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Autore: Blablia87    22/03/2016    11 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Victor si appoggiò la pasticca tra le labbra, chinandosi poi su Sherlock, sdraiato supino sull’erba.
Il vento estivo, fresco, si mosse tra le fronde degli alberi, creando giochi d’ombra su i loro abiti leggeri.
“Continuo a pensare che non sia una buona idea.” Tentò il ragazzo, appoggiando una mano sul petto dell’altro per tenerlo a distanza, con scarsa convinzione.
Victor gli strinse una mano attorno al polso, dolcemente, facendogli abbassare il braccio.
Appoggiò la bocca sopra quella schiusa di Sherlock, lasciandogli cadere il Soma tra le labbra.
“Mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un'escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per un'oscura eternità nella luna.” Gli soffiò su una guancia, prima di lasciarsi andare contro al suo petto.
“Vedrai, sarà stupendo.” Aggiunse, le dita a vagare sotto la camicia sbottonata dell’altro.
Sherlock inclinò la testa da un lato, osservando per qualche secondo Victor negli occhi.
Sorrideva, o almeno sembrava tentare di far assumere al proprio viso un’espressione allegra.
Ma gli occhi, scuri, non seguivano il resto dei lineamenti in quella pallida imitazione di un sentimento.
Sherlock lasciò la pasticca sciogliersi sulla lingua, rigirandola lentamente tra denti e palato.
“So cosa vuoi.” Commentò, poco dopo, gli occhi ed il respiro pesanti.
“Certo.” Victor gli sfiorò una guancia, salendo fino ai capelli. “Certo che lo sai.”
“Perché così?” Domandò Sherlock, sforzandosi di mantenere la presa sulla propria coscienza.
“Perché no?” Gli rispose l’altro, negli occhi un brillio ferino.
Sherlock si aggrappò a quell’ultima domanda, cercando una risposta adeguata. Ma, in fondo, non riusciva a trovarne una.
“Sì?” Chiese Victor, scivolando sul suo petto, fino a trovarsi completamente sdraiato sopra di lui, i loro volti alla distanza di un respiro.
“Sempre.”
Sherlock chiuse gli occhi, respirando l’odore dell’altro, portandolo con sé in cerca di conforto.
 
Il detective riaprì gli occhi, lasciandoli vagare per qualche attimo tra le fiamme del camino acceso.
Le dita delle mani, affondate con forza nei braccioli della poltrona, erano divenute bianche, esangui, tanta era la violenza con la quale le stava spingendo contro la stoffa ruvida.
Le campane di St Mary’s, in lontananza, annunciarono l’inizio di un nuovo giorno, richiamando i fedeli alla prima messa del mattino. Sherlock cercò conferma nell’orologio sopra la mensola del caminetto: le sette in punto.
Era rimasto seduto ai piedi della porta di John fin verso le sei. L’odore del medico si era via via affievolito e stabilizzato, indice che avesse infine ceduto al sonno.
Incapace di fare altrettanto, era rimasto ad ascoltare il silenzio che lo circondava, respirandolo assieme alla scia dell’altro. C’era qualcosa, all’altezza del cuore, che non voleva abbandonarlo un solo attimo, fermamente ancorato tra le costole.
Pulsava, infuocato, e gli aveva richiamato alla mente quei pomeriggi assolati di tanti anni prima, quando a farlo tremare bastava un respiro caldo che si spandeva sulla sua pelle.
Odiava sentirsi nuovamente così.
Vulnerabile.
Detestava la spinta alla ricerca dell’altro che si faceva sempre più strada tra i suoi bisogni, azzerando ogni altra cosa.
Alla fine, con enorme fatica, si era allontanato dalla porta, lasciandosi praticamente cadere, gambe deboli e respiro corto, fino al piano di sotto.
Aveva raggiunto la propria poltrona, raggomitolandosi su di essa.
 
“Cosa leggi?” Sherlock si arrampicò sulle gambe dell’altro, fino a portarsi col viso a pochi centimetri dal piccolo libro che Victor teneva davanti a sé, sdraiato pigramente sul pavimento della sua – da pochi giorni loro – camera da letto.
“Un libro giallo. Dovresti leggerlo, ti piacerebbe.” Il ragazzo abbassò il volume, guardando dritto negli occhi Sherlock, adagiato sopra di sé. “Ci sono moltissime morti cruente.” Aggiunse, alzando una mano fino ad ancorarla tra i ricci dell’altro.
“È sempre incredibilmente banale, la motivazione che spinge gli omicidi da romanzo a compiere i loro gesti. La vita vera non è così.” Sherlock  diede un colpo secco con il capo, liberandosi, e si lasciò cadere di lato, al fianco di Victor.
“E com’è, la vita vera?” Gli domandò lui, con sguardo attento, girandosi con la testa nella sua direzione.
“Non tutto nasce e muore con un Legame. Guarda noi.” Rispose Sherlock, serio.
“Noi non abbiamo un Legame?” Lo incalzò l’altro, con un sorriso obliquo sul viso.
“No, noi siamo più di questo. Ci siamo scelti.” Sherlock di diede una spinta con le mani, portandosi in posizione seduta. “Non credi?”
“Credo che adesso dovresti spogliarti.” Victor si alzò con un leggero sbuffo, allungando una mano verso di lui.
 
La porta della camera di John si aprì, con un lieve cigolio.
La scia del medico si sparse per le scale, più forte di quanto non fosse solo poche ore prima.
Dolce, zuccherina, arrivò fino a Sherlock, ancora immobile – ginocchia al petto – sulla propria poltrona.
Il detective allungò le gambe, assumendo una postura composta ed uno sguardo annoiato in direzione della cucina.
I passi del medico, insicuri, lenti, riecheggiarono tra le pareti, insieme al suono dei suoi abiti contro la carta da parati.
“Sherlock?” Tentò, con voce malferma a metà della discesa, nel suo odore tutta l’ansia della notte appena trascorsa, nella quale il detective si rispecchiò.
“Salotto.” Rispose, cercando di non tradire alcuna emozione.
Quanto successo la sera prima era stata un evidente cedimento della loro psiche, troppo stanchi e provati dagli ultimi avvenimenti per potersi controllare adeguatamente. Era necessario tornare in sé, riprendere i propri ruoli.
John, con il viso arrossato e gli occhi lucidi, comparve sulla soglia, vestito con i suoi abiti usuali.
Incapace di sostenere lo sguardo dell’altro, si diresse in cucina, lento.
“Sei troppo vestito.” Constatò Sherlock, osservando il medico alzare una manica del maglione e grattarsi con foga la pelle irritata.
“Mi vesto sempre così.” Gli rispose l’altro, riempiendo il bollitore e posandolo sui fornelli.
“Ti verrà la febbre. Sempre che tu non l’abbia già.” Continuò il detective, seguendolo in ogni movimento.
“Ho già la febbre.” Confermò John, spostando uno degli sgabelli della cucina per poi lasciarcisi cadere sopra.
“Allora spogliati e fa’ una doccia fredda.” Sherlock strinse con forza i braccioli, combattendo l’istinto di alzarsi per portare di peso il medico il bagno.
“Allora trova qualcosa, qualsiasi cosa, per fermare tutto questo!” Lo rimbeccò John, portandosi le mani tra i capelli. “Sto impazzendo, Sherlock. Letteralmente.” Un lungo brivido gli attraversò la spina dorsale e, per un attimo, fu come se tutto il suo corpo avesse preso a tremare.
Sherlock si alzò in piedi, superando la poltrona di fronte a lui con un passo veloce.
Con gesti meccanici spostò il bollitore dalla fiamma e spense il fornello.
Poi si diresse al frigorifero, aprendo il congelatore.
Lasciò cadere l’intero contenuto della forma per ghiaccio in un canovaccio, chiudendolo.
Poi si avvicinò a John, lasciando cadere il sacchetto improvvisato davanti a lui, sul tavolo.
Il medico sollevò il viso dall’incavo delle mani, osservando per qualche secondo lo strofinaccio prima di alzare gli occhi su quelli di Sherlock, in piedi accanto a lui.
“Farsi venire la febbre alta non cambierà quello che sta accadendo. Ti renderà solo bisognoso di cure più in fretta.” Il detective si portò dall’altro capo del tavolo, sedendosi a sua volta.
“Non devi preoccuparti per ieri sera, è nat-“ Iniziò, prima che una mano alzata di John gli intimasse di fermarsi.
“Non è naturale, va bene?” Il medico ancorò i suoi occhi, arrossati, lucidi, febbricitanti, a quelli dell’altro. “Non c’è niente di naturale, in tutto questo.” Si portò la sacca del ghiaccio alla tempia sinistra, sentendosi ribollire al contatto. “C’era qualcosa, nel corpo dell’uomo nella vasca.”
“Henry Blore.” Aggiunse Sherlock, ricordando il nome che aveva loro fornito Lestrade, informandoli che le impronte digitali avevano fornito un’identità al cadavere dello zoo: un Beta Minus, meccanico.
“C’era qualcosa nel suo stomaco. Una specie di… polvere. L’ho respirata.” John si passò il canovaccio all’altra tempia.
“Quando, esattamente, pensavi di dirmelo?!” Ringhiò Sherlock, ed il medico si alzò dalla sedia, indietreggiando di un passo.
“Non capisci che è importante?!” Aggiunse il detective, irato, prima di rendersi conto dell’espressione atterrita dell’altro, in piedi di fronte a lui, una mano – in cerca di sostegno - appoggiata ai fornelli, ancora caldi.
 
Le piaghe sul palmo della mano si stavano aprendo, e Sherlock socchiuse le dita, osservando il fluido che contenevano colargli lungo il polso.
“Guarirà presto.” La voce di Victor, distratta, lo raggiunse dal salotto.
Sherlock, in cucina, spinse con più forza le bruciature sotto il flusso d’acqua, mordendosi un labbro per non gemere.
“Era solo un gioco innocente! Ad ogni modo, se non ti è piaciuto, possiamo anche eliminare le candele dall’equazione, la prossima volta.”
Dopo qualche secondo, il ragazzo comparve alle sue spalle, trovandolo ancora chino sul lavandino.
Gli strinse con forza le braccia attorno al petto, appoggiandosi alla sua schiena.
“Mi dispiace, ok?” Gli disse, appoggiandogli un bacio tra le scapole. “Ti amo.”
Sherlock attese che il dolore si affievolisse, prima di chiudere l’acqua e girarsi verso di lui. “Anche io.” Sussurrò, poggiando la sua fronte contro quella di Victor.
 
“Spostati da lì.” Sherlock scattò in piedi, aggirando il tavolo e afferrando John per un polso, allontanandogli la mano dal ripiano.
“Che stai facendo?!” Tentò di protestare il medico, cercando di sottrarsi alla presa del detective.
“Era accesi fino a poco fa, ti brucerai.” Sherlock allentò la stretta, lasciando John liberò di sfilare la mano.
“Sono appena tiepidi, neanche me ne sono accorto!” Il medico arretrò di qualche passo, verso la finestra. “Lo capisco che tu senta il…bisogno di occuparti di me, ma non devi farlo.” Aggiunse, muovendosi verso il frigorifero. “Posso fare da solo.”
“Cosa, esattamente? Ingerire qualche altra sostanza potenzialmente letale?” Sherlock lo osservò prendere una grossa quantità di frutta e posarla sul tavolo, leggermente malfermo nei movimenti.
“Posso prendermi cura di me. Nutrirmi, lavar-“ Iniziò il medico, addentando una mela.
“A malapena ti reggi in piedi. Non vuoi spogliarti, a costo di far salire la tua temperatura a livelli di pericolo per il tuo organismo. Non sei capace di prenderti cura di te stesso. Non lo stai facendo.” Sottolineò Sherlock, passando distrattamente una mano su i fornelli, come a cercare conferma delle parole dell’altro.
“Allora aiutami.” Soffiò fuori John, tutto d’un fiato, un altro brivido su per la schiena, caldo.
“È quello che sto cercando di fare. Analizzo dati, compro cibo… Ci sto provando.”
“Non mi serve tutto questo, adesso.” Il medico lasciò cadere il torsolo della mela sul tavolo, prendendone un’altra. “Mi servi tu.”
 
“Non mi hai mai detto perché hai scelto proprio me.” Sherlock, occhi socchiusi e bocca impastata, si voltò verso Victor, anche lui con addosso gli ultimi effetti del Soma, assunto qualche ora prima.
“Mhm?” Gli rispose l’altro, portandosi una mano alla fronte.
“Perché io. Tra tutti.” Ripeté Sherlock, cercando di scandire le parole.
“Eri il più vulnerabile.” Victor si girò verso di lui, portandosi su un lato.
“Vulnerabile?” Aveva ripetuto l’altro, cercando di ricordare il significato di quella parola.
“Sembravi aver bisogno di aiuto.” Spiegò Victor, passandogli una mano sul viso, prima dolcemente, poi con forza, fino a stringergli il mento. “Ho pensato ti servisse una mano.”
 
“Io?” Ripeté Sherlock, sbattendo più volte le palpebre, veloce. “John, lo so e lo sai anche tu che sono gli ormoni a parl-“ Iniziò.
“Mi serve… ci serve un piano.” Lo interruppe l’altro, alzando uno sguardo serio su di lui. “Trattami come se fossi un caso. Un cliente.” John terminò anche la seconda mela, e la lasciò cadere accanto all’altra. “Ho un problema. Aiutami ad uscirne.”
Sherlock lo osservò con attenzione prendere il frutto successivo.
Tremava appena, scosso dalle vampate del proestro e dai brividi della febbre, eppure rimaneva immobile, cocciutamente in piedi vicino al tavolo, cercando di mangiare con calma, senza cedere al bisogno di nutrirsi in modo vorace.
“Un piano.” Sillabò il detective, tornando con gli occhi in quelli dell’altro.
“Buongiorno signor Holmes, ho davvero un problema increscioso da sottoporle.” Cantilenò John, abbozzando un sorriso incerto.
Sherlock sentì il cuore stringersi. Per un attimo, uno solo, desiderò la capacità di abbandonare la consapevolezza di saperli schiavi di stimoli che non gli appartenevano. Che quel sorriso fosse per lui, e che John non avesse mai definito tutto questo “un problema increscioso”.
“Faremo del nostro meglio per risolverlo.” Rispose, allontanando la vergogna delle riflessioni appena fatte con un gesto del capo.
“Bene. Ho molta fiducia in lei.” John masticò lentamente l’ultimo boccone, combattendo l’intinto di avventarsi sul resto del cibo rimasto sul tavolo.
Il caldo stava diventando intollerabile, così come il bruciore che sentiva ustionargli la pelle. Il calore era così forte da riuscire a sentirlo nel respiro, e dietro gli occhi.
Fece un paio di passi verso il frigorifero, in cerca d’acqua, ma si bloccò a metà del percorso, immobile in una bolla di azzeramento sensoriale che lo atterrì.
“Sherlock…” Lo chiamò, allungando una mano per riuscire a rimanere in equilibrio.
Il detective si avvicinò rapidamente, portandosi tra lui ed il frigo.
“John?” Sherlock gli appoggiò una mano sulla fronte, preoccupato.
“Non mi sento più le gambe.” Riuscì a dire il medico, a fatica, aggrappandosi con una mano al braccio dell’altro.
“Certo che no, sei bollente. Mi domando come tu riesca a stare ancora in piedi.” Lo rimbeccò Sherlock, affiancandosi a lui e passandogli un braccio dietro la schiena, sollevandolo appena, quel tanto da permettergli di camminare senza gravare con il peso su le proprie gambe.
“Che stai facendo?” Domandò John, voltandosi verso di lui, un sussurro bollente contro il suo collo.
“Attuo il piano che ha richiesto, dottore.” Rispose lui, diretto con passo fermo verso il bagno, tutto il peso di John premuto contro il fianco.
“Bene.” Biascicò John, lasciando che l’odore di Sherlock lo avvolgesse completamente, rilassandolo. “Mi fido molto, di te.” Concluse, facendosi adagiare con delicatezza nella vasca.
Sherlock, mano sulla manopola dell’acqua fredda e sguardo attento sul viso arrossato dell’altro, rimase chinato su di lui fin quando l’acqua non raggiunse un livello tale da coprirgli le gambe e metà del busto.
John, occhi chiusi e respiro corto, schiuse le labbra nel tentativo di dire qualcosa, riuscendo ad emettere solo un breve singhiozzo.
Sherlock chiuse il rubinetto e si tirò indietro, sedendosi sul tappetino ai piedi della vasca.
“Qualche minuto ed andrà meglio.” Sussurrò, allungando una mano a sfiorare la superficie dell’acqua, per assicurarsi che fosse sufficientemente fredda.
John spostò la sua, a pelo d’acqua, sfiorando con il dorso la punta delle sue dita.
Il detective chiuse gli occhi, ascoltando la sensazione della sua pelle a contatto con quella dell’altro, calda, scossa di piccoli fremiti.
Quando era successo? Quando aveva deciso che il suo posto fosse accanto a quell’uomo tanto diverso da tutti quelli incontrati prima? Quando aveva scelto che non gli importasse di rinnegare tutto, persino le sue stesse convinzioni?
 
“Non capisco.” Sherlock sbuffò, lasciandosi andare con forza contro lo schienale del divano.
“Sii più specifico.” Gli rispose Mycroft, alzando gli occhi dal libretto d’opera che teneva stretto tra le mani.
“Non capisco il senso di questa canzone.” Spiegò meglio l’altro, sbuffando.
“Sei troppo piccolo per poterlo fare.” Il maggiore portò indietro la puntina del giradischi, facendo nuovamente partire il brano.
“Dice che è veleno, per lui. Però la vuole. Che la odia, ma non può starne lontano. Che lo sta distruggendo, eppure non chiede altro che di abbracciarla per tutto il tempo. Non ha alcun senso.” [1] Sherlock si raggomitolò in posizione fetale, le ginocchia contro il mento.
“Si chiama amore, fratello caro. Ed è la rovina di tutti noi.” Mycroft aveva lanciato un ultimo sguardo al viso imbronciato del fratello, per poi tornare a seguire il testo sul quadernetto.
 
“Dovremmo trovare una parola d’ordine.” Sussurrò John, ad occhi ancora chiusi.
Sherlock riemerse dai propri pensieri con un leggero sussulto, allontanando la mano dalla vasca.
“Una parola d’ordine.” Ripeté, senza capire il senso di quell’affermazione.
“Sì. Così io potrei farti sapere che qualcosa non va, senza che gli altri ne vengano a conoscenza.” Spiegò John, sollevando per qualche secondo le mani fuori dall’acqua, in un abbozzo di gesticolazione. “Ad esempio ieri avrei potuto dire: Sherlock, ho avuto un… un… melone con il corpo, durante l’autopsia. E tu avresti saputo che qualcosa era andato storto, ma senza che Greg ed i suoi uomini lo capissero.” Biascicò il medico, schiudendo appena gli occhi.
Il colorito del suo volto si stava normalizzando, così come il suo respiro.
“Mi sembra ragionevole.” Gli concesse il detective, alzandosi. “Togliti il maglione e ne cercheremo una adatta.” Aggiunse, portandosi alle sue spalle.
“Mi dovrei spogliare? Perché?” Domandò John, aprendo del tutto gli occhi, confuso.
“Perché se continui a tenerlo addosso, questo bagno sarà inutile. E bisogna essere lucidi, per poter elaborare e poi ricordare una parola d’ordine. Avanti.” Sherlock si sporse verso di lui, aiutandolo a mantenere le braccia alzate e a sfilare il pullover, ormai fradicio.
La scia di John di fece immediatamente più forte, carica di gratitudine e di qualcosa che il detective non riuscì a catalogare.
Sherlock la respirò lento, incapace di allontanarsi. Avrebbe voluto chinarsi e premere con forza il naso contro il collo dell’altro, ma senza ferirlo. Non voleva morderlo, solo…
Solo trovare finalmente pace, con la testa vicina a quella di John. Senza bisogno di imporsi qualcosa, senza fingere che restare così lontani non gli facesse scoppiare il cuore nel petto, e bruciare i polmoni. Che non lo facesse fremere, infelice, all’idea che se avesse potuto, John non sarebbe mai stato tanto vicino.
“Una volta mi sono occupato di un caso relativo a dei cammei del Vaticano.” Sherlock si costrinse a fare un passo indietro e poi di lato, tornando a guardare John – adesso completamente sveglio – negli occhi.
“Vuoi usare “cammei del Vaticano” come parola d’ordine?” Domandò il medico, abbozzando un sorriso divertito.
“Ci si può lavorare su.” Rispose Sherlock, lasciando gli occhi liberi di vagare per la stanza.
“Come va?” Chiese quindi, mantenendosi a distanza da un contatto visivo.
“Meglio.” John si passò le mani sul viso e poi tra i capelli. “Ma adesso ho bisogno di abiti asciutti.”
“Niente di grave, se paragonato ai danni di una prolungata esposizione ad alte temperature.”
Sherlock si avviò verso la porta, lento.
“Dove vai?” John si aggrappò con le mani ai bordi della vasca, cercando di tirarsi su. Ancora debole sulle gambe, ricadde in acqua con un tonfo.
“Che stai cercando di fare?” Il detective si bloccò, voltandosi verso di lui.
“La febbre è scesa. Non ho più bisogno di stare qui dentro.” Spiegò il medico, provando ad alzarsi una seconda volta.
“È vero che l’alterazione era una reazione al tuo esserti coperto troppo, ma questo non significa che tu debba uscire subito.” Sherlock posò una mano sulla maniglia.
“Perché te ne stai andando, adesso?” Domandò John, rinunciando ad un terzo tentativo. Il detective aveva ragione, non era ancora pronto.
“Perché mi pare evidente che tu non abbia più bisogno di me.” Commentò l’altro, aprendo la porta. “Se come dici il Calore è arrivato in anticipo per qualcosa che ti hanno somministrato, questo significa che l’obbiettivo era portarci a questo. Motivo in più per arginare il più possibile ogni contatto, soprattutto dato che nessuno dei due ne sente la reale necessità.”
Concluse, voce bassa e seria, uscendo dal bagno.
John rimase immobile, guardando la porta chiudersi dietro di lui.
“Se ti occorre qualcosa sono di sotto!” Gli urlò Sherlock, già sulle scale, diretto al piano interrato.
Il medico guardò il maglione, scuro, bagnato, abbandonato a terra, poco distante.
E, per una frazione di secondo, si sentì come lui.
Solo, molle. Inutile.
La solitudine che aveva cercato per tutta la vita, nella quale si era avvolto e sentito protetto, non era più sufficiente.
Fu quel pensiero, più di ogni altra cosa, a terrorizzarlo.
Aveva fatto – si era fatto - una promessa, quasi vent’anni prima, e le aveva tenuto fede, almeno fino al momento nel quale aveva conosciuto il detective.
Nessun Alpha come amico, tanto meno come compagno.
Nessuno di loro tanto vicino da correre il rischio di venir morso.
Mai.
Ed ora, immerso per metà in una vasca piena di acqua ghiacciata, si sentì avvampare per la vergogna e la paura.
Perché il pensiero che Sherlock potesse arrivare tanto vicino al suo viso non lo spaventava. Anzi, quegli occhi azzurri gli parvero per un secondo l’unica certezza della sua – nuova – vita.
A fargli paura, adesso, era il rendersi conto di quanto, e quanto profondamente, quell’uomo lo avesse cambiato.
Non era una questione di ormoni, no. Aveva a che fare con loro due, con quello che sentiva premere tra cuore e stomaco. Con quella scia che andava svanendo, lasciando comunque intatto il bisogno di guardare Sherlock lavorare, leggere, studiare, respirare.
“Forse ci si dovrebbe semplicemente accontentare di vivere il più serenamente possibile. Se qualcosa o qualcuno ci rende felici, o meno infelici del solito, dovremmo tenerli vicini senza farsi troppe domande.” Gli aveva detto Mike, e mai come in quel momento le sue parole gli sembrarono cariche di un senso profondo, che andava oltre la semplicità di una frase apparentemente scontata.
Sherlock era uno spartiacque, un solco profondo tra chi era e chi – Calore o meno – non sarebbe stato mai più.
Quanto, di quei pensieri, era dovuto alla sua condizione?
Poco, pochissimo, si rispose, dato che il proestro non era una fase del ciclo tanto avanzata da poter stravolgere totalmente le sue convinzioni.
Fu allora, che capì.
Non era ancora in Calore, almeno non nell’estro conclamato, quando realmente molti dei suoi comportamenti non sarebbero più stati controllabili in modo conscio.
Era una scusa, una giustificazione alla quale si era voluto aggrappare fino all’ultimo per non affrontare una realtà per lui ancor più spaventosa di un killer che lo desiderava fisicamente provato e psichicamente succube.
Aveva infranto un giuramento, e la verità era tutta in quella sensazione dolce e straziante che gli stava aprendo una voragine nel petto.
 
L’Omega che aveva rinnegato tutta la vita la propria natura, era innamorato di un Alpha.
 
***
 
Sherlock scagliò con rabbia il quaderno - sul quale aveva appuntato con perizia fino a quel momento i vari risultati degli esperimenti - contro il muro.
Niente.
Nessuna idea su cosa fossero quelle cellule, nessuna su come riuscire ad arginarne gli effetti.
Si alzò in piedi, portandosi le mani ai capelli.
Aveva bisogno di trovare una soluzione.
Che John tornasse in sé, padrone delle proprie sensazioni, dei propri bisogni.
Doveva capire, chiedere.
Quanto c’era di lui, del suo volere, dietro alla sua scia? Quanto, dietro la sua eccitazione? Al suo farsi respirare dietro ad una porta chiusa?
 
“Gli Omega sono inutili.” Victor sbadigliò, staccandosi da Sherlock, ansimante sotto di lui.
“Quando ti cercano, o ti si concedono, e solo per un bisogno fisico. Che divertimento può mai esserci, nel farsi qualcuno al quale non fa nessuna differenza chi sia a stare con lui?”
Aggiunse, cercando con una mano il pacchetto di fazzoletti sopra il comodino, accanto al letto sul quale erano sdraiati.
“Quindi non sentirai mai il bisogno di creare un Legame?” Domandò Sherlock, allungando una mano per prenderne uno a sua volta ed iniziando a pulirsi.
“I Legami e gli Omega sono inutili, come ho detto. Finché avrò te, non avrò il bisogno di nessun altro.” Victor appoggiò le labbra su le sue, sorridendo contro la sua bocca.
 
Sherlock iniziò a muoversi per la stanza, irrequieto.
Perché all’improvviso era diventato così vitale, sapere?
Non era forse anche ogni sua emozione nei confronti del medico una semplice risposta fisica a delle stimolazioni esterne nate appositamente con lo scopo di far avvicinare due individui con la loro natura?
Era davvero necessario che John gli confermasse quello che già sapeva?
Doveva davvero sentirsi dire in faccia di non essere ricambiato, qualunque fosse la natura di ciò che stava provando, per crederlo?
“Sherlock?” La voce di John, oltre la porta, lo colse di sorpresa. Si immobilizzò, cercando di stabilizzare il più possibile pensieri, respiro e scia.
“John.” Rispose, con voce distaccata, dopo qualche secondo.
“Posso entrare?” Domandò l’altro, titubante.
“È successo qualcosa?” Il detective si avvicinò alla porta, aprendola.
John, pantaloni corti e canottiera verde scuro – probabilmente un ricordo del periodo militare, calcolò Sherlock – fece un passo indietro, sorpreso.
“È successo qualcosa?” Domandò nuovamente il detective, osservando con aria interdetta John prendere fiato a fatica.
“Non c’è abbastanza aria, qua sotto. Non dovresti scendere, se non per particolari urgenze.” Disse Sherlock, mentre l’altro annuiva appena, un lieve ondeggiamento della testa, quasi distratto.
“Che succede?” Provò ancora, iniziando a preoccuparsi.
La scia di John era un misto di paura, imbarazzo e attrazione, e la cosa lo sorprese, lasciandolo interdetto.
“Stavo pensando…” Iniziò John, abbassando gli occhi e deglutendo a fatica un paio di volte, aria e saliva che gli parvero pesare come sassi, mentre scendevano lungo la gola.
Sherlock alzò un sopracciglio.
Voleva andarsene?
Voleva…
“Ok, la faccio breve.” Il medico chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. “Prima di non essere più padrone di sceglierlo liberamente…” Iniziò,  cercando infine il viso dell’altro. “Vorresti venire a cena?” Soffiò fuori, nel tempo di un un respiro strozzato.
Sherlock socchiuse le labbra, sorpreso.
“A casa, intendo.” Lo anticipò John, prima che potesse ribattere che uscire sarebbe stato troppo pericoloso. “Vorrei… cucinare per noi due, insomma.” Tentò di spiegare, muovendo le mani ad indicare il piano di sopra.
“Vorresti… cucinare per me?” Domandò il detective, confuso.
“Per noi, sì.” Confermò John, annuendo con forza. “Probabilmente fra qualche giorno, se non qualche ora, non sarò neanche capace di lasciare la mia stanza. Vorrei cucinare, come ho sempre fatto.” Terminò, accennando un sorriso incerto.
La sua scia divenne dolce e zuccherata, e Sherlock sentì una scarica elettrica partire dal petto ed arrivare al ventre. L’odore di John era un invito palese, e lui stava rispondendo.
“Qualcuno al quale non fa nessuna differenza chi sia a stare con lui.” Aveva detto Victor, una volta, e benché sapesse che questo non poteva in alcun modo descrivere John nella sua condizione normale, non poteva affermare con altrettanta certezza che a muoverlo – in quel momento - non fosse il semplice bisogno fisiologico di stare il più vicino possibile ad un Alpha, chiunque fosse.
A fatica, con un dolore sordo che gridava contro il suo sterno, Sherlock fece un passo indietro, scendendo di un gradino verso la stanza interrata.
“Capisco che tu abbia delle necessità.” Iniziò, osservando il viso di John farsi improvvisamente scuro. “Lo capisco, davvero. Ma puoi trovare quanti Alpha vuoi, fuori di qui, per questo.” Aggiunse, cercando di mantenere la voce più ferma possibile. “Se è un Legame quello che pensi ti occorra…”
“Dio.” John scosse la testa, un sorriso amaro sulle labbra. “Perdonami, ho pensato che mi conoscessi a sufficienza…” Gli rispose, nella voce lo stesso tremore che gli percorreva il corpo e l’odore: tristezza.
Vergogna.
“Un Legame.” Ripeté, scuotendo la testa. “È questo che pensi che voglia da te? I tuoi denti nel mio collo? Cristo…” Si interruppe, carico di rabbia. Una lacrima, sola, gli scivolò su una guancia, ma John la raccolse con un gesto collerico della mano. “Io…” Tremò, posando gli occhi in quelli di Sherlock. Poi, incapace di aggiungere altro, si voltò, dandogli le spalle, salendo al piano di sopra, passi veloci e pesanti come lamenti su i gradini di legno.
Il detective rimase immobile, circondato dall’odore della paura, dell’imbarazzo, della rabbia dell’altro.
Si costrinse a respirarlo, nonostante bruciasse ad ogni boccata, come una punizione che meritava di scontare.
Alla fine, incerto, mosse qualche passo instabile verso la porta d’ingresso, lasciando che il freddo pomeriggio londinese lo accogliesse, infreddolito e confuso, come sentiva di dover essere.
 
***
 
John si inginocchiò a terra, spostando il tavolino da caffè con una mano.
Si chinò in avanti, allungando una mano sotto al divano.
Con le dita sfiorò il parquet, alzando la polvere, fino a trovare quel che stava cercando.
Con uno sbuffo, pinzò con due dita la carta da regalo, trascinando il pacchetto verso di sé.
Rimase qualche secondo immobile, in un’atea contemplazione di un mistero dannato [2] del quale non voleva sapere nulla oltre a quel poco che aveva potuto vedere.
Infine prese il regalo e si diresse in camera di Sherlock, lasciandolo cadere sul suo letto.
Se Victor era la persona che Sherlock aveva descritto, se davvero era stato capace di pronunciare parole tanto gravi nei suoi riguardi, bene, non erano poi così diversi e si meritavano a vicenda.  
Il medico uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Si diresse in cucina, facendo scorta di quante più cose possibili tra quelle non deteriorabili.
Infine, carico di cibo, rabbia e dolore sordo, salì in camera sua.
 
***
 
Circa un’ora più tardi il suo cellulare, faccia a terra contro la moquette della stanza, vibrò.
John, sdraiato prono sul letto, lasciò cadere un braccio al lato del materasso, cercandolo a tentoni, con l’intento di spengerlo.
Dopo un paio di tentativi a vuoto, si sporse oltre il bordo anche col viso, riuscendo infine ad individuarlo e raggiungerlo.
Si portò il telefono vicino agli occhi, premendo il pulsante laterale per lo spegnimento, che ad un primo tentativo gli sfuggì, sbloccando semplicemente lo standby dell’apparecchio.
Lo schermo si accese, mostrandogli l’anteprima del messaggio appena ricevuto.
Confuso, rotolò da un lato, dandosi una spinta per sedersi.
Inserì la password ed aprì l’SMS per intero, rimanendo ad osservarlo, incapace di muovere un solo muscolo, di formulare un pensiero.
 
 
[From: unknown number][5:49 pm]
 
Uno, due e tre,
c’è il tuo Sherlock qui con me.
Quattro, cinque e sei,
separarvi non vorrei.
Sette, otto e nove,
se la cosa ti commuove,
Dieci, e zero, e dopo mille,
hai un problema, come Achille.
Mille, e cento e ancora zero,
alla porta è il messaggero.
 
John sillabò ogni parola, rileggendo il messaggio più volte.
Alla fine lasciò cadere il cellulare sul letto, dirigendosi al piano di sotto, passi veloci e respiro corto.
“SHERLOCK!” Lo chiamò, arrivato al pianerottolo d’ingresso.
La signora Hudson si affacciò alla porta del suo appartamento, confusa.
“Cosa succede?” Chiese, con voce preoccupata.
“Niente, torni dentro.” Le rispose il medico, sbrigativo, affacciandosi nella stanza nel seminterrato, vuota.
“Maledizione!” Soffiò, voltandosi e risalendo i pochi gradini, diretto al portone.
“John, vuol dirmi cosa…” Provò di nuovo la donna, chiudendosi con più forza la vestaglia attorno al viso.
“Le ho detto di tornare dentro!” Ripeté John, lanciandole uno sguardo severo prima di spalancare la porta.
Un uomo – Beta, aspetto dimesso, immobile in attesa oltre l’uscio - alzò la testa e gli sorrise, cordiale.
“Il dottor Watson, presumo.”  Esordì, allungando verso di lui un foglio di carta ripiegato.
“Il signor Moriarty la prega di raggiungerlo a questo indirizzo.” Spiegò, lasciandolo cadere nel palmo tremante del medico. “E si raccomanda caldamente di arrivare con i mezzi pubblici, solo e senza aver avvisato la polizia, soprattutto l’Ispettore Le… Lestrade.” Concluse, prima di portarsi una mano alla fronte in segno di saluto e voltarsi, allontanandosi con calma lungo Baker Street.
John richiuse la porta, lasciandosi andare contro il legno con un tonfo, il biglietto stretto con forza tra le dita. Si pentì di aver assecondato Sherlock nel dire a Greg di portar via i suoi uomini, convinto che fossero al sicuro, una volta tra le pareti di casa.
Aprì il foglio, velocemente, leggendo l’indirizzo un paio di volte.
Per arrivarci avrebbe dovuto attraversare quasi per intero la città.
Si portò una mano al viso, in un gesto di disperazione.
Non c’era modo che arrivasse così lontano senza rischiare che qualcuno lo approcciasse in modo insistente, persino violento.
Ma…
La sola idea di Sherlock nelle mani di quell’uomo gli fece rovesciare lo stomaco, raggelandolo.
Come avrebbe potuto vivere, con il pensiero di non aver almeno tentato?
Cosa avrebbe fatto, se fosse morto?
Si staccò dalla porta, iniziando a salire con passo veloce al piano di sopra.
Doveva coprirsi il più possibile.
Nascondere come meglio poteva il proprio odore.
Ed accertarsi che la sua pistola fosse carica.
 
 
 
Note:
 
[1] Ho immaginato che Mycroft stesse ascoltando qualcosa simile a “Mi distruggerai”, cantata da Frollo nel musical “Notre Dame De Paris” (musiche di Cocciante). Ho pensato che bene si adattasse a Sherlock, e a tutto quello che sta vivendo in questo momento. La piena, disarmante confusione di sapersi perso, attratto e respinto assieme dalla forza di qualcosa che non è in grado di controllare. Per questo l’ho fatto rivivere in quel preciso ricordo, nato in quel preciso momento.
 
Il resto dei flashback, invece, sono legati in qualche modo a quello che il detective sta vivendo, ma non sono suoi “pensieri diretti”. Servono più da “spiegazione dei suoi comportamenti.”
 
Vi allego il testo di questa meraviglia, perché è davvero un’opera d’arte:
 
Io so cos'è la passione
Ma non lo so se è veleno
Io non so più cosa sono
E se ragiono o se sogno
Annego e il mare è lei
Sento i sentimenti miei
Che non ho sentito mai
L'onda che non affrontai
 
 Mi distruggerai, mi distruggerai
E ti maledirò finché avrò vita e fiato
Mi distruggerai, mi distruggerai
Tu mi hai gettato nell'abisso di un pensiero fisso
Tu mi distruggerai, mi distruggerai
Mi distruggerai
 
 Io cado in te, tentazione
E tutto al diavolo va
La scienza e la religione
E virtù e castità
Io guardo un orlo di gonna
E vedo abissi di donna
La gonna gira e mai
Mai per me la toglierai
 
 Mi distruggerai, mi distruggerai
E maledico te perché di te non vivo
Mi distruggerai, mi distruggerai
Ti abbraccio in sogno tutto il giorno e sto, di notte, sveglio
Tu mi distruggerai, mi distruggerai
Mi distruggerai
 
E quel mio cuore d'inverno
E' un fiore di primavera
E brucia dentro l'inferno
Come se fosse di cera
Sei tu che soffi sul fuoco
Tu, bella bocca straniera
Ti spio, ti voglio, t'invoco
Io sono niente e tu vera
 
 Mi distruggerai, mi distruggerai
E ti maledirò finché avrò vita e fiato
Mi distruggerai, mi distruggerai
Tu mi hai gettato nell'abisso di un pensiero fisso
Tu mi distruggerai, mi distruggerai
Mi distruggerai
 
Per aumentare i feels, vi lascio l’indirizzo di due video che hanno la versione inglese come colonna sonora:
 
Versione Sherlock: https://www.youtube.com/watch?v=ThBPIJyH7yk
Versione John: https://www.youtube.com/watch?v=rbHZ3iNW_8I
 
Chiedo scusa già da adesso per il DOLORE.
 
[2] È il corrispettivo di “mistero glorioso”, ma non so se si capisca bene. XD
 
Angolo dell’autrice:
 
Benvenute/i al capitolo che ha corso il rischio di non veder mai la luce. Sì. Perché per qualche giorno, dopo l’ultima pubblicazione, ho meditato seriamente di abbandonare tutto, persino di cancellare la storia. I motivi dietro questi pensieri sono complessi, lunghi, ed io non ho intenzione di ammorbarvi.
 
Devo comunque dire grazie ad un po’ di persone, per avermi spinto a continuare.
C’è chi me lo ha chiesto direttamente, chi ha ascoltato i miei sfoghi in silenzio, chi mi ha aiutato tantissimo anche dicendo di non poterlo fare.
CreepyDoll, mikimac, Koa, loveart7… Questo capitolo è anche un po’ vostro, perché senza di voi probabilmente avrei pubblicato tra eoni, o non avrei pubblicato affatto.
 
Quindi eccolo qui.
Siamo praticamente alla fine, due, massimo tre capitoli.
 
Come sempre grazie a tutti voi per aver letto fin qui!
Un abbraccio.
 
A presto.
B.
   
 
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