, che non vi tradirò mai e sarò sempre un soldato leale e affidabile.” spiegò Tommaso.
 “Come...?” soffiò Caterina, che aveva decisamente perso il filo del discorso.
 “Conosco il cuore degli uomini, mia signora, il mio in particolare e so che se vi amassi, prima o poi finirei per disobbedirvi, nell'intento di farvi del bene o di evitarvi qualche guaio o sofferenza. A voi servono alleati sicuri e pronti a eseguire ogni vostro ordine senza fare domande, senza avere iniziative personali. Vi servono soldati fedeli, non uomini innamorati.”
 Caterina ci mise un momento a riassumere nella sua mente tutto quello che il castellano di Ravaldino le aveva detto, e trovò il tutto molto impudente e forse un po' arrogante, ma alla fine dovette dargli ragione.
 “Bene, sono d'accordo con voi.” gli disse, ostentando una certa sicurezza, anche se in realtà era ancora scossa per quello scambio di battute così inatteso.
 Nessun uomo le aveva mai detto cose del genere, tanto meno suo marito Girolamo che, invece, aveva trasformato ogni sua dichiarazione – fosse essa d'amore o fedeltà – in minacce o piagnistei.
 “Dunque, fidatevi pure di me.” ribadì Tommaso, chinando un po' la testa in segno di reverenziale obbedienza.
 Caterina lo ringraziò di cuore e gli disse che si sarebbero rivisti il giorno appresso, per tirare di spada, come sempre.

 “Mio nipote, Gasparino, è forse l'unico servo che può dire di godere della simpatia del Conte Riario.” spiegò Giacomo Ronchi: “Basterà convincerlo a farci entrare in un momento tranquillo e quello sciocco ci lascerà passare. Vuole sempre mettersi in luce con Riario, quindi basterà fargli credere che facendoci entrare a palazzo in un momento che fa comodo a noi, sta facendo un grande favore al Conte oltre che a noi.”
 Ludovico Orsi annuì con gravità. Checco si stava massaggiando il mento e Matteo Menghi teneva le braccia incrociate sul petto, pensieroso.
 Oltre a loro erano presenti Nicolò Pansecco e altri dodici congiurati, tutti radunati per discutere le ultime cose.
 Qualcuno tra i meno convinti aveva cominciato a esprimere qualche perplessità.
 L'idea di Ronchi di sfruttare il nipote aveva suscitato dei dubbi e alcuni stavano per chiedere di temporeggiare ulteriormente, per trovare un modo migliore, un modo più sicuro...
 “Bene, bene...” disse improvvisamente Checco Orsi, alzandosi con tanto impeto da ribaltare la sedia: “E allora, amici miei! Miei carissimi e amatissimi compatrioti!” esclamò e tutti i presenti puntarono gli occhi su di lui: “Forse che nascere in Forlì di questi tempi e trovarsi a viverci deve essere la peggior disgrazia con cui un uomo debba nascere e convivere? Dunque chi nasce e vive in Forlì deve forse nascere e vivere da oppresso? Non è successo così ai nostri antenati. Loro, anche se per qualche tempo si sono trovati oppressi e soggiogati, ma sono stati oppressi da una tirannia ingiusta e vergognosa e incapace come quella che opprime noi ora!”
 Checco Orsi continuò a vociare senza sosta per molto tempo, portando esempi illustri dell'antichità e spunti anche più recenti e in poco tempo anche quelli che fino a un momento prima erano pronti a rimandare, si trovarono con lo sguardo acceso di patria e libertà.
 Quando Checco non ebbe più fiato, fu Ronchi a prendere il suo posto: “Mio caro amico, hai ragione su tutto! Non avrei potuto trovare parole migliori! Non possiamo piegarci all'oppressione cieca e sorda di questo incapace!”
 “Ma uccidere un sovrano legittimo è peccato grave...!” disse a sorpresa uno dei presenti.
 Ludovico Orsi fece segno a Ronchi di non intervenire in malo modo. Non erano in molti e non era il caso di far del male a uno dei loro alleati. Le perplessità si sedano meglio con la convinzione, che non con un pugno sul naso.
 “Mio caro compatriota...” disse Ludovico, con voce bassa e suadente: “Quello che dite è verissimo, ma vi ricordo che Riario non è un sovrano legittimo. Gli Ordelaffi lo erano, e lo saranno i nuovi sovrani scelti da papa Innocenzo VIII. Quello che fece Sisto IV, mettendo il suo spregevole nipote sul trono della nostra città, quello fu un grave peccato, perché il potere venne strappato agli Ordelaffi senza motivo. Sta a noi riportare le cose al loro posto e Dio ce ne sarà grato.”
 Da come batté le mani il complice che aveva espresso la sua perplessità, Ludovico capì di essere stato abbastanza persuasivo.
 “Bene, amici miei. Tra due settimane, di Domenica, faremo il tentativo.” concluse Checco Orsi, sciogliendo la seduta con un gesto ampio delle braccia.
 
 Girolamo stava guardando fuori dalla finestra, annusando l'aria dell'aprile ancora acerbo e si divertiva a riconoscere i profumi e gli odori che gli arrivavano dalla città, sospinti da quella brezza leggera.
 Vide quasi per caso un piccolo drappello a cavallo, composto da due donne, tre uomini e un paio di muli e si sorprese nel vederli raggiungere proprio il palazzo.
 “Chi siete? Da dove venite? Che volete?” chiese, urlando un po' per farsi sentire bene.
 Sapeva che quelle stesse domande le stavano facendo anche le guardie che stavano parlottando con uno degli uomini a cavallo, ma non aveva la pazienza di attendere che qualche servo corresse da lui a riferire ogni cosa.
 “Siamo uomini pagati da Gian Piero Landriani per accompagnare qui a Forlì, presso la Contessa, la di lei madre e la di lei sorella!” rispose uno degli uomini al seguito delle due donne.
 Girolamo trasecolò.
 Strinse gli occhi e si rese conto di non aver mai conosciuto la madre di Caterina, tanto meno quella sorella che, a occhio e croce, era poco più che una ragazzina.
 Per un attimo si chiese se fosse vero o se fosse tutta una recita per permettere a cinque sconosciuti di entrare a palazzo e ucciderlo...
 Così si prese ancora un momento per squadrare le due dame.
 La ragazzina gli diceva poco o niente. Aveva i capelli chiari, sotto al cappuccio del mantello da viaggio, ma era un po' poco per tirare conclusioni.
 Passò all'altra e rimase molto colpito dalla bellezza della donna, non più giovanissima, ma ancora snella e dalla schiena dritta. Assomigliava in modo strabiliante a Caterina...
 Non c'erano dubbi, dicevano il vero.
 “Potete entrare!” concesse, facendo segno alle guardie di aprire il portone.
 Girolamo andò personalmente a cercare Caterina per darle la notizia, sperando che essere il messaggero di una simile nuova lo aiutasse a ricevere dalla moglie almeno un sorriso.
 Si mosse rapido per tutto il palazzo, cercando la moglie e sentendosi dire da uno dei servi che ella era assieme ai loro figli nella stanza dei giochi.
 Girolamo ringraziò: “Oh, Gasparino, siete sempre così gentile con me...!”
 Il ragazzo abbassò la testa con un breve sorriso.
 Era raro, di quei tempi, trovare servi tanto fedeli e tanto gentili, Girolamo ne era convinto. Negli ultimi giorni aveva permesso solo a quel ragazzetto di entrare nelle sue stanze dopo il tramonto. Era l'unico domestico di cui si fidava.
 Mentre ancora pensava a quanto fosse bravo quel Gasparino, Girolamo giunse a destinazione e bussò un momento, prima di aprire la porta e schiarirsi la voce.
  “Tua madre è appena arrivata, assieme a tua sorella.” annunciò, con circospezione, entrando nelle stanze dei bambini, dove Caterina stava raccontando loro delle vecchie storie di famiglia.
 Ella, che teneva il piccolo Sforzino tra le braccia, lo guardò stralunata, poi si affrettò a mettersi in piedi e, porgendo il lattante alla balia, le disse in fretta: “Preparate i miei figli, stanno per conoscere la loro nonna.”
 Senza degnare di uno sguardo Girolamo, che invece pareva aspettarsi chissà che ringraziamenti per una cosa di cui non aveva alcun merito, Caterina volò fuori dalla camera e corse verso l'ingresso.

   
 
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