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Autore: Adeia Di Elferas    21/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il sole era ancora pallido e Giacomo Ronchi si stringeva nel giaccotto per non rabbrividire nell'arietta fresca dell'alba.
 La fortuna era dalla sua: Gasparino si era appena affacciato sulla porta secondaria e quindi avrebbe potuto parlargli subito, senza tanti problemi.
 “Zio, che ci fate qui?” chiese il ragazzo, bloccandosi sull'uscio nel vedere Giacomo Ronchi avvicinarsi a lui con un sorriso di circostanza.
 “Nipote adorato...” prese a dire questi, cercando le parole migliori e fingendosi molto imbarazzato: “Sembra quasi che il destino mi abbia concesso questa occasione...”
 Gasparino strizzò gli occhi contro la luce incerta del mattino e disse, incuriosito: “Ditemi, zio, che posso fare per voi...?”
 “Ecco, la questione mi mette un po' in difficoltà, ma almeno tra parenti bisogna parlarsi chiaro, giusto?” fece Giacomo, incrociando le braccia sul petto e parlando a voce bassa.
 Gasparino si disse concorde e si appoggiò allo stipite della porta: “Non fatemi preoccupare... Ditemi cosa vi angoscia e vedremo di porvi rimedio.”
 “Ecco, da tempo io e Checco Orsi dobbiamo del danaro al Conte...” ricominciò Ronchi, recitando tanto bene da riuscire anche ad arrossire, come se proprio quelle parole gli pesassero: “E da giorni vogliamo incontrarlo, da soli, si intende, ma con una scusa o un'altra non si lascia avvicinare. Se solo potessimo vederlo in un momento della giornata in cui è solo, tranquillo, di umore un po' più lieto del solito...”
 “Ma cosa dovete dirgli?” indagò Gasparino, mentre si arrovellava, pensando a quale fosse il momento della giornata migliore da suggerire allo zio.
 “Abbiamo risolto il problema del debito – spiegò subito Giacomo – e sappiamo come restituirgli ogni cosa...”
 “E allora perché non glielo fate dire direttamente da Ludovico Orsi durante una seduta in Consiglio?” chiese Gasparino, aggrottando la fronte.
 Ronchi, che non si aspettava tutte quelle domande, fu sul punto di perdere la pazienza, ma si trattenne: “Perché sarebbe un motivo di vergogna, per noi, saper che il debito è stato nominato davanti a un intero Consiglio...!”
 Gasparino parve comprendere i motivi dello zio e non sospettò nemmeno per un secondo della sua buonafede.
 Dopo averci riflettuto un momento, alzò l'indice e fece avvicinare lo zio per sussurrargli nell'orecchio: “Venite dopo l'ora di cena, questa sera. Dopo mangiato il Conte ha preso l'abitudine di ritirarsi nella stanze delle Ninfe. I servitori a quell'ora sono nei locali dei domestici a cenare e la Contessa mette a letto i bambini, quindi nessuno vi disturberà.”
 “Come faccio a entrare nel palazzo? Dubito che le guardie mi lascerebbero passare, a quell'ora...” fece notare Ronchi, con piglio da cospiratore.
 Per fortuna Gasparino non colse il cambiamento di tono dello zio e disse: “State nella piazza, quando sarà il momento io vi farò un segnale e vi farò entrare.”
 “Grazie, nipote mio.” fece Ronchi, allungando le braccia per stringere a sé il ragazzo.
 Questi accettò l'abbraccio, ma si sentì in dovere di precisare: “Non potrei far entrare qualcuno a palazzo senza il permesso del Conte. Lo faccio solo perché siete mio zio e voglio aiutarvi a levarvi da un guaio.”

 “Chi è questo Tommaso Feo di cui tutti parlano?” chiese Lucrezia, mentre lei e le figlie tornavano verso il palazzo, appena in tempo per il pranzo.
 Avevano visitato la città, come avevano fatto spesso in quei giorni, e, quando Caterina si era fermata per qualche minuto a parlare con Andrea Bernardi alla sua bottega, Lucrezia e Bianca ne avevano approfittato per mescolarsi tra la gente della strada e origliare qualche pettegolezzo.
 “Il castellano della rocca di Ravaldino.” rispose prontamente Caterina, offrendo il braccio alla madre nel salire le scale del palazzo: “Perché?”
 Lucrezia e Bianca si scambiarono una breve occhiata ricca di sottintesi e poi tutt'e due risposero, quasi all'unisono: “Niente.”
 “Avete sentito dire che sono la sua amante?” chiese Caterina, senza giri di parole, proprio mentre affiancavano le guardie dell'ingresso.
 Bianca avvampò e Lucrezia si affrettò a dire che era ben consapevole del fatto che quelle erano solo illazioni stupide e tendenziose.
 “Appunto, sono solo chiacchiere messe in giro da non so chi e non so perché.” chiuse il discorso Caterina.
 Mentre attraversavano l'ingresso, incrociarono Girolamo, che stava andando a passo di marcia verso la sala da pranzo.
 “Siete in ritardo...” disse alle donne, senza guardarle: “Il pranzo sarà in tavolo tra poco, vi conviene sbrigarvi.”
 Caterina sbuffò appena e assicurò che sarebbero state pronte il prima possibile.

 Mentre il sole cominciava a calare sulla città di Forlì, nella piazza centrale si profilarono degli uomini vestiti di scuro.
 Le armi, debitamente nascoste sotto giubbe e mantelli, non davano nell'occhio e nessuno dei passanti fece caso nemmeno agli sguardi scuri che quegli individui portavano in volto.
 Checco Orsi si aggirava senza nascondersi. Essendo il capitano della guardia non temeva di essere fermato, nemmeno quando chiamò a sé un paio di congiurati, vestiti come soldati, e diede loro disposizioni ad alta voce.
 Uno di questi, cugino di Checco, venne mandato subito, spada alla mano, a posizionarsi davanti alla scala che portava alla torre che comunicava con le camere della Contessa.
 “Fai bene la guardia!” gli gridò, per non sollevare sospetti.
 In fondo era suo preciso compito, salvaguardare la sicurezza dei Conti. Che male c'era a presidiare un punto così delicato del palazzo?
 “Tu!” ordinò Checco, con il fare rude che avrebbe usato con un vero soldato: “Là, davanti all'ingresso, vicino alle guardie già posizionate...”
 Ludovico Orsi, armato di tutto punto, recitò la sua parte e si andò a mettere vicino alle vere guardie, che accettarono senza sospetti la sua presenza.
 Checco Orsi scrutò la piazza e riconobbe in punti riparati il profilo di Pansecchi e di Ronchi. Poi guardò il cielo, sempre più scuro. Si chiese se i Conti stessero cenando. Sperò che il pasto fosse di loro gradimento, perché sarebbe stato l'ultimo.

 Il pomeriggio trascorse lento e pacifico. Girolamo si era dedicato per tutto il tempo ai conti della città, senza capirci molto, mentre Caterina era rimasta con la sua famiglia a far giocare i bambini.
 Ottaviano non aveva voluto andare ad addestrarsi con la spada e Caterina, una volta tanto, gli aveva concesso di disertare la lezione.
 'Tanto – aveva pensato con una certa delusione – ormai è chiaro che la spada non sarà mai il suo mestiere...'
 Solo a sera fatta, dopo cena, appena prima che Caterina mettesse a letto i figli, Girolamo era andato in cerca della moglie, che, con riluttanza, gli aveva concesso un momento per parlare a quattr'occhi.
 “Spiegami perché ci sono queste differenze tra entrate e spese...” le disse Girolamo, porgendole alcuni fogli: “Io ci ho provato, ma non lo capisco...”
 Caterina gli lanciò un'occhiata sprezzante, prendendo in mano le carte. In altri tempi gli avrebbe detto che non capiva perché era semplicemente troppo stupido, ma non voleva aizzarlo, non mentre sua madre e sua sorella erano a casa loro.
 Aveva tutto l'interesse a mantenerlo tranquillo e per farlo l'unico modo che conosceva era aiutarlo e guidarlo, per quanto possibile, per evitargli di incappare in nuovi errori.
 Caterina diede una veloce scorsa ai recenti resoconti stilati da Matteo Menghi e per poco non le prese un colpo. Aveva sbagliato a delegare così tanto, seppur per così poco tempo.
 Erano state fatte, in pochissimi giorni, ingenti spese inutili e non giustificate, ecco il motivo di quelle enormi discrepanze.
 “E il tuo amico Menghi cos'ha da dire in merito a questi conti?” chiese Caterina, mentre continuava a scorgere l'elenco di ammanchi.
 “Dice che ci sono spese necessarie a uno Stato come il nostro e che sarebbe opportuno introdurre nuove tasse...” riferì Girolamo con un filo di voce.
 Caterina scosse il capo: “Tutte storie. Ti stanno fregando, non lo capisci? L'hanno fatto di continuo eppure tu continui a fidarti... Se almeno riuscissi a riscuotere il debito che hai contratto con gli Orsi...”
 Girolamo teneva le braccia lungo i fianchi e gli occhi bassi. Si sentiva un fallito, un incapace. Un bambino piccolo in punizione. Sua moglie non lo sgridava nemmeno più per le sue mancanze. Era delusa, sopra ogni altra cosa. La delusione era talmente tanta da essere riuscita a spegnere perfino la rabbia...
 “Cosa devo fare?” chiese Girolamo, esitante.
 “Ti direi di cercare di recuperare subito quei soldi che hai prestato agli Orsi, ma dubito che ci riusciresti. Perciò per ora non fare nulla. Domani, in Consiglio, presenzierò anche io e vedremo di sistemare quel poco che ancora si può sistemare.” sospirò Caterina, ridando il plico di fogli al marito.
 Girolamo li prese e la guardò con riconoscenza: “Grazie.”
 Caterina cercò con tutta se stessa di provare un moto di benevolenza verso quell'uomo, ma non ci riuscì. Non poteva farci nulla, era una sorta di meccanismo automatico. Per quanto lui si dimostrasse remissivo e pentito per il passato, lei non sarebbe mai riuscita a perdonarlo.
 Era quello il più grande difetto del suo carattere, o almeno così la pensava Caterina: come non dimenticava mai chi le aveva fatto del bene, così non poteva perdonare chi le aveva fatto del male.
 Inoltre, aveva dei seri dubbi sui pentimenti di Girolamo.
 “Non mi perdonerai mai, vero?” chiese egli, come se stesse leggendo i pensieri della moglie.
 Caterina guardò altrove e poi rispose, con una calma che raggelò l'aria: “Può una vittima perdonare il suo carnefice? Io non credo proprio.”
 “Il Vangelo ci dice che dobbiamo perdonare chi ci ha fatto del male, che dobbiamo amare il nostro nemico, che dobbiamo porgere l'altra guancia...!” tentò Girolamo, rispolverando i dettami religiosi che aveva cercato di imparare – senza alcun successo – quando da ragazzo era stato accolto da suo zio a Roma.
 “Ho porto l'altra guancia anche troppe volte, non credi?” ribatté Caterina, il volto trasformato in una maschera di risentimento.
 Girolamo non trovò altro da dire e così restò fermo sul posto, il suo plico di fogli in mano e gli occhi persi e spauriti.
 “Di una cosa puoi stare certo – proseguì Caterina, ormai accesa di rabbia, malgrado tutti i suoi buoni propositi – ti ho odiato così tanto che, se anche dovessi morire stanotte davanti ai miei occhi, io non verserei nemmeno una lacrima per te.”
 Girolamo deglutì, facendo salire e scendere il pomo d'Adamo nella gola scarna e alla fine ebbe il coraggio di abbozzare un sorriso: “Non mi importa.” mentì.
 Caterina restò più scottata da quel sorriso, per quanto fosse chiaramente fasullo, che non da quelle parole. Attese un momento, per placarsi, poi decise che per quel giorno era meglio chiudere ogni comunicazione con quell'uomo che Dio le aveva dato in sorte.
 “Vado a mettere a dormire i miei figli. Prendi le tue medicine. Te le ho fatte portare nella sala delle Ninfe.” disse Caterina e uscì, lasciando Girolamo solo con i suoi fantasmi.

   
 
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