Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Blablia87    18/03/2016    6 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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John trattenne il fiato, lasciando che l’acqua si richiudesse sopra di lui.
Gli occhi ben aperti, osservò le increspature della superficie muoversi sempre più lentamente, fino a fermarsi del tutto.
Il contrasto tra la pelle in fiamme e l’acqua fredda della vasca si tramutò in una sensazione di formicolio, come se qualcosa si stesse muovendo, freneticamente, sulla sua epidermide.
Si ricordava i bagni gelati. Ne aveva fatti molti, insieme ai ragazzi con i quali era stato, durante i loro calori. Ore intere passate a cercare di far loro trovare sollievo, le dita incociate in una promessa ed il freddo nelle ossa che trovava il motivo per essere sopportato nel vederli star meglio.
Adesso, improvvisamente gettato dall’altra parte, sentiva la paura mordergli lo stomaco, facendolo contorcere.
Aveva promesso a se stesso che mai, mai avrebbe permesso che qualcuno si prendesse cura di lui. Che mai nessuno lo avrebbe dovuto vedere bisognoso, indifeso. Passivo.
Aveva accudito i propri compagni con amore e devozione, ma sapendo che non sarebbe stato in alcun modo un pericolo, per loro. Anche nel momento di massima prostrazione, anche quando la loro stessa natura li aveva resi inermi, fragili.
C’era qualcosa, in quello sguardo di disperata richiesta di un rapporto che sempre arrivava, alla fine, al culmine del Calore, che lo aveva sempre atterrito. Era come specchiarsi nei loro occhi, vedendo un futuro che prima o poi sarebbe arrivato.
E c’era qualcosa di lui, ogni volta che – per aiutarli a rendere sopportabile quella pulsione – si era chinato su di loro per assecondarli, che era rimasto su quei letti disfatti, accanto ai loro corpi tremanti: la consapevolezza che per lui non ci sarebbe stata pietà, né amore, quando la ruota avrebbe girato, riportandolo con violenza alla propria posizione, china e succube.
Un rumore di passi lungo il corridoio - ovattato - giunse alle sue orecchie, e John riemerse per riuscire a capire chi fosse entrato.
Gli uomini di Greg, gentili, avevano accolto la sua richiesta di rimanere appostati fuori dal portone di Baker Street.
John li aveva osservati in silenzio per qualche secondo, due a destra e due a sinistra dell’ingresso, pensando che richiamassero l’attenzione più di un’insegna luminosa.
Se mai il killer avesse avuto qualche dubbio su dove fosse casa loro, adesso poteva dirli dissipati.
“Non c’è modo che ve ne andiate, vero?” Aveva tentato, ricevendo in cambio un rapido segno di diniego col capo.
“Immaginavo.” Aveva sospirato, facendosi poi largo tra di loro. Un nuovo brivido gli aveva attraversato la spina dorsale, esplodendo poi all’altezza del viso. In fretta aveva aperto la porta e salito le scale, ignorando i richiami allarmati della signora Hudson.
Una volta arrivato nel salotto, si era richiuso la porta alle spalle, lasciandosi cadere sul pavimento con un tonfo.
Razionalmente, per esperienza e per i propri studi, sapeva perfettamente che in quella fase niente di grave, quanto meno a livello fisico, sarebbe potuto accadergli. Sbalzi di temperatura, aumento dell’appetito, irritabilità. Questi, di base, i fastidi maggiori del proestro. Ma ciò che gli aveva fermato le gambe ed il respiro, costringendolo sul pavimento, era altro. Era ciò che riusciva a scorgere oltre la tenda di quei pochi giorni di fastidi più o meno lievi.
Era lo spettro della debolezza muscolare, della necessità, della fame, che lo fissava con occhi di fuoco oltre il limite del proprio coraggio.
Quanto sarebbe durata questa prima fase, se il Calore di per sé era giunto con così tanto anticipo? Gli avrebbe dato il tempo di capire, di organizzarsi, di cercare un modo per sopravvivere, o lo avrebbe ridotto ai piedi di Sherlock, implorante, entro poche ore?
Una nausea densa, bruciante, gli aveva corroso la gola, calda come la sua pelle ed il suo respiro.
Con disperazione, a fatica, si era imposto di tornare in posizione eretta, e di andare in bagno.
L’acqua fredda era sempre stata di aiuto, per chi si era trovato ad assistere. Ora, era il turno che badasse a sé, fin quando possibile.
Lento, spalle contro la parete per sostenersi meglio e testa svuotata di ogni ulteriore pensiero, si era trascinato in bagno, chiudendosi la porta alla spalle.
Un altro rumore, più forte. Qualcosa di fragile e pesante che si infrange sul pavimento. Un sospiro irato.
John trattenne il fiato, appoggiando una mano sul bordo della vasca, pronto a scattare in piedi.
“SIGNORA HUDSON!” La voce di Sherlock, perentoria, si sparse per l’appartamento.
John ebbe l’istinto di accucciarsi il più lontano possibile, odiandosi immediatamente per averlo anche solo pensato.
La donna rispose poco dopo, ma il medico non fu in grado di capire cosa stesse dicendo.
“HO BISOGNO DI UNA MANO!” Le rispose Sherlock, prima che un altro tonfo lo facesse esplodere in un ringhio gutturale.
John si alzò, uscendo dalla vasca con attenzione.
“Sherlock?” Lo chiamò, a voce bassa, portandosi vicino alla porta.
“Resta lì.” Fu la sbrigativa risposta che ottenne da uno Sherlock che doveva essersi avvicinato alla porta in fretta, giusto il tempo di proferire quelle poche parole, per poi allontanarsi nuovamente.
L’odore del detective giunse al medico carico di qualcosa che non aveva mai sentito prima.
Era leggero, smussato. Come se la sua scia si fosse stemperata su toni caldi.
John si appoggiò alla porta, ascoltandosi rispondere attraverso il respiro, la pelle.
Non avrebbe dovuto farlo, non c’era alcun motivo per rimanere lì, inspirando entrambi con lentezza ed attenzione. Ma ciò che era venuto fuori da quel contatto fugace portava con sé il bisogno di essere  percepito, e il medico rimase immobile, continuando a ripetersi che niente di male poteva accadere, in quella fase. Che niente di male poteva venire, da quell’odore che era un mosaico di loro due.
“Si può sapere che succede?” Provò il medico, nuovamente.
“Oh cielo!” La voce della signora Hudson, sorpresa e preoccupata insieme, si unì ad un rumore confuso di carta e vetro.
“Mi aiuti a sistemare.” Le disse Sherlock, iniziando a muoversi per la stanza con passi veloci.
“Da dove arriva tutta questa roba?” Domandò titubante la donna.
“Mycroft.” Rispose il detective, aprendo uno sportello con forza.
John si allontanò dalla porta, confuso.
Si avvolse nell’accappatoio, ascoltando i rumori eterogenei che giungevano dalla sala accanto.
“Sherlock?” Tentò ancora, corrucciando la fronte e abbassando il capo in cerca di un senso a quanto stava sentendo.
“Ancora un secondo!” Gli gridò lui, mentre una risata soffocata della signora Hudson accoglieva le sue parole.
“Perfetto.” La voce di Sherlock parve soddisfatta. “Signora Hudson, si ritenga esentata da spesa e preparazione dei pasti per tutta la prossima settimana.” Aggiunse, nuovamente vicino alla porta del bagno.
“Il the?” Domandò la donna, già vicina alla porta d’ingresso.
“Anche dal the. Grazie.” Le rispose il detective, allontanandosi lungo il corridoio per accompagnarla alla porta.
John la sentì cigolare su i cardini, per poi chiudersi.
Solo in quel momento si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo, concentrato a cercare di capire cosa stesse succedendo.
“Ok, puoi uscire adesso.” La voce di Sherlock si fece vicina e poi si affievolì, segno che avesse pronunciato quelle parole attraversando il corridoio, in direzione della propria camera.
John si tolse l’accappatoio, appendendolo con cura al gancio di lato alla porta. Poi si rivestì, indossando gli abiti con i quali era tornato a casa. Si rigirò il maglione tra le mani, indeciso se metterlo o meno. Alla fine decise di lasciar perdere: continuava a sentire un gran caldo, ed in aggiunta a questo, la sensazione dei vestiti sulla pelle era già sufficientemente fastidiosa senza che aggiungesse un altro strato.
Ripiegò quindi il pullover e lo bloccò tra il braccio e il fianco, facendo scattare la serratura.
Titubante, si affacciò nel corridoio, voltando la testa a sinistra, verso la camera da letto di Sherlock, trovandola chiusa.
Mosse qualche passo in direzione della cucina, scoprendo che tutti gli strumenti di lavoro del detective erano stati accantonati in un angolo, lasciando il tavolo completamente sgombro.
“Mi serviva spazio per le buste.” Si giustificò Sherlock, comparendo alla spalle del medico.
Ancora una volta, la sua scia si mostrò addolcita, e John non poté fare a meno di voltarsi verso l’altro con aria interrogativa.
Trovò il detective, sguardo serio e postura rigida, con addosso una tuta grigia di un paio di taglie più grande della sua.
Mai, nelle settimane che avevano vissuto assieme, lo aveva visto con indosso qualcosa di diverso dai suoi abituali pantaloni scuri. L’unica cosa a cambiare giornalmente era il colore della camicia, ed anche in quello le variabili erano solitamente ridotte a tre: nero, viola, bianco.
John socchiuse le labbra per la sorpresa, non riuscendo a capire a cosa fosse dovuto un cambio tanto drastico.
“È l’unica cosa che possiedo che abbia uno spessore del tessuto tale da poter limitare, anche solo marginalmente, il mio odore.” Spiegò il detective, asciutto, superando John ed entrando in cucina.
“Mi sono fatto consegnare una buona scorta di cibo.” Iniziò, aprendo il frigo e mostrando al medico il contenuto. “Frutta, prevalentemente. Hai bisogno di vitamine. Qui, invece – continuò, chiudendo l’elettrodomestico e passando ai pensili della cucina – ci sono gli alimenti in scatola. Carne, legumi, biscotti…” Elencò, continuando a camminare e ad aprire sportelli.
“Sherlock…” John, frastornato, osservava il detective muoversi con perizia chirurgica tra un ripiano e l’altro, mostrando con cura il contenuto di ognuno di essi.
“Sherlock.” Provò di nuovo, quando si accorse che il detective stava continuando a parlare, ignorando la sua voce.
“Sì.” Gli concesse l’altro, fermandosi in prossimità del tinello. “Dubbi?” Azzardò, socchiudendo gli occhi confuso davanti all’espressione spaesata del medico.
“Che… che stai facendo?” John si portò due dita all’attaccatura del naso, scuotendo la testa. “No, aspetta. Intendo dire: perché lo stai facendo?” Puntualizzò, cercando di evitare che Sherlock gli rispondesse che lo stava mettendo a parte di cosa fosse da lui stato acquistato.
“Perché sei in proestro.” Fu ciò che ottenne, con il risultato di fargli rafforzare il movimento del capo.
“Pensavo avessimo detto che me ne sarei andato, una volta che fosse iniziato.” Gli ricordò, facendosi uscire a forza le parole attraverso la gola improvvisamente chiusa.
“Vero.” Sherlock richiuse gli sportelli, dandogli le spalle. “Ma nessuno dei due aveva preventivato la presenza di un killer, in quella dichiarazione di intenti.” Aggiunse, tamburellando con le dita sul ripiano metallico del lavandino.
“Il killer cambia il nostro patto?” Chiese John, alzando gli occhi sulle spalle dell’altro.
“La morte cambia sempre i patti.” Il detective si diede una piccola spinta con le braccia, staccandosi dal ripiano e dirigendosi verso il salotto.
“Fra una settimana, forse anche meno, non riuscirò neanche ad alzarmi dal letto, Sherlock.” John aggirò il tavolo della cucina e lo seguì nell’altra stanza, guardandolo sedersi sulla sua poltrona e accendersi una sigaretta con gesti lenti.
“Non è questo che vuoi. Non è la tua vita.” John si appoggiò con le spalle allo stipite della porta della cucina, sforzandosi di ignorare le ondate di calore che sentiva risalire lungo la schiena.
“Non è neanche la tua.” Sottolineò l’altro, lanciandogli una rapida occhiata prima di rivolgersi con lo sguardo al camino.
“No, non è neanche la mia.” Gli concesse il medico. “Ma è il mio corpo, e per quanto desideri farlo, non posso fuggirgli lontano. Tu puoi. Anzi, devi.” John rimase in silenzio, in attesa che il detective desse segno di averlo sentito.
Sherlock, invece, continuò a tenere gli occhi lontano da lui, portandosi la sigaretta alle labbra.
“Dico davvero.” Insistette John, ascoltando la scia del detective alzarsi appena.
“Lestrade sarà qui a momenti con le tue registrazioni. Ho chiesto che portasse anche tutti i campioni che stavo analizzando al Bart’s. Continuerò gli esperimenti al piano di sotto, nell’appartamento sfitto nella zona interrata. Hai cibo a disposizione, e tutto lo spazio che ti occorre. Spero di trovare una soluzione prima dell’estro, ma se così non fosse, qui potrai avere assistenza adeguata, cosa non possibile, fuori da queste mura. Parlerò personalmente con la signora Hudson, se dovesse essere richiesto il suo intervento.” Sherlock riversò le parole fuori dalla propria bocca velocemente, quasi avesse paura di dimenticarle. Le lasciò a terra, tra di loro, senza voltarsi a vedere quante e quali fossero rotolate fino al medico.
John lo guardò chiudere gli occhi e prendere un profondo, silenzioso, respiro.
La sua scia era tornata smussata, tenue, ed il medico sentì il proprio cuore farsi dolorosamente più spazio nello sterno, carico di un bisogno irrazionale di sedersi accanto a lui, di una promessa che si vergognava anche solo a immaginare.
“Non devo andarmene, quindi?” Sussurrò, la voce più insicura di quanto volesse.
Sherlock socchiuse gli occhi, una lenta voluta di fumo chiaro sospesa tra le labbra ed i capelli.
“Resta.”
 
***
 
Stava mangiato più di quanto si ritenesse capace di fare, spinto da una fame inarrestabile, violenta, che si rinnovava ad ogni morso.
Alla fine si impose di smettere, allontanandosi a fatica dalla cucina, diretto al divano del salotto.
Le tende ondeggiarono, spinte dal freddo vento notturno, e John lasciò che una folata gli scivolasse addosso, sentendo la pelle bruciare a quel contatto.
Indossare solo i pantaloni del pigiama lo aveva aiutato - in un primo momento - a limitare il fastidio, ma il sollievo era durato il tempo di scendere nuovamente dalla propria camera al piano di sotto.
Si sdraiò, lanciando uno sguardo all’orologio sopra il caminetto.
Le tre di notte.
Sherlock era sceso al piano interrato verso le venti, dopo aver sistemato la stanza con l’aiuto di Lestrade.
L’ispettore era rimasto poi con John un paio d’ore, aiutandolo a trascrivere le registrazioni e aspettando che completasse il referto. Si erano lasciati con l’impegno da parte di John di mandare un messaggio ogni sei, otto ore massimo, in modo da poter tenere monitorata la situazione.
Rimasto solo, il medico aveva provato a cercare ristoro facendo un altro bagno freddo, e poi nel cibo, nella speranza che una volta acquietata la fame sarebbe riuscito a riposare almeno qualche ora.
Nei fatti, però, il bisogno di nutrirsi non si era ridotto, così come il bruciore costante della pelle.
Ed ora, immerso nel silenzio di Baker Street, con le sole luci dei lampioni ad illuminare la stanza, John sentì il bisogno improvviso di scendere da Sherlock, di sentire la sua voce.
Non era qualcosa di legato ad una necessità ormonale, no. Aveva a che fare con il silenzio che gli vibrava attorno, e con la notte. Con le luci calde della strada, e le voci lontane di chi stava passando sotto alle loro finestre.
Aveva a che fare con il cuore, ed il suo battergli con insistenza contro la gabbia toracica ogni volta che pensava che a due rampe di scale da lì c’era un uomo chino su un microscopio in cerca di una soluzione per un suo problema.
Riguardava la dispensa piena, e le finestre spalancate. Riguardava gli abiti, quelli cambiati e quelli conosciuti.
Era legato al bavero di un cappotto che veniva alzato, e alla morsa allo stomaco che gli dava pensare agli occhi azzurri che nascondeva allo sguardo del mondo.
Gli ricordava alcune notti, lontano da casa, steso sulla sabbia calda di un luogo ostile, chiedendosi che senso avessero stelle tanto grandi su miserie e uomini tanto piccoli.
Aveva l’odore della notte che entrava con violenza da le finestre, con tutto il suo carico di inspiegabile. Di pace e di cose celate.
John si mise a sedere di scatto, ascoltando il proprio respiro spingere per uscire.
Si portò le mani al viso, puntellandole sulle ginocchia, chino in avanti.
Non c’era più fame, né paura, ma solo un terrore nuovo, adesso, ad occupare ogni suo pensiero.
Quando era successo? Che l’idea di avere un’Alpha vicino non lo aveva più fatto tremare, carico di repulsione? Quando aveva deciso che sì, sarebbe rimasto? Quando aveva scelto di credere?
Lo stomaco si contorse, e John si piegò ancor più su se stesso. Il silenzio iniziò ad apparirgli assordante, quanto il battito del proprio cuore, scoordinato come i passi che si trovò a compiere ancor prima di rendersene conto.
Al buio, solo con i propri respiri, iniziò a scendere le scale, sentendosi immergere ad ogni gradino in qualcosa di profondo, di denso.
L’ingresso, vicino alla porta della signora Hudson, era illuminato solo dalla luce tenue proveniente dalla porta a vetri che, dal sottoscala, conduceva alla zona interrata.
Trattenendo il respiro, John appoggiò la mano alla maniglia, serrando gli occhi prima di spingerla verso il basso.
L’odore di Sherlock lo stravolse, tanto forte da farlo tremare. Doveva essere rimasto chiuso lì dentro per tutte quelle ore, senza uscire. Con passo incerto scese i pochi gradini che conducevano alla stanza, trovandola illuminata da poche candele, quasi tutte raggruppate sul tavolo posto al centro, vicine al microscopio sul quale Sherlock era chino.
Il detective smise di muovere le dita attorno alle manopole dello strumento, alzando lentamente la testa in direzione di John.
“Come fai a lavorare così?” Il medico osservò le ombre prodotte dalle piccole fiamme ballare sui muri vuoti della stanza. “Dovresti tornare di sopra.” Aggiunse, posando gli occhi sul viso di Sherlock per qualche secondo, il tempo di rendersi conto di quanto pallido e stanco apparisse.
“Ho luce a sufficienza. Purtroppo la signora Hudson non è disposta a pagare le bollette dell’elettricità anche per questo ambiente.” Rispose il detective, con voce bassa, quasi un sussurro. “Cosa ci fai qui? Dovresti essere di sopra.” Aggiunse poi, muovendo attento lo sguardo sul corpo arrossato dell’altro, prima di tornare a dedicarsi al microscopio.
“Anche tu. Si gela, qua sotto. Sembra più un posto adatto ad un Omega in proestro, che non ad un Alpha.” Tentò, abbozzando un sorriso.
“Sembra un posto adatto a chi ha bisogno di silenzio. Mentre il nostro appartamento sembra perfetto per chi deve mangiare e farsi un bagno freddo con cadenza regolare.” Rispose l’altro, distrattamente.
“Nostro.” Ripeté John, sorpreso, sottolineando la parola con la voce. “Il nostro appartamento.” Disse ancora, osservando Sherlock lanciargli una rapida occhiata.
“Ci abitiamo entrambi, quindi è corretto definirlo “nostro”.” Sherlock si staccò dalle lenti per appuntare velocemente qualcosa su un foglio.
“Non lo avevi mai definito così, prima.” John si sedette sull’ultimo gradino, osservando i propri piedi nudi alzare un po’ di polvere mentre li allungava avanti a sé, stendendo le gambe. “Novità?”
“No, nessuna. Non capisco davvero perché il Calore sia iniziato tanto presto. Non vedo niente in grado di spiegarlo.” Sherlock si passò nervosamente una mano tra i capelli,  lasciandoli disordinati e scomposti.
John inclinò la testa da un lato, osservando i riccioli scuri dell’altro aprirsi con irruenza attorno al suo viso, pensando se dirgli o meno di quanto successo in obitorio. Non fece in tempo a finire di formulare quella riflessione, che un'altra immagine si impose alla sua attenzione: Victor. Si chiese se avesse mai messo le mani tra i capelli di Sherlock, e se sì, in che modo. Li aveva mai accarezzati? Afferrati con forza?
Il detective lo aveva mai tenuto per mano?
Aveva mai riso con lui? Quest’ultimo pensiero lo attraversò come una lama, e si sorprese a scoprirsene ferito.
Victor lo aveva mai fatto ridere?
Non riusciva a immaginare Sherlock farlo di gusto. Non riusciva neanche a concepire che il suo viso potesse assumere un’espressione simile. Eppure… Eppure, lo aveva fatto, in passato?
Certo che doveva averlo fatto, era assurdo ritenere il contrario.
Lo aveva…
“John.” La voce di Sherlock lo richiamò dai suoi pensieri, facendolo sussultare.
“Sì.” Rispose lui, con voce impastata.
Il detective socchiuse gli occhi, guardandolo con aria seria. “La tua scia.” Disse poi.
“La mia scia?” Ripeté il medico, senza capire. 
“Va’ di sopra.” Il detective si alzò, facendo con calma qualche passo indietro. “Non mi piace la tua scia. Va’ via.” Ripeté, la voce ferma ma bassa, quasi un sussurro.
“Vorresti essere così gentile da spiegare?” John si mise in piedi a sua volta, ignorando la sensazione di calore sempre più forte che sentiva in ogni parte del corpo.
“John.” Un richiamo. Quasi una supplica. Sherlock indietreggiò ancora di un passo.
La sua scia divenne salata, morbida, e John dovette respirarla un paio di volte prima di capire.
Turbamento. Emotività. Eccitamento.
“Smettila. Adesso.” Sherlock non stava più chiedendo, stava ordinando. Con voce roca, a fatica.
“Io?!” Esplose John, prima di riuscire, finalmente, a sentirsi.
Con orrore si accorse che era sua la componente vibrante, quella che stava richiedendo un contatto. Era lui, non Sherlock, ad essere eccitato.
Istintivamente fece un passo indietro, inciampando sul gradino alle sue spalle.
Finì sulle scale, sentendosi andare in pezzi. Dolore, vergogna, fame, caldo, eccitazione, paura, esplosero tutte insieme, lasciandolo senza fiato.
“Non sarei dovuto scendere.” Riuscì a dire, sentendo nausea e lacrime bloccargli la gola.
“È normale che tu senta la necessità di-“ Iniziò Sherlock, con voce calma.
“No.” Lo interruppe il medico, alzando una mano per farlo tacere. “No.” Disse ancora una volta, cercando di mettersi in piedi.
“John.” La voce del detective si perse nel suono frastornante del respiro di John, l’unica cosa che il medico riuscisse a sentire, assieme alla propria vergogna.
“Va bene. Davvero.” Deglutì, girandosi verso la porta. “Non sarei dovuto venire.”
Velocemente, con passo malfermo, uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta.
Sherlock sentì i suoi passi lungo le scale. Lo sentì inciampare un paio di volte, e poi continuare a salire, fino alla propria stanza.
Al suono della porta che veniva chiusa, il detective sentì di poter allentare la presa sul proprio autocontrollo, e si voltò verso il muro, portandosi le mani alla testa.
Le affondò nei capelli, appoggiando la fronte contro la parete.
Lo aveva giurato a se stesso, sul cortile della villa di Victor, quel pomeriggio estivo di molti anni prima.
Se lo era ripetuto fino a quando non aveva finito con crederci davvero.
Mai più nessuno sarebbe arrivato tanto vicino a lui da poterlo sfiorare.
Eppure, per quanto si sforzasse di rimanere calmo, per quanto cercasse di spiegare ogni sensazione provata in quel momento (da lui e da John) come una mera risposta ormonale ad una sollecitazione (della stessa natura ed altrettanto semplice) non riusciva a non pensare che rimanere lì, immobili, fosse sbagliato.
Non aveva mai abbracciato nessuno, in tutta la vita.
Era stato Mycroft, in rare occasioni, a stringerlo a sé, da bambino. Casi isolati di affettività sbrigativa, quasi disdicevole, da tener celata agli occhi degli altri.
Eppure qualcosa, nella sua testa, spingeva per convincerlo che tenere John il più stretto possibile vicino a sé fosse l’unica cosa giusta.
Sherlock si staccò dal muro, iniziando a muoversi in cerchio per la stanza.
Ormoni, nient’altro che ormoni. Molecole. Causa ed effetto, continuò a ripetersi.
La scia di John si affievolì, fino a scomparire. Quando anche l’ultima traccia di lui si dissolse,  Sherlock si bloccò, sentendo attorno a sé tutto il freddo che non aveva percepito fino a quel momento.
Tu vuoi che se ne vada? La voce di Lestrade rimbombò nel vuoto che aveva invaso la sua mente nel momento stesso in cui si era immobilizzato.
Sherlock allontanò con un gesto secco del capo il ricordo di quella conversazione.
Molecole. Reazioni.
Tornò a sedersi davanti allo strumento, chinandosi sulle lenti. Aveva bisogno di concentrarsi su quanto stesse accadendo sulla piastra. Aveva bisogno di trovare un risposta ed una soluzione, in fretta. Aveva bisogno di far tornare John quello di prima, allontanando da loro lo spettro di un sentimento artificiale che nessuno dei due desiderava davvero.
Aveva bisogno che John tornasse…
Non ci sarà mai nessuno come lui, lo sai?
“Maledizione!” Sherlock si allontanò dal microscopio con un gesto brusco, dandosi una spinta contro il tavolino per allontanarsi dal piano di lavoro. La sedia grattò contro il pavimento, in un gemito alto e stridulo.
Si alzò, in cerca del cellulare.
In fretta, dita veloci e mani leggermente tramanti, scrisse al fratello.
 
[To: Mycroft][03:41 am]
Novità su Jim Moriarty?
 
Lanciò il cellulare di fianco ai fogli sparsi sul ripiano di lavoro, e riprese a muoversi per la stanza, sfiorando con le spalle le pareti, incurante del fastidio che l’attrito tra il muro e la tuta gli procurava.
Il telefono vibrò poco dopo, e Sherlock quasi vi si avventò sopra.
 
[From: Mycroft][03:46 am]
Ce ne fossero, saresti stato avvertito. John?
 
La parte finale della risposta del fratello ebbe il potere di farlo esplodere.
Aveva chiesto a Mycroft aiuto per poter fare scorta di cibo, e aveva dovuto, necessariamente, accennare al motivo dietro ad una richiesta tanto strana.
Il fratello si era limitato ad inviare una macchina al Bart’s, carica di ogni cosa da lui richiesta.
Nessun ulteriore messaggio tra loro, fino a quel momento.
Ciò nonostante, sapeva perfettamente cosa il maggiore stesse pensando: un Omega alla soglia del Calore in casa, e lui si stava preoccupando che si nutrisse.
Sostanzialmente stava agendo da Alpha. Era anzi andato oltre, arrivando a comportamenti propri di un Alpha legato.
Sherlock riusciva a vederlo, Mycroft, cellulare in mano e lieve sorriso di scherno sulle labbra, mentre digitava con gesti lenti il nome di John.
Un nuovo messaggio in entrata lo colse di sorpresa, ancora intento a cercare un modo adeguato per rispondere al fratello.
 
[From: Mycroft][03:48 am]
Sai che le molecole che determinano un Alpha si chiamano “Om-“?
 
Sherlock rilesse un paio di volte il messaggio, senza capire.
 
[To: Mycroft][03:49 am]
Certo. Dovrebbe avere un qualche senso, questa domanda?
 
Digitò, irato, continuando a muoversi per la stanza.
Lui era un Om-, John un Om+.
Banale, pensò.
Una semplice convenzione scientifica per indicare due soggetti, uno con la molecola della determinazione Omega attiva, ed uno che non la presentava affatto.
Avrebbero potuto chiamarle in altri mille modi, ed il risultato non sarebbe cambiato.
 
[From: Mycroft][03:50 am]
Compatibilità.
 
Sherlock si portò il telefono più vicino agli occhi, convinto di non aver letto bene.
“Compatibilità”, sillabò, incredulo.
Che Dio mi aiuti, ma penso che sareste perfetti, assieme. La voce di Lestrade si fece nuovamente spazio tra i suoi pensieri.
Sherlock si portò la mano libera alla tempie, lasciandosi andare ad un ringhio basso, gutturale.
Non voleva pensare a John, non voleva pensare a Mycroft, ed ancor meno voleva continuare a pensare a quella conversazione con l’Ispettore.
Doveva calmarsi. Solo calmarsi, e tornare in sé.
Spense il telefono, lasciandolo a terra. Si impose di tornare a sedere, e con gesti meccanici tornò a sistemare le lenti in modo da poter continuare i propri esperimenti.
Doveva trovare un modo. Lo aveva promesso. Lo aveva promesso a lui.
Lo avrebbe fatto tornare l’uomo libero che era, e poi lo avrebbe guardato scegliere in piena libertà cosa fare della propria vita.
Qualcosa, all’altezza dello stomaco, iniziò a dolere, ma Sherlock la ignorò.
Non avrebbe mai accettato che John lo cercasse semplicemente per una naturale risposta biologica ai suoi bisogni. Erano migliori degli altri. Consapevoli. Loro… loro erano più di questo.
Il dolore si allargò, fino a far bruciare i polmoni, e far contrarre qualcosa, all’altezza del ventre.
Non aveva bisogno di un Omega. E John non aveva bisogno di una vita da infelice. Cosa avrebbe mai potuto avere, da offrirgli?
La gola si chiuse, ed assieme ai respiri normali scomparve la capacità di Sherlock di rimanere oltre in quella stanza.
Uscì in fretta, bloccandosi poi sul pianerottolo.
Non riusciva a pensare razionalmente a cosa fare. Perché sentiva il bisogno di salire al piano di sopra? Era una necessità sua, o del suo corpo?
Rimase immobile, in penombra, fin quando la stanchezza non fu tale da annebbiare quel poco di resistenza che gli era rimasta.
Lentamente, tenendosi contro la parete, salì fino al primo piano, fermandosi davanti alla porta del salotto. Il silenzio era totale, e Sherlock si perse ad osservare la luce gialla dei lampioni ballare tra le fughe del parquet. La scia di John, proveniente dal piano di sopra, si mescolò al suo respiro, muovendosi assieme alle ombre che si inseguivano molli sulle pareti delle scale.
Il detective chiuse gli occhi, arrendendosi. Alla stanchezza, alla paura. Alla speranza.
Si voltò, lento, muovendo gli ultimi passi in direzione della stanza del medico.
Poi, una volta in cima, si lasciò cadere a terra, appoggiandosi con gentilezza contro la porta.
John era sveglio. Lo sapeva. Lo sentiva. Il suo odore era troppo forte, troppo cangiante.
Tremava, esattamente come lui, in silenzio.
Come lui si domandava cosa fare.
Come lui aveva infine chiuso gli occhi, lasciando che fossero lo scie a parlare per loro.
Ascoltando i loro odori mescolarsi, fino ad addormentarsi abbracciati.


Angolo dell’autrice:
non riesco ad aggiungere molto, a quanto scritto.
Non so neanche io se sono riuscita compiutamente a rendere l’idea di quanto amore e quanta paura ci sia, in queste due persone che si respirano al di là di una porta chiusa.
Spero di sì, lo spero davvero, perché… Beh, perché scrivere questo capitolo è stato un viaggio incredibile, e spero di essere riuscita a portarvi con me, almeno un po’.
 
Grazie a tutte/i, come sempre.
 
B.

PS: vi lascio con un'immagine bellissima, reperita su internet. 
Mi sembra adatta.

   
 
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