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Autore: Adeia Di Elferas    23/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Tutto bene?” chiese Lucrezia, vedendo arrivare la figlia con un'espressine trafelata sul viso.
 Caterina reagì d'impulso, chiedendo con asprezza: “Perché lo vuoi sapere?”
 Appena gli occhi chiari di Lucrezia incrociarono i suoi, però, Caterina si sentì subito in torto. Era Girolamo, quello che nascondeva le proprie debolezze dietro l'aggressività, non lei...
 “Perdonami – rimediò subito, mentre prendeva dalle braccia della balia Sforzino – è che ho avuto una mezza discussione con mio marito e sono stanca...”
 Lucrezia finse di non dar troppo peso a quell'episodio e, com'era ormai consuetudine, congedò le balie e si apprestò a mettere a letto i nipoti con l'aiuto delle due figlie.

 Gasparino fece un cenno da stare sulla porta a Checco Orsi, che accorse subito, seguito a breve distanza da un paio di complici.
 “Fermo là.” intimò una delle due guardie che, nel buio, non aveva riconosciuto l'illustre signor Orsi.
 “Egli ha la 'chiave d'oro', essendo vicino al Conte può entrare nel palazzo anche a tarda ora senza dover render conto a voi.” disse Gasparino, con un certo orgoglio.
 La guardia fece un cenno infastidito e lasciò passare quell'uomo che, effettivamente, ora che lo vedeva meglio, era solito entrare a palazzo anche in orari inconsueti. Anche se mai si era permesso di presentarsi a un'ora così tarda...
 Pansecchi e Ronchi, i due selezionati per spalleggiare Checco, passarono in fretta appena dietro di lui, ostentando una tale sicurezza che la guardia non ebbe la prontezza di domandare che c'entrassero loro con Checco Orsi e col suo privilegio.
 “Il Conte è nella sala delle Ninfe ora.” spiegò Gasparino, a voce bassissima, guidandoli nel palazzo: “Spero davvero che la notizia del debito saldato lo rinfranchi un po', perché quando si è ritirato l'ho visto d'umore un po' mesto...”
 “Abbiamo delle novità che lo faranno risorgere, nipote mio.” assicurò Ronchi con un sorriso che Gasparino scambiò per un segno positivo.
 “Loro staranno fuori dalla porta, non è necessario che disturbino pure loro il Conte.” disse piano Checco, indicando i complici.
 Gasparino trovò strano il fatto che quei due fossero entrati a palazzo visto che già pensavano di non parlamentare direttamente con il Conte, ma non ebbe a che ridire.
 “Ci state facendo un gran servigio, ragazzo, non lo scorderemo.” assicurò Checco, dando una piccola pacca sulla spalla a Gasparino che, con uno sguardo imbarazzato, cercò anche l'approvazione dello zio, che arrivò sotto forma di strizzata d'occhio.
  
 'I miei figli', così aveva detto Caterina. Per lei, ragionò Girolamo, erano i suoi figli, non erano più nemmeno i loro figli.
 Inutile arrovellarsi oltre: era chiaro che ormai Caterina ragionava già come una vedova!
 Chissà da quanto tempo aveva già sepolto Girolamo, nella sua mente...
 Il che rendeva anche plausibile la chiacchiera per cui ora lei si concedeva come una popolana qualunque a quel maledetto Tommaso Feo...
 “Sì, sì, se ne accorgerà che vuole dire, stare con lei... Che prenda pure il mio posto...” sussurrò piano Girolamo, avvicinandosi alla scrivania e passando con disinteresse un dito sul bordo di legno scuro: “Povero diavolo, che pena mi fa...”
 Andò alla finestra e si appoggiò con un gomito al davanzale, aprì i vetri e si perse per un momento nei profumi di quella primavera. Finalmente, dopo anni, una primavera come Dio comandava.
 Non sentì subito il rumore della porta che si apriva, perciò sobbalzò nel distinguere dei passi alle sue spalle.
 Si girò di scatto e si trovò davanti Checco Orsi. Dopo un primo istante di sorpresa, Girolamo sorrise in modo disteso, in un modo tanto inusuale per lui che fu il turno di Checco di restare di sasso per qualche secondo.
 “Che andate facendo, Checco mio?” domandò il Conte, con tono tanto benevolo che quasi la sua voce era irriconoscibile.
 Orsi si affrettò a stringere la mano che Girolamo gli stava porgendo e, nello stesso momento, cominciò a parlare, sperando di suonare convincente: “Ecco, vedete...”
 Si staccò da Girolamo quel tanto che bastava per potersi infilare una mano sotto al giaccotto, laddove teneva nascosto il pugnale.
 “Ho qui una lettera di alcuni miei amici che terrei molto a mostrarvi...” disse Orsi, mentre la lingua gli si impastava nella bocca: “Come leggerete voi stesso, mi dicono che entro uno o due giorni mi daranno del danaro e così io potrò resitituirvi ciò che vi devo...”
 Quando la mano scivolò fuori dalla giubba di Checco Orsi, Girolamo cambiò di colpo espressione e sbiancò.
 Non c'era una lettera, stretta in quel pugno, ma un coltello.
 Orsi fece uno scatto in avanti, conficcando con un colpo netto la lama nel petto di Girolamo, sulla destra.
 Aspettandosi di veder morire immediatamente il Conte, Checco rimase sconvolto nel notare come quell'uomo non stesse morendo, anzi, stesse in qualche modo reagendo.
 Ma quanto era difficile uccidere un tiranno?
 “Traditore...!” gracchiò Girolamo, incredulo, disperato, in preda al panico più totale, con l'elsa del pugnale che spuntava fuori dal suo torace mentre il sangue rovente cominciava a imbrattargli gli abiti.
 Checco Orsi era più impacciato dello stesso Conte. Avrebbe voluto chiamare rinforzi da fuori, ma la voce gli moriva in gola ogni volta che schiudeva le labbra. Allungò con poca convinzione le mani per cercare di riprendersi l'arma, ma Girolamo fu più rapido di lui.
 Per quanto folle per la paura e per il dolore, il Conte riuscì a nascondersi con un tuffo sotto al tavolo.
 Mentre Orsi era ancora titubante, incerto e incredibilmente paralizzato – chi mai avrebbe creduto che uccidere era un tal imbroglio! – Girolamo si ricordò, chissà perché, di quando sua moglie lo aveva dileggiato e rimproverato per la sua codardia durante la guerra proprio perché si era nascosto sotto a un tavolo.
 Sentì il cuore farsi più debole e vide distintamente il proprio sangue gocciolare in terra sempre più velocemente.
 Un tavolo non era poi una barriera invalicabile.
 Anche Orsi se ne sarebbe reso conto, alla fine, e allora avrebbe portato a termine il suo tradimento.
 Ormai Girolamo non vedeva alternative.
 Quella sera sarebbe morto, ormai ne era certo. Poteva provare a non morire da codardo, almeno quello...
 Con gli occhi velati di lacrime, Girolamo lasciò il suo nascondiglio e corse con gambe malferme verso la porta.
 Non appena riuscì ad aprirla, lasciandosi alle spalle Checco ancora immobile e instupidito dall'assurdità di quel frangente, Girolamo si trovò addosso due individui che non riconobbe.
 Con la forza ultima del disperato, riuscì a divincolarsi, in un primo momento, e si illuse di potersi ancora salvare.
 Uno dei due, però, dalla mente ben più salda rispetto a Checco Orsi, lo afferrò con forza per i lunghi ricci, per quei maledetti capelli che per tanti anni Girolamo aveva sfoggiato come un motivo d'orgoglio...
 Lo trascinarono di nuovo nella stanza. Tenendolo per i capelli gli sbatterono più volte la testa contro il davanzale della finestra a cui tante volte si era affacciato e poi, sicuri di averlo reso inoffensivo, lo gettarono in terra come un sacco di patate e prima che potesse cercare un'ultima via di fuga, i due congiurati estrassero dai mantelli le loro lame e cominciarono a colpirlo in ogni punto possibile del suo corpo.
 Mentre moriva, Girolamo Riario gridò il nome del suo più grande amore e del suo più grande tormento: “Caterina! Caterina...!”

 “Avete sentito anche voi...?” chiese Caterina, accigliandosi.
 Le era parso di sentire in lontananza la voce di suo marito chiamarla. Però, sia Lucrezia sia Bianca fecero segno di no e così i bambini più grandi, perciò la Contessa pensò di esserselo solo immaginato.
 Tuttavia, appena pochi secondi dopo, altre voci riempirono il palazzo. Caterina fece segno a tutti di fare silenzio e così i bambini si zittirono e anche Sforzino, che pure non poteva capire, smise immediatamente di piangere.
 “Aiuto!” gridò una donna.
 “Soccorso!” implorò un'altra.
 “Morto, è morto!” pianse una delle balie.
 “Per carità, per carità!” ululò un uomo.
 “Tutti qui! Uccidete i traditori!” risuonò la voce di uno dei servi.
 Caterina non ebbe bisogno di uscire dalla stanza e fare domande ai servi, alle cameriere e alle guardie che avevano preso a correre su e giù per i piani del palazzo come impazziti.
 Suo marito era stato ucciso, ne fu subito certa.
 Doveva pensare in fretta, abbastanza in fretta da precedere le mosse – di certo già decise – dei traditori...
 Proprio in quel mentre si affacciò nella stanza uno dei servitori, uno di quelli che Caterina non aveva mai preso in considerazione più di tanto. Lo aveva sempre ritenuto un ragazzo troppo timoroso e oppresso dal terrore di sbagliare, sempre indeciso se essere o meno fedele ai Riario, perciò le parve oltremodo strano vederlo entrare nella stanza e gettarsi in ginocchio davanti a lei.
 “Mia signora...” ebbe la forza di dire a scatti lo spaurito servo: “Il Conte è morto... Tre... Tre uomini... Ucciso... Ora anche voi... Pericolo...”
 La paura è una cosa strana, pensò Caterina: poteva trasformare anche il più coraggioso degli uomini in un codardo e il più ignavo dei domestici in un eroico e fedele servitore.
 “Dovete portare un messaggio al castellano di Ravaldino.” disse subito la giovane: “Pensate di poter uscire da palazzo senza farvi uccidere?”
 Il ragazzo, visibilmente atterrito dall'idea, non si tirò comunque indietro e, gonfiando il petto, promise: “Posso, mia signora. Che devo riferire?”
 “Ditegli che sono viva, come il resto della mia famiglia. Ditegli di non cedere a nessuna minaccia, nemmeno di fronte alle mie lacrime. Ditegli che non dovrà cedere la rocca per nessun motivo al mondo. E ditegli anche che aveva ragione: non mi serve un uomo innamorato. Lui capirà.”
 Il servo annuì a ogni parola, scolpendosi quelle frasi nella mente e ripartì subito di corsa.
 Caterina sperò che quel giovane fosse abbastanza svelto e insignificante da sfuggire alle grinfie dei rivoltosi, che, per quel che ne sapeva, potevano essere molti...
 Si affacciò fuori dalla stanza e gridò a tutti gli abitanti del palazzo, che si rincorrevano e urlavano e sguainavano spade e mannaie da cuoco: “Uccidete i traditori e sbarrate subito le porte! Che nessuno dei colpevoli esca vivo da qui!”
 Infine, senza badare alla madre, alla sorella e ai bambini che, al contrario di lei, erano in evidente stato confusionale, Caterina chiuse a chiave la porta con tutte le mandate possibili.
 Poi, subito, prese ad ammassare davanti all'uscio tutto quello che le capitava sotto mano, dai mobili ai giochi dei bambini.
 “Aiutatemi, forza!” incitò, guardando Lucrezia e Bianca.
 Le due donne si riscossero a scoppio ritardato, ma alla fine anche loro si misero ad ammucchiare ogni oggetto, anche il più inutile, davanti alla porta sprangata.
 Non sarebbe certo bastato qualche mobile davanti alla porta a bloccare gli assassini, ma almeno ne avrebbe ritardato l'arrivo.
 I bambini erano senza fiato, guardavano la madre con occhi enormi e pieni di domande e paura.
 Bianca cercò di rassicurarli, ma lei per prima tremava e piangeva sommessamente, spaventata oltre ogni dire.
 Lucrezia non riusciva a fare altro, se non mordersi un'unghia e guardare a uno a uno i nipoti, chiedendosi cosa ne sarebbe stato di loro.
 Capendo di non poter contare molto, per il momento, sulle altre due donne, Caterina corse alla finestra, sperando di poter contare almeno su qualche forlivese. Se avevano odiato tanto suo marito da arrivare a ucciderlo, non era per forza detto che odiassero pure lei fino a quel punto...
 Nel momento stesso in cui aprì i vetri e guardò giù, un urlo feroce e beffardo la colpì come un colpo di cannone.
 “Libertà! Morte ai tiranni!” ecco quello che stava gridando Ludovico Orsi, illuminato da centinaia di torce, dritto e ghignante in testa a un corteo immane, formato da tutta la città, o quasi.
 Sempre più persone arrivavano dalle vie vicine e Ludovico Orsi gridava con voce sempre più alta, fissando la Contessa con occhi malevoli.
 Il bargello, Antonio da Montecchio, arrivò all'improvviso da una stradina laterale e cercò, in sella al suo cavallo, di raggiungere il palazzo per ricongiungersi alla Contessa e aiutarla a uscirne viva.
 Tuttavia Caterina capì come sarebbe finita ancora prima che alcuni forlivesi disarcionassero il bargello.
 In molti lo trascinarono fino davanti alle finestre del palazzo e lì cominciarono a tirarlo, colpirlo, spezzarlo, fino a farne brandelli con la sola forza delle mani. Una violenza simile Caterina non l'aveva vista nemmeno in guerra.
 Mentre alcuni forlivesi particolarmente intraprendenti stavano dando fuoco con una torcia ai capelli del bargello, Caterina riconobbe uno dei servi del palazzo, Gasparino, accanto a Ludovico Orsi.
 Pareva terrorizzato, ma doveva essere anche lui dalla parte dei traditori, perché alle sue parole Ludovico si illuminò e si affrettò a correre verso la porta del palazzo.
 Passarono alcuni minuti infiniti, durante i quali Caterina guardava la città che la stava tradendo senza riuscire a pensare a nulla.
 Non si accorse nemmeno che sua madre e Ottaviano l'avevano affiancata alla finestra per vedere coi loro occhi quel che accadeva fuori dal palazzo.
 Delle grida di sorpresa accesero improvvisamente i presenti e tutti iniziarono a indicare una finestra non molto lontana da quella a cui stava Caterina.
 Istintivamente la giovane voltò lo sguardo in quella direzione e vide qualcosa che mai avrebbe potuto dimenticare.
 “Guardate coi vostri occhi!” stava gridando Ludovico Orsi, sporgendosi dal davanzale: “Il Conte tiranno è morto! Siamo liberi! Liberi!” e così dicendo si ritirò un istante, per poi sporgersi di nuovo, assieme ad altri due uomini e al corpo esanime di Girolamo.
 Era così imbrattato di sangue che Caterina quasi non lo riconobbe. Furono i boccoli scarmigliati e zuppi a toglierle ogni dubbio.
 Con una mossa rapida accompagnata da un grugnito, i tre uomini buttarono giù il corpo di Girolamo, che impattò con il selciato del palazzo con un suono irreale, quasi ovattato.
 I più vicini fecero qualche passo esitante verso il cadavere sudicio e scomposto e quando uno di loro esultò: “Sì, è proprio quel diavolo di Conte, lo riconosco!” allora tutti gli furono addosso.
 Caterina guardò tutta la scena senza sbattere le palpebre, senza respirare, senza provare altro se non un immenso vuoto farsi largo nel suo petto.
 Il corpo del Conte venne trascinato per la piazza, gli sputarono, lo presero a calci, lo insultarono, lo spogliarono e lo colpirono con forconi e spade. Ormai non era più il corpo di un uomo, ma un insieme confuso di pezzi di carne.
 Quella vista ridestò Caterina, che cominciò a pensare e valutare ogni possibilità. Se solo quel servo impavido fosse riuscito a raggiungere in tempo Tommaso Feo...
 Alcuni Battuti Neri, vestiti con abiti del loro sacro ordine, si fecero largo tra la folla e reclamarono il possesso del corpo.
 Visto che quelli si occupavano di assassini, ladri e mendicanti, nessuno obiettò e così i Battuti Neri raccolsero a fatica i resti di Girolamo e si diressero verso alcuni sacerdoti del Duomo, che erano lì in mezzo alla folla. Questi fecero loro segno di no, negavano la sepoltura del Conte, così i Battuti Neri sparirono dalla vista di Caterina, portando quei brandelli di carne chissà dove.
 Caterina lasciò la finestra e dovette trattenersi per non vomitare.
 Con ancora una mano sulla bocca e una sullo stomaco, guardò i figli, la madre e la sorella.
 Capì subito che sia Lucrezia sia Ottaviano avevano visto tutto e se ne rammaricò.
 Non era uno spettacolo per un bambino di nove anni e nemmeno per una donna che, bene o male, non aveva mai visto così da vicino certi orrori. In fondo, pensava con un velo di invidia, Lucrezia non aveva nemmeno visto da vicino la morte del Duca di Milano, al contrario di Caterina.
 Sforzino e Galeazzo Maria erano agitati, ma non piangevano e non capivano bene quello che stava accadendo. Né potevano immaginare cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco.
 Livio era appena più conscio del pericolo, ma stava aggrappato alle gonne di Lucrezia e tanto era sufficiente a quel bimbo di nemmeno quattro anni per tranquillizzarsi abbastanza per non lasciare il posto alle lacrime.
 I piccoli Bianca e Cesare guardavano la madre in attesa di essere rassicurati e anche loro facevano del loro meglio per non cedere alla disperazione.
 Ottaviano, invece, avendo visto quello che era appena stato fatto a suo padre, non era capace di ricacciare indietro il pianto e così, silenziosamente, singhiozzava e lasciava che calde lacrime gli rigassero il volto.
 Caterina fece avvicinare a sé tutti i figli e dovette deglutire alcune volte prima di riuscire a parlare: “Dovete essere forti, adesso, come ho sempre cercato di farvi essere.”
 “Moriremo?” chiese Cesare, con i grandi occhi che sottintendevano molte altre domande, molto più penose, come 'farà male?' e 'dopo dove andremo?'.
 “Non lo so.” ammise Caterina, decisa a non mentire, per quanto la verità fosse spaventosa: “Ma dovete promettermi una cosa, una cosa importante...”
 Intanto, fuori dal palazzo, le grida del popolo si facevano più forti e Caterina sapeva che a breve quei baldi cittadini avrebbero sfondato le porte del palazzo e li avrebbero presi.
 “Dovete promettermi che, qualunque cosa accadrà, l'affronterete con coraggio. Siete figli miei e nelle vostre vene scorre il sangue degli Sforza, non dovete dimenticarlo.” disse, concentrandosi soprattutto su Ottaviano che, mosso dal desiderio cocente di non deludere la madre, smise di piangere, seppur con difficoltà.
 Li abbracciò tutti per un lungo istante e diede un bacio in fronte a ciascuno di loro. Ottaviano la strinse una seconda volta e Caterina si sentì incredibilmente in colpa, pensando che quella sarebbe potuta essere la sua ultima notte e che ancora non era riuscita ad amare quel primo figlio come aveva amato gli altri.
 Dopodiché, sentendo che ormai il tempo era agli sgoccioli, Caterina si rivolse a Lucrezia, afferrandola saldamente per le braccia: “Ti fidi di me?”
 Lucrezia annuì, senza riuscire a dar voce a quel gesto.
 “Allora devi promettermi anche tu una cosa.” disse, solerte: “Io cercherò di farvi uscire tutti vivi da questa storia, ma tutti voi dovrete assecondarmi in tutto e per tutto. Dovrai fidarti di me, ciecamente. Se riuscirò a strappare per uno qualunque di voi un salvacondotto, chiunque di voi sia stato lasciato libero, dovrà scappare subito, capito? Subito. Niente gesti eroici, niente atti di nobiltà, fate quello che vi verrà detto di fare. Dovrai fidarti completamente di me.” ribadì Caterina, affinché il concetto risultasse più che chiaro: “Qualunque cosa mi sentirai dire, qualunque cosa mi vedrai fare, dovrai continuare a fidarti di me. Qualunque cosa, capito?”
 Lucrezia fece di nuovo segno di sì con la testa e stavolta riuscì ad aggiungere: “Mi fido di te, bambina mia. Lo farò sempre.”
 Un rumore secco e improvviso fece loro capire che il portone d'ingresso era stato scardinato e Caterina comprese che l'Apocalisse infine era giunta.

   
 
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