Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Blablia87    29/03/2016    6 recensioni
[Omega!verse]
[Alpha!Sherlock][Omega!John]
Pezzi di una filastrocca come briciole di pane lasciate da un passato pronto a riscuotere la sua vendetta.
Genere: Angst, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
[Dieci anni prima]
 
Sherlock, mani in tasca e sciarpa ben stretta attorno al collo, scese i pochi gradini del treno velocemente, piombando a terra con un tonfo.
Si spostò di lato, respirando a pieni polmoni l’aria di Londra, fredda, pungente, umida.
Restò vicino al vagone, ormai del tutto fermo, per alcuni minuti, osservando con sguardo famelico ogni persona attorno a sé.
Donne, uomini, bambini, un caleidoscopio di colori e odori, voci che si mescolavano in un brusio composito, carico di mille parole e senza il senso preciso di nessuna di esse.
Dio, quanto gli era mancata, quella confusione carica di vita. Di indizi.
 
Nei tre mesi trascorsi nella clinica di Luton, a nord della capitale, l’unico passatempo a lenimento della noia sempre più forte erano stati i pochi visitatori che nei fine settimana arrivavano al centro per trovare i propri cari, carichi delle loro coscienze pesanti, in cerca di perdono.
Mycroft non si era mai fatto vivo, ma non aveva mancato di inviargli, ogni settimana, un pacchetto di sigarette ed i soldi necessari a provvedere alle proprie necessità durante il periodo di riabilitazione, l’ennesimo, nell’arco di dieci anni di assunzione più o meno costante di Soma.
Il maggiore aveva insistito lungamente che una macchina andasse a prelevarlo per riaccompagnarlo a Londra, ma Sherlock aveva rifiutato, fermo.
Aveva perso fin troppo tempo, per regalare ancora ore preziose della propria vita ai dettami del fratello. E, come si era premurato di ripetergli più volte, se aveva deciso di ricoverarsi era stato solo perché si era reso conto di aver assunto dosi così elevate del farmaco da iniziare a vedere alcuni rallentamenti delle proprie capacità celebrali anche lontano delle somministrazioni.
“Spero sia chiaro che stia accettando per il semplice fatto di essere conscio di dovermi prendere una pausa. E nessun posto è migliore per farlo di uno dove ti impediscano di drogarti somministrandoti altre droghe.” Gli aveva detto, sarcastico, durante il loro ultimo colloquio prima della partenza.
“Certo, fratellino.” Mycroft aveva sospirato, e per un attimo, uno solo, era apparso stanco, teso. “Cristallino, come al solito.” Aveva aggiunto, un rapido arricciarsi del naso ed uno sguardo serio negli occhi, prima di uscire da Baker Street con passi lenti e calibrati.
 
Sherlock chiuse gli occhi, godendo di ogni input arrivasse ai suoi sensi.
Londra. Non avrebbe mai avuto bisogno di altro, fin quando lei, le sue storture, i suoi abitanti e le loro mortali debolezze avessero continuato ad esistere.
Il fischio di un capotreno, poco lontano, lo scosse. Il detective aprì gli occhi di scatto, cercandolo con lo sguardo.
Lo trovò - carico di ogni piccolo indizio sulla propria vita familiare e professionale ben in evidenza tra le pieghe degli abiti ed i gesti apparentemente senza significato – e lo analizzò con attenzione, in fretta.
Aveva bisogno di sentirsi ancora capace di farlo, di farlo bene.
Aveva la necessità di sapere che, ancora una volta, ciò che era – che riusciva a fare - non fosse sparito, inghiottito dalla noia estenuante dell’inattività.
Come uno sportivo che torna ad allenarsi, iniziò a dirigersi verso l’interno della stazione, muovendo gli occhi su ogni persona entrasse nel proprio campo visivo.
Fedifraghi, madri disperate, ladri ed infelici, ognuno catalogato – rapidamente e con certezza - da un particolare, un gesto, un movimento del viso.
Sherlock si fermò al centro della hall di King's Cross, saturo di informazioni e carico di un’eccitazione che sentiva crescere nelle vene, veloce come il suo respiro accelerato.
Fu nel pieno di questo slancio di puro entusiasmo, che lo sentì.
Il suo odore.
Agre come era sempre stato, ma più forte. Più sicuro. Maturo.
Per qualche secondo pensò che fosse uno scherzo della propria mente, il risultato di un sovraccarico sensoriale.
Si guardò attorno, il respiro corto ed i sensi all’erta.
Nel continuo movimento di uomini e donne intorno a sé, scorse dopo poco una persona, immobile, circa trenta metri alla sua destra.
Riconobbe i suoi occhi ancor prima di riuscire a ritrovare, in quel viso, i tratti - affinati dal tempo - di Victor.
Trevor rimase immobile, inclinando semplicemente la testa da un lato, assieme ad un angolo delle labbra.
La sua scia, incurante di chi fosse loro intorno, virò verso un sentore carico di desiderio, vibrante quanto l’aria che li separava.
Non aveva più pensato a Sherlock, se non occasionalmente, durante qualche notte troppo solitaria.
Ma adesso che lo aveva nuovamente di fronte, non riusciva a pensare ad altro che non fosse averlo. Non era importante per quanto, o dove. Lo voleva, e come ogni altra cosa avesse desiderato negli ultimi anni, l’avrebbe ottenuta con facilità.
Nessuno dei due era più un ragazzo, ognuno aveva preso strade diverse. Ma certe cose, pensò, non possono cambiare.
Sherlock lo osservò avvicinarsi con passo tranquillo, volutamente lento, negli occhi uno sguardo ferino, carico di tutta l’eccitazione che non si vergognava di esternare.
La casualità di un incontro divenuta improvvisamente una necessità impellente, che richiedeva un espletamento rapido, immediato. Violento.
Aspettò che Victor si bloccasse a pochi centimetri dal suo viso, occhi allegri ed aria divertita.
Lasciò che il suo odore li avvolgesse, saturando ogni respiro.
Sapeva cosa stava chiedendo. Voleva il potere di vederlo chino ai suoi piedi, ancora una volta.
“Ciao.” Gli sussurrò quasi sulla bocca Victor.
“Ciao.” Ricambiò il detective, abbozzando un sorriso.
“Scegli dove, non mi importa.” Il respiro caldo di Victor si sparse sul viso di Sherlock, carico di ogni secondo di lussuria passato assieme che adesso veniva, prepotentemente, reclamato.
Sherlock chiuse gli occhi, chinandosi verso di lui, le labbra a sfiorare l’orecchio destro dell’altro.
“Non mi servi.” Sussurrò, lasciando la propria scia libera di sottolineare quanto appena detto con l’intensità olfattiva di un rifiuto netto.
Si fece scivolare le parole tra le labbra, morbide, intrise di un senso di rivalsa e liberazione.
Tornò in posizione eretta, godendo degli occhi improvvisamente saturi di ira dell’altro. Un battito di ciglia, e l’espressione di Victor mutò, tornando allegra. Si alzò in punta di piedi, appoggiando una mano al petto dell’altro in cerca di sostegno.
“Non vorrai dirmi che serbi ancora rancore, dopo tutto questo tempo…” Rise, la bocca praticamente su quella di Sherlock.
“Oh, no.” Rispose l’altro, spostandosi quel tanto da allontanare i loro visi. “Nessun rancore.” Specificò, sorridendo. “Mi sei indifferente.”
Sherlock fece un passo indietro, osservando l’altro perdere per un secondo l’equilibrio.
“Non ci credo.” Victor alzò le spalle, negli occhi una luce giocosa ma la scia cangiante, irrequieta.
“Ho una relazione stabile, adesso.” Spiegò Sherlock, cercando nella tasca del cappotto il pacchetto di sigarette.
“Non ne hai l’odore.” Soffiò l’altro, arricciando per un attimo le labbra.
“Oh, non potrei.” Sherlock si portò una sigaretta alla bocca, facendo scattare l’accendino. “Non è una persona. Le persone sono inutili. Tutte, nessuna esclusa. E sei stato proprio tu a dimostrarmelo.” Piccoli cerchi di fumo denso si alzarono davanti agli occhi del detective, uno per ogni parola. “Chi ha pulsioni ha dei limiti, lo sai?” Domandò poi, divertito, facendosi uscire il fumo residuo dal naso, lentamente. “Io non ne ho. Ho il mio lavoro. A lui sono Legato e solo a lui mi mostro prono.” Sherlock staccò le labbra dalla sigaretta, e se la girò tra le dita, porgendola all’altro dal lato del filtro, la fiamma verso palmo della mano. “Vuoi?” Chiese, in un’imitazione grottesca dei loro scambi di sostanze, anni prima.
Victor osservò il fumo alzarsi tra le dita del detective, tese verso di lui. Con un movimento rapido, strinse la mano attorno a quella di Sherlock, spingendo con forza la sigaretta contro la pelle chiusa a pugno attorno a lei.
Il detective aspettò impassibile che l’altro allentasse la presa, e lasciò cadere il mozzicone, spezzato e spento, a terra.
Si portò la mano vicino al petto, osservando divertito la piccola bruciatura al centro del palmo.
“Ti auguro un buon proseguimento.” Disse quindi, ancorando i propri occhi a quelli adesso incendiati di furia dell’altro, abbozzando un sorriso.
Si voltò, mani in tasca e scia carica di soddisfazione, allontanandosi in direzione dell’uscita.
Victor rimase immobile, osservando Sherlock sparire tra la folla, nel petto una sensazione di furore accecante.
 
***
 
Gregory Lestrade si girò il telefono tra le mani, guardando con aria assorta davanti a sé.
John non lo aveva contattato allo scadere delle sei ore, e non si era fatto vivo neanche dopo le ulteriori due, concordate come il punto massimo di silenzio consentito prima che scattasse l’allerta. Sherlock, a sua volta, non aveva risposto a nessuna delle tre telefonate che gli aveva fatto.
L’Ispettore si portò nuovamente il cellulare all’orecchio, facendo un cenno con la mano libera al Sergente Donovan – ferma oltre la porta a vetri chiusa del suo ufficio -  di entrare.
La segreteria telefonica scattò quasi subito, e ad un ulteriore tentativo partì ancor prima che la comunicazione suonasse libera.
“Preparati.” Lestrade si alzò dalla sedia, aggirando la sua scrivania, diretto all’appendiabiti di fianco alla porta.
La donna gli lanciò uno sguardo confuso, assumendo un’aria interrogativa.
“Un nuovo omicidio?” Azzardò, voltandosi verso il superiore, già chiuso nel proprio cappotto.
“Non ne sono sicuro…” Iniziò l’Ispettore, infilando con gesti veloci guanti e sciarpa scuri.
Donovan aggrottò la fronte, e sottolineò il proprio smarrimento portandosi le mani ai fianchi.
“C’è stata una segnalazione?” Tentò, mentre Lestrade, già oltre la porta, le faceva cenno di uscire.
“No. Ed è questo a preoccuparmi.” Rispose lui, sbrigativo, incamminandosi attraverso la sala ingombra di scrivanie e poliziotti.
“Non credo di capire.” La donna lo seguì quasi subito, il rumore ritmato dei tacchi a sottolineare il disappunto insito nella sua camminata marziale.
“Non ce n’è bisogno, adesso. Fa’ preparare una macchina.” Lestrade si voltò verso di lei, continuando a muoversi verso l’ingresso, all’indietro. “Andiamo a Baker Street.” Terminò, dando un colpo con le spalle alle ante della porta a spinta, sparendo alla sua vista.
 
***
 
John si voltò un’ultima volta, grato, verso l’uomo che lo aveva sorretto durante l’ultima mezzora di cammino.
“Sicuro di voler continuare da solo?” Chiese lui, preoccupato dall’incedere incerto del medico.
John annuì appena, incapace di fare qualsiasi cosa all’infuori di respirare – in modo affannoso – e camminare, gambe molli e sguardo appannato.
“Va’…” Iniziò, cercando di sincronizzare bocca e polmoni. “Da tua sorella.” Soffiò fuori, in un solo respiro mozzato.
L’uomo fece cenno di sì con capo, rimanendo comunque immobile. John corrugò la fronte, imperlata di sudore, confuso.
“Mi hai detto di lasciarti ad un isolato di distanza, non di non seguirti con lo sguardo fin lì.” Spiegò l’altro, indicando la fila di abitazioni che si stendeva alla loro destra.
“Non… funzionerà.” John alzò una mano, in un ultimo tentativo disperato di sottolineare quanto di importanza vitale fosse che a fare gli ultimi metri fosse completamente solo.
L’uomo sospirò, gli occhi attenti sul viso stravolto dell’altro. John assunse un’espressione disperata, una supplica muta al suo accompagnatore di dargli ascolto.
“Va bene…” Acconsentì in fine l’altro, scuotendo la testa, poco convinto. “Mi sembra di starti abbandonando.” Aggiunse, a mezza voce.
“No.” John, con le ultime forze, abbozzò un sorriso tirato. “È ok.”
L’uomo sorrise a sua volta, teso. “Allora… Grazie.” Disse, prima di voltarsi per tornare su i suoi passi.
“Perché?” Chiese John, in un singhiozzo.
Ma l’altro era già troppo lontano per riuscire a sentirlo.
 
Il medico si lasciò cadere ai piedi dei gradini d’ingresso, ormai quasi del tutto cieco.
Col lentezza si portò una mano verso la testa, cercando di stringere tra le dita tremanti il cappello di lana, completamente intriso del suo sudore.
Provò un paio di volte, riuscendo infine a farselo scivolare di lato, poi su una spalla, infine a terra.
Sbottonò il cappotto, un bottone alla volta, fallendo ripetutamente prima di riuscire ad aprirlo tutto. Lo fece cadere dietro di lui, sul primo gradino dell’abitazione.
Doveva riuscire a togliersi anche il maglione, se voleva far abbassare la propria temperatura corporea quel tanto da poter impugnare la pistola senza rischiare che gli scivolasse tra le dita. Alzò le braccia più volte, per poi sentirle ricadere ai propri fianchi, senza forze.
Dopo qualche minuto, lasciandosi andare completamente a terra, riuscì a sfilare la testa e poi, aiutandosi con l’asfalto del marciapiede, anche le maniche. Un ultimo movimento, e scivolò fuori, sentendo l’aria fredda della sera allargarsi su di lui come un getto d’acqua gelata.
Rimase così, supino, il respiro corto ed irregolare, fin quando la porta dell’ingresso non cigolò, aprendosi.
John tentò di alzarsi, in fretta, diretto alla tasca sinistra del cappotto e all’arma al suo interno.
Si portò in posizione seduta, e girò il busto quel tanto da potersi allungare sui gradini.
Un calcio, in pieno petto, lo fece ricadere all’indietro, spezzandogli in respiro.
Rantolò, chiudendosi in posizione fetale, e si portò le braccia attorno al collo, in un automatismo di difesa.
Il cappotto cadde poco sopra la sua testa, colpito da un altro calcio. Dal suono che gli sentì fare nell’impatto con l’asfalto, la pistola doveva essere ancora al suo interno.
“Dottore, non mi crederà davvero tanto villano da aggredirla in strada!” Una voce, ovattata dalla febbre e dall’adrenalina, lo raggiunse oltre il muro delle proprie braccia.
“Su, si faccia dare una mano.”
John si sentì sollevare con forza, e cercò di lasciarsi andare a peso morto contro il terreno.
Una risata, assordante, gli esplose in un orecchio.
“Ho trascinato il corpo di un uomo per un intero zoo, Dottore. Pensa che abbia problemi a farlo con lei?”
Il medico si sentì schiacciare di lato, un piede premuto contro la spalla e poi sulla clavicola. Senza volere si ritrovò schiena a terra, il lato dentro del viso completamente scoperto.
Socchiuse gli occhi, cercando di capire se l’altro fosse armato. Inaspettatamente, si trovò a pochi centimetri dal viso di Victor Trevor, chino su di lui, un ginocchio sopra il suo corpo e l’altro a terra, premuto contro il suo fianco. “Jim Moriarty.” Si presentò, con tono allegro. “Ciao!” [1]
John schiuse le labbra, senza riuscire a capire.
“Ti vedo confuso, Johnny bello. Penso ti serva una rinfrescata.”
John si sentì sollevare per le spalle, energicamente. Provò a divincolarsi, ma Victor lo strinse con ancora più forza.
Il suo odore, carico di ogni possibile sfaccettatura, circondò il medico, inondandogli i polmoni.
Talloni contro i gradini, John venne trascinato con passo sicuro oltre la porta d’ingresso dell’abitazione, rimasta aperta.
“Sherlock?” Riuscì appena a sussurrare, ottenendo il cambio una risata piena di disprezzo.
“Non saprei.” Rispose l’altro, dando un colpo alla porta per farla chiudere. “Gli hai dato il mio regalo?”
 
***
 
“Freddo?” Moriarty [2], seduto gambe incrociate a terra, si sporse in avanti, stringendo le dita attorno alle piccole stecche metalliche.
John, piccole gocce d’acqua a solcargli il viso, lente, si allontanò il più possibile da lui, schiacciandosi con la schiena contro l’angolo opposto dell’angusta gabbia dove lo aveva rinchiuso, prima di versargli addosso un intero secchio d’acqua.
Riusciva a malapena a restare seduto, la testa lievemente piegata in avanti e le gambe al petto per il poco spazio, l’istinto naturale di tenere l’altro a distanza come priorità di ogni pensiero.
“No.” Gli rispose il medico, con voce tagliente. “A dire il vero un po’ di acqua fredda era quello che mi serviva.” Aggiunse, scostandosi con il dorso della mano una goccia troppo vicina agli occhi.
“Sì.” Jim si allargò in un sorriso allegro. “Lo so.” Con un movimento veloce, si portò in piedi, allargando le braccia come a simulare l’atterraggio dopo un salto mortale. “I problemi del Calore…” Cantilenò, ondeggiando la testa. “Raccontami, come ci si sente?”
John lo osservò fare i giro attorno alla gabbia, flettendosi poi con le ginocchia, portandosi all’altezza del suo viso.
“Benissimo.” Sputò fuori il medico, con ira, la voce ridotta ad un ringhio.
“Oddio!” Moriarty fece finta di spostarsi all’indietro, sorpreso. “Questo Omega ringhia!” Rise, scomposto, tornando serio subito dopo. “No, seriamente. Come ci si sente, Johnny? Perché ho impiegato davvero tanta fatica e taaaanti soldi a trovare qualcosa in grado di combattere gli inibitori prima, e velocizzare l’estro poi. Insomma…” Si avvicinò, a gattoni, negli occhi uno sguardo ferino. “Me lo devi.” Terminò, chiudendo gli occhi e respirando con un sorriso compiaciuto l’odore del medico.
John sentì la scia dell’altro farsi frizzante, carica di eccitazione. D’intinto portò viso e collo lontano dalle sbarre, spingendosi contro l’altra parete.
“Sherlock ha gradito?” Moriarty si portò, sempre a quattro zampe, dietro di lui. “Voglio dire, avete…?” Schiacciò il viso tra le stecche, inspirando profondamente. “No. Direi di no.” Velocemente si mise in piedi, ed iniziò a muoversi per la stanza vuota, occupata quasi per intero dalla gabbia posta al suo centro.
“Non capisco.” John spinse le parole fuori dalla propria gola a forza, guardandole giungere fino all’altro, che si immobilizzò, voltandosi verso di lui con un sorriso intenerito.
“Non ne dubito. C’è un motivo se appartenete agli strati più bassi della società.” Jim si portò una mano davanti alla bocca, fingendoimprovvisa contrizione. “Scusa, non volevo.” Aggiunse, con tono di scherno.
“Ad ogni modo mi congratulo per tutto ciò che sei riuscito a raggiungere nella vita, Johnny. Davvero. Un militare, un medico! Mi chiedo dove saresti, oggi, se gli Snubber non fossero mai stati inventati.” Jim fece un mezzo passo di danza, portandosi di nuovo accanto a lui. “Forse in una gabbia, ad un passo dall’implorare per un rapporto.”
John chiuse gli occhi, serrandoli con forza. Si portò le labbra tra i denti, stringendo. Doveva imporsi di rimanere concentrato. Cercare un modo per venirne fuori.
“Non sto implorando. E non voglio niente, da te.” Sibilò, avvolto nel buio delle proprie palpebre, gli altri sensi in piena allerta, oltre il muro della febbre.
“Sai.” Moriarty tornò a sedersi a terra, ed inclinò la testa da un lato. “Quando un uomo ha tutto… Potere, ricchezze… Può ottenere tutto.”
John abbozzò un sorriso, continuando a tenere gli occhi chiusi. “Se mai otterrai qualcosa da me, sarà dal mio cadavere.” Rispose, tranquillo, cercando di ignorare i fremiti caldi che gli scuotevano il corpo.
“VUOI SCOMMETTERE?!” La voce di Jim, un ringhio alto, assordante, riecheggiò per le pareti vuote della stanza, tornando verso John come una lama.
Il medico si chinò in avanti, portandosi le mani alla testa, a protezione delle orecchie, un guaito soffocato come unica risposta.
“Pensi che non abbia niente per farti arrivare all’estro conclamato?!” Continuò l’altro, abbassando il tono, improvvisamente calmo. “Pensi che mi ci vorrebbe molto a ridurti un ammasso di carne implorante, Johnny? È QUESTO CHE PENSI?!”
John si morse la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue, impedendosi di reagire in ogni modo a tutti gli input che gli stavano arrivando.
“Non sei sotto di me, Omega, solo perché non sei tu, che voglio ai miei piedi.”
Moriarty allungò il collo, prima da una parte, poi dall’altra, facendolo schioccare.
“Nessuno rifiuta qualcosa a me.” Sussurrò, chiudendo gli occhi. “Nessuno, mai, si dimentica di me.”
“È questo il problema? Il fatto che Sherlock ti abbia dimenticato?” John, occhi ora ben aperti, fissò l’altro, costringendosi ad assumere un’aria derisoria.
“O no, Dottore.” Rispose l’altro, rispondendo al suo sorriso. “Non è una questione di memoria, ma di potere.” Moriarty si diede una spinta con una mano, alzandosi. “Una volta che qualcosa è stato mio, sono io a scegliere quando finire il gioco. Nessun altro.”
John corrugò la fronte, confuso.
“Io e nessun altro, mai.” Ripeté l’altro, sussurrando, rivolto a se stesso più che al medico.
“Devo ammettere che la tua entrata in scena è stata magnifica, stupenda!” Jim sembrò scuotersi dai propri pensieri, e tornò a guardare John. “Mai mi sarei aspettato tanto!”
“Non ti seguo.” Il medico, testa inclinata verso il basso, cercò di mantenere comunque uno sguardo fermo sull’altro.
“Volevo fosse un tango a due… ma poi sei arrivato tu e… DIO!” Moriarty esplose in una risata alta, gracchiante, aguzza. “Dio, vedere Sherlock desiderare qualcuno per poi strapparglielo sotto i suoi stessi occhi!” La sua scia divenne lasciva, oscena, e John affondò il viso nell’incavo del gomito, per tentare di respirarne il meno possibile.
“Certo siete stati magnifici, lasciamelo dire.” Jim si leccò le labbra, lentamente.
“Tu e la tua piccola scia… Ti sei accorto che si fosse già riattivata, in parte, prima del mio… - continuò, portandosi il labbro inferiore tra i denti – “piccolo incoraggiamento”?”
John mosse gli occhi davanti a sé, cercando di capire. Gli apparve l’immagine della caffetteria, la sua fuga non appena la presenza del cameriere si era fatta intollerabile [*].
“Deve piacerti molto, Sherlock.” Riprese l’altro, con voce allegra. “Non posso darti torto. E non hai idea, oh, non ne hai affatto, di come sia muoversi sopra di lui…”
Un conato, caldo, risalì la gola di John, un misto della scia sempre più satura dell’altro e dell’immagine di Sherlock sotto l’altro, ansimante.
“La tua scia sta cambiando, Johnny bello.” Cantilenò Jim, ondeggiando appena. “Mhm.” Mugugnò, vizioso. “Hai un buon odore, quando ti ecciti. S. deve tenere davvero molto, a te, per non esserti saltato addosso.”
“Come…” John tossì fuori voce e saliva, cercando di non vomitare. “Come sai della scia?”
“Oh, io so tutto.” Moriarty si aprì in un enorme sorriso compiaciuto. “Ancora non lo hai capito? Tutto, è mio. Telecamere, se voglio. Uomini. Laboratori, università, scuole, bombe. È tutto qui, soooolo qui.” Disse, mostrando a John una mano aperta, e muovendo le dita.
“Io ho il passe-partout di ogni lucchetto, Johnny. Di ogni porta. Ed in un mondo di stanze chiuse , l'uomo con la chiave è il re . E, tesoro, dovresti vedere quanto mi doni, la corona.”
“Tutto questo… solo per qualcosa accaduto quasi vent’anni fa?” John osservò l’aria di folle lucidità di Jim trasformarsi in una smorfia di disappunto.
“Le menti come le nostre si annoiano facilmente, Johnny. Serve un diversivo, un… passatempo. E nel vuoto del tedio, spesso un’idea matura, fino a divenire una meravigliosa occasione. Nel mio lavoro vedo di tutto, credimi. Dal ladro più misero al più grande truffatore. Ma niente, niente, è pari alla mente di Sherlock davanti ad un mistero. L’ho spiato a lungo, sai? Nulla è paragonabile alla sua espressione viva, davanti alla morte. Volevo dargli il suo caso migliore, il più memorabile. Volevo che capisse. Non chiedo molto, alla fine. Vorrei solo quella sua testa geniale china di fronte a me, un’ultima volta. Domarlo. Sentirlo implorare. O John, non hai idea di cosa eravamo, di cosa fosse, così grezzo, vulnerabile, eppure così diverso.”
Jim si lasciò cadere in ginocchio, chiudendo gli occhi, quasi in preghiera.
“Ho scelto il più solo, ma anche il migliore. Capisci?” Disse, ondeggiando la testa, lento. “Non c’è sfida, nella sottomissione dei deboli. Ma vi è gloria, in quella dei forti.”
John lo osservò portarsi una mano al viso, sfiorarsi le labbra con le dita.
“Ad ogni modo sono facile alla noia, come ho detto. L’ho lasciato andare, allora, ma ero ancora immaturo. Sentimentale. Ora devo finire il gioco. Assicurarmi che anche questo ricordo non cada nell’oblio del tempo e del tedio. Voglio un gran finale, Johnny. Voglio un bel quadro. Ancora tre piccoli indiani.”
Un tonfo sordo, al lato destro della casa.
Moriarty si aprì in un sorriso estasiato, alzandosi.
La scia di Sherlock, mai tanto carica di furia sorda come in quel momento, arrivò fino a John, che istintivamente si premette il più possibile con la schiena contro le sbarre della gabbia, chiudendo gli occhi.
Un secondo, e la porta della stanza si aprì di schianto, sollevandosi dai cardini nella parte alta.
Jim fece schioccare la lingua contro il palato, allegro.
“Finalmente!” Disse, con voce compiaciuta. “Piaciuto il regalo?”
 
***
 
Sherlock, l’azzurro delle iridi completamente ingoiato dal nero delle pupille, svoltò in Waverton Street, respiro affannoso e sguardo feroce.
Costeggiò, cieco di rabbia, tutti i civici della via, fino a giungere davanti all’ingresso dell’abitazione di Victor.
L’odore di John, forte al punto da imporsi alla sua attenzione sopra ogni altra cosa, lo avvolse, risalendo dal cappotto ai suoi piedi fino alle sue narici.
Sherlock lo raccolse con un gesto meccanico, portandoselo al viso. Poco lontano, un altro indumento abbandonato richiamò la sua attenzione, con ancora più forza.
Il maglione del medico, sporco e strappato in alcuni punti, giaceva ai piedi delle scale, abbandonato.
Il detective sentì un’onda calda di rabbia risalirgli le vene, annebbiando vista e ragione.
Non riusciva a formulare un solo pensiero razionale, se non quello che John fosse da qualche parte, e che doveva trovarlo. Immediatamente.
Salì le scale con foga, ringhiando in modo gutturale.
Diede un colpo alla porta, che si aprì verso l’interno, docile, evidentemente lasciata senza socchiusa.
Immobile nell’ingresso buio, Sherlock chiuse gli occhi, abbandonandosi del tutto ai propri sensi.
John.
Il nome esplose nella sua mente assieme all’odore del medico, che emerse e si diversificò da quello di Victor, che permeava tutta la casa.
Sherlock isolò la scia, concentrandosi solo su di essa.
John.
Continuò a chiamarlo, mentalmente, percorrendo veloce il corridoio, fino all’ultima porta a sinistra.
L’odore del medico, in quel punto, era altissimo, come quello di Victor.
Sherlock diede una spallata alla porta, facendola cedere in uno schianto.
“Finalmente!” La voce di Victor, allegra, arrivò alle sue orecchie lontana, offuscata.
Il detective la ignorò, spostando tutta la sua attenzione sulla figura - seduta a terra, stretta in una piccola gabbia metallica – del medico.
Un ringhio, basso, torvo, si sparse per la stanza, accompagnato dalla risata di Victor e dall’espressione atterrita di John, adesso completamente raccolto tra le braccia.
“Piaciuto il regalo?”
Sherlock non realizzò di essersi mosso fin quando non si trovò sopra di lui, mani attorno al suo collo e le loro fronti tanto vicine da sfiorarsi.
“Tu.” Gli ruggì sul viso, i capelli attaccati alla testa per l’enorme corsa, lo sguardo folle di furia.
“Jim Moriarty, piacere.” Tossicchiò l’altro, muovendosi per cercare di far passare un po’ d’aria attraverso la gola chiusa. “Moriarty come Dean di “On the road”, presente?” [3] Sputò a fatica, la voce sempre più gracchiante. “E Jim… beh in questo momento ammetto di non riuscire a ricordare lucidamente il perché, di Jim. Sarà la mano attorno al collo.” Si tirò indietro con il mento, in cerca di ossigeno. “O la gioia di sentirti per una volta sopra.”
Sherlock rafforzò la stretta, ringhiando sommessamente.
“Ad ogni modo – sibilò Jim [4], con un sorriso – ti conviene lasciarmi, o l’Omega muore.”
Un piccolo raggio rosso, proveniente dalla finestra, comparve sulla tempia destra di John, iniziando a ballare tra i suoi capelli.
Sherlock, ancora premuto sul corpo dell’altro, spostò il viso – in un gesto rigido e meccanico - verso quella fonte di luce, incapace di realizzare del tutto cosa fosse.
Istintivamente, allentò comunque la presa sul collo di Moriarty, continuando a seguire la scia luminosa muoversi sulla testa del medico.
“Mooolto meglio.” Jim portò le mani attorno a quelle di Sherlock, premendo appena. “Se ti serve una mano per capire di cosa si tratti, dato il tuo stato… È un cecchino, con un’arma di precisione. Ti fornirei volentieri altri dettagli ma… lavorano per me talmente tante persone, e per talmente poco tempo, che non ricordo molto, di loro.”
Qualcosa, oltre la coltre di furia cieca che premeva contro ogni parte del cervello di Sherlock, attivò un segnale di pericolo, ed il detective liberò Jim della stretta delle proprie mani, indietreggiando di un passo.
“No!” John cercò di portarsi in avanti, verso di lui. “Non devi lasciarlo andare!” Disse, combattendo ogni singola fibra del suo corpo che urlava e strappava per farlo mantenere a distanza da un Alpha in frenesia. “Sherlock!” Provò a chiamarlo, senza ottenere nessun tipo di risposta dall’altro, accucciato a pochi passi da Moriarty, adesso seduto e annaspante in cerca di ossigeno.
“Bene.” Jim tossì un paio di volte, godendo del bruciore che sentiva premere contro le pareti della gola. “Molto bene.” Continuò, voltandosi a sorridere verso John.
“Lascia che ti spieghi cosa accadrà adesso, S.” Con una certa fatica, aiutandosi con le mani, Jim si mise in piedi, soffocando una risata nel constatare di non riuscire a ritrovare immediatamente l’equilibrio.
Sherlock, lento, ne seguì i movimenti, alzandosi a sua volta, denti scoperti ed un ringhio continuo a corollario dei suoi respiri.
“Questi sono i ruoli che ho scelto per noi. Ascoltate con attenzione.” Moriarty fece schioccare il collo, allungandolo e piegandolo di lato. “Tu, Sherlock, sarai John Gordon Macarthur. Divertente, non trovi? Porti il nome del tuo amico.” Una risata storta, malata, vibrò per la stanza, e Sherlock arricciò le labbra con ancora più forza. “Il tuo ruolo è semplice. Banale. Sono certo tu abbia un’arma. Usala. Volgila verso te stesso, ed io grazierò l’Omega.”
Sherlock socchiuse gli occhi, ancora incapace di cogliere il senso di ogni parola.
Si voltò verso John, inclinando la testa, attirato dal tono disperato che aveva sentito provenire da lui in risposta a quanto appena detto da Jim.
“Sei un bastardo!” John diede un calcio alla gabbia, cercando di aprirne lo sportello, posto ai suoi piedi. Per qualche secondo nella stanza si udì solo un suono metallico, scomposto.
“Tu, mio caro, sarai invece Philip Lombard, vittima innocente dell’attimo di follia di Vera Elisabeth Claythorne. Chiaramente, Claythorne sarei io.” Jim si piegò in avanti, in un abbozzo di inchino.
“Vera si impicca, alla fine di questa storia, ma quello è un problema secondario. Come ho detto, sono facile alla noia. Ed un piano concluso nel migliore dei modi val bene un suicidio.” Moriarty osservò Sherlock sbattere le palpebre, ogni movimento un passo verso la lucidità.
“Immaginavo che sarei riuscito a farti desistere dal tuo piano di cieca distruzione, S. Una mente come la tua non può sopportare a lungo il comando dell’istinto.”
Jim fece un mezzo movimento, estraendo con un gesto teatrale un pistola e facendola passare attraverso le sbarre della gabbia, la volata – gelida – contro la testa bollente di John.
Il medico cercò di scostarsi quel tanto che gli era concesso, ma lo spazio non era sufficiente a mettersi fuori dal raggio dell’arma.
Sherlock, nuovamente in sé, osservò Jim con attenzione, imponendosi di respirare normalmente. Se avesse ceduto nuovamente alla rabbia, probabilmente sarebbe riuscito ad ucciderlo a mani nude, ma John non sarebbe sopravvissuto.
“Piaciute le filastrocche?” Cantilenò Moriarty, voce allegra ed aria compiaciuta. “Ho pensato fosse un buon modo per richiamare il romanzo.”
Sherlock spostò gli occhi sulla pistola, e poi su John, chino in avanti, occhi chiusi e labbra tirate. Fermo, rigido. Maestoso, nel suo imporsi di rimanere integro, fiero, anche stretto in una gabbia, tra il calore della febbre e la paura della morte.
“Che soltanto può la luce, ammazzare chi deduce…” Recitò Jim, oscillando la testa al suono delle sue parole. “Non è meraviglioso, come risplenda la consapevolezza, S.? Non è stupenda la luce che irradia una strada ormai segnata?” Aggiunse, improvvisamente serio, aggressivo, le parole come lame taglienti.
“A te la scelta, dunque. Spara. A me. A te. A chi preferisci. Ma sappi che se mi colpirai, Johnny bello finirà cadavere prima che tu riesca a farlo uscire.”
Jim si lasciò andare a terra, incrociando le gambe.
“Sherlock.” Lo chiamò John, socchiudendo gli occhi ed alzandoli verso il detective. “No.” Soffiò, ancorando uno sguardo serio a quello dell’altro.
Il detective deglutì un paio di volte, a vuoto.
“Sherlock.” Tentò ancora il medico, osservando terrorizzato la mano dell’altro affondare nella tasca del cappotto.
“NO, HO DETTO NO!” Urlò John, cercando di scivolare verso il fondo della gabbia, il più vicino possibile all’altro.
“Chi mi dice che lo lascerai andare?” Disse Sherlock, cercando di ignorare la voce di John e la sua scia, carica di dolore e paura.
“Hai la mia parola. E tu più di chiunque sai che quanto dico è legge, per me.” Jim si sporse con ancora più forza verso John, premendo con violenza la pistola contro la sua tempia.
“Io so che sai barare, ed ingannare.” Sibilò il detective, estraendo la pistola ma lasciando la mano lungo il fianco.
“Ma sai che lo faccio sempre senza nascondere nulla. E non può esserci strucco, nell’affermazione “ucciditi, ed io lo lascerò vivere”.” Insistette Moriarty, con un sibilo, gli occhi in fiamme, carichi di rabbia e desiderio.
Sherlock rimase ad osservarlo per qualche secondo, muovendo gli occhi su ogni centimetro del viso dell’altro. Infine, caricò il colpo e si portò la pistola alla tempia destra.
“E sia.” Ringhiò, prima di spostare lo sguardo su John, trovandolo atterrito, le mani strette contro le sbarre della gabbia ed il corpo torto in modo innaturale, pur di riuscire a mantenere su di lui gli occhi.
“Per favore.” Sussurrò il medico, un singhiozzo mozzato a sconquassargli il petto. “Non ho mai pregato nessuno in tutta la vita, Sherlock. Mai. Ma ti imploro, ti scongiuro, metti giù quell’arma.”
Sherlock chiuse gli occhi, respirando nell’odore dell’altro qualcosa che aveva già percepito in precedenza, ma che riuscì a catalogare solo in quel momento. Attenzione. Trasporto. Amore.
Per un attimo gli mancò la presa sull’impugnatura, e sentì la pistola allontanarsi, scivolare.
Con ancora più forza, ci strinse le dita attorno.
Lasciò che fosse il suo odore a parlare per lui, guardandolo arrivare fino a John, nel punto più profondo dei suoi occhi scuri, carichi di ogni cosa che non pensava di volere.
Il medico annaspò appena, avvolto dal calore dell’altro, e si spinse con ancora più forza contro il metallo.
“Sherlock.” Tentò nuovamente.
“Al mio tre!” Jim tornò ad imporsi alla loro presenza, la voce allegra e lo sguardo feroce.
“Uno.” Iniziò, facendo sbattere la pistola contro la gabbia, come un gong. “Due...”
Un rumore di spari, da fuori, interruppe la conta, facendolo voltare verso la finestra, continuando ad ogni modo a tenere John sotto tiro.
“Credo che sia giunto il momento, John...” Sherlock si scostò l’arma dalla tempia, muovendola in un gesto veloce verso Moriarty. “Per usare i Cammei Vaticani.”
Il medico sgranò gli occhi, colto di sorpresa. Il tempo di un battito di ciglia, e capì. Si portò in avanti, scostandosi la volata della pistola di Jim dalla testa, e si lasciò andare con forza verso il braccio teso oltre le sbarre dell’uomo.
Ci fu un rumore secco, ossa rotte contro metallo, e Moriarty esplose il un grido strozzato di dolore, lasciando andare la pistola, che cadde alle spalle di John.
Sherlock gli fu sopra in un attimo, strascinandolo lontano dal medico. Jim, a terra, lo guardò con aria divertita puntargli la pistola al viso, portandosi una mano attorno al braccio fratturato.
Con un sorriso allegro, si voltò verso John, che nel frattempo aveva recuperato l’arma e la teneva a sua volta puntata su di lui.
“Magnifico. Davvero. È stato incredibile!” Moriarty lasciò la presa attorno al proprio braccio e alzò la mano fino a sfiorare con le dita la punta della pistola di Sherlock.
“Dovresti farlo, sai? Sarebbe perfetto. Immortale al termine del tuo caso migliore. Il MIO!” Gridò, voce e scia un carico di disprezzo e divertimento. “Spara. Dai. Ti sfido.”
Sherlock spostò l’indice sul grilletto, premendo appena.
“Avanti S.! Cosa stai aspettando? Vuoi un motivo? Un valido, banale, noioso motivo?” Cantilenò Jim sotto di lui.
“Non mi serve, un motivo.” Sibilò il detective, in risposta. Con la coda dell’occhio gettò uno sguardo veloce in direzione di John, prima di tornare a chinarsi sull’altro. “Me lo hai già dato.” Ringhiò, basso.
“Oh Dio!” Moriarty esplose in una risata tesa, tetra. “Ti ho dato uno schiavo, e tu ne stai facendo un padrone!” Sputò, velenoso. “Sei ridicolo. Se davvero ci credi, sei più debole di quanto pensassi.” Aggiunse, lasciandosi ricadere la mano sul petto.
“Ti è sfuggito il punto, temo.” Sussurrò Sherlock, mentre rumore di passi veloci ed ordini urlati echeggiava lungo in corridoio, sempre più vicino. “Non ci sono schiavi, né padroni.”
Un gruppo di uomini - in tenuta antisommossa - entrò nella stanza, fermandosi appena oltre la porta.
“E senza il tuo aiuto, non lo avrei mai capito.” Aggiunse, arricciando le labbra in un sorriso alla vista dell’odio sordo che stava iniziando a deformare i lineamenti di Jim.
“Che diavolo…” Lestrade si fece largo tra i suoi uomini, entrando nella camera.
Lanciò uno sguardo rapido verso il detective, facendo cenno ad un paio di uomini di andare da lui. Con passo veloce si avvicinò alla gabbia, inginocchiandosi all’altezza dell’apertura.
John lasciò cadere la pistola, stremato. Si appoggiò alla grata, tirando indietro la testa, e chiuse gli occhi, tentando di tornare padrone del proprio respiro.
Singhiozzò un paio di volte, cercando di far sciogliere il groppo che sentiva premere contro il petto.
“Mi serve un grimaldello!” Urlò l’Ispettore, rigirandosi con rabbia il lucchetto a chiusura dello sportello tra le mani.
“Spostati.” Sherlock, arrivato alle sue spalle, gli diede una leggera spinta, facendolo cadere da un lato. Un’esplosione rimbombò nella stanza, e John spalancò gli occhi, un respiro incastrato in gola, stretto in un urlo soffocato.
“Sei impazzito?!” Lestrade si alzò di scatto, fermando tra le dita la canna della pistola di Sherlock, ancora calda.
“Quanto altro tempo pensavi di farlo rimanere lì, esattamente?!” Gli soffiò contro il detective, lasciando andare la presa sull’arma e chinandosi ad aprire quanto rimaneva dello sportello.
“Andiamo John.” Gli disse, allungandosi verso di lui il più possibile.
Il medico si puntellò sulle mani, facendosi scivolare verso l’uscita.
Il detective si spostò di lato, facendogli spazio, fin quando non fu completamente fuori. Il medico si lasciò andare schiena al pavimento, Lestrade e Sherlock ai due lati.
“Ehi.” Riuscì a dire, sopraffatto dalla febbre e dalla tensione, non più tenuti sotto controllo.
“Perché diavolo non mi hai chiamato!” L’ispettore alzò il viso, rivolto a Sherlock.
“Non avevo tempo.” Rispose quello, continuando a guardare John, steso ad occhi chiusi sotto di loro, il respiro irregolare. “Mio fratello aveva comunque tutti gli elementi per indirizzarti qui con i tuoi uomini.” Aggiunse, osservando con attenzione la bocca di John schiudersi, in cerca di un apporto maggiore di ossigeno.
“E sapevi anche che lo avrei contattato?!” Continuò Lestrade, con tono sempre più nervoso.
“Non è quello che fai sempre, quando non mi trovi?” Lo canzonò il detective, alzando per un secondo uno sguardo ironico su di lui.
“Io-“ Iniziò l’Ispettore, interrotto dalla voce calma di Moriarty, ora in piedi tra due poliziotti.
“Lo sai che non resterò nelle carceri londinesi a lungo, vero?” Disse, rivolto al detective, con tono allegro.
“Certo.” Gli concesse Sherlock, mentre John socchiudeva gli occhi in uno sguardo interrogativo, al quale il detective rispose con un sorriso abbozzato.
“È per questo che ci resterai fin quando mio fratello non avrà raccolto sufficienti elementi di prova a carico di “Victor Trevor” da far passare tutto in mano al Military Service. Scommetto che sia l’MI5 che l’MI6 [5] non vedono l’ora di ospitarti nelle loro celle.”  La scia di Moriarty si immobilizzò, quasi azzerandosi. Nessun sentimento od emozione, nessuna reazione evidente. Sherlock ebbe l’istinto di voltarsi per guardarlo, mentre veniva trascinato via, ma si sforzò di rimanere concentrato sul medico, adesso con gli occhi completamente aperti.
“Sapevi sarebbero arrivati?” Gli sussurrò John, la scia un caleidoscopio di emozioni.
“Diciamo che lo ritenevo altamente plausibile, ma non certo.” Rispose Sherlock, sentendo Lestrade trattenere uno sbuffo irato.
“E se non fossero arrivati? Avresti fatto fuoco?” Il viso di John si piegò il una smorfia di dolore malcelato.
“Certo che no. Stavo solo prendendo tempo.” Sherlock si impose di tenere sotto controllo la propria scia, ma la ammorbidì in risposta a quella tesa dell’altro.
“Sarebbe troppo chiedere di cosa stiate parlando?” L’Ispettore mosse gli occhi da l’uno all’altro, nervoso e confuso.
“Non hai degli uomini da dirigere?” Fu la risposta che ottenne dal detective, e John soffocò una risata stanca in un singhiozzo spezzato.
“Certo…” Sibilò Lestrade, abbassando gli occhi sul medico.
“John-” Iniziò, ma l’altro gli posò una mano su un braccio, stancamente.
“È tutto ok, Greg. Fa’ preparare una macchina, vuoi?” Gli sussurrò John, abbozzando un sorriso.
“Forse dovresti andare in un ospedale.” Azzardò l’Ispettore, ricevendo in cambio uno sguardo furente di Sherlock.
“È in Calore, cosa cerchi di fare, esattamente?!” Ringhiò, piano.
“Lo era anche quando è venuto qui, mi pare.” Rispose Lestrade, mentre John gli dava un’altra piccola stretta al braccio.
“Mi serve una doccia e del cibo, non un ospedale Greg. Portaci a casa.” Il medico osservò grato l’amico fare infine cenno di sì col capo ed alzarsi.
“Dite al Sergente Donovan che occorre una volante libera.” Ordinò agli uomini rimasti nella stanza, seguendoli poi fuori dalla porta, dopo aver lanciato un ultimo sguardo a Sherlock e John.
“Lestrade ha ragione.” Gli concesse Sherlock, dopo che l’Ispettore ebbe lasciato la stanza. “Eri in Calore anche quando sei venuto qui.” Il detective passò un braccio dietro il collo di John, aiutandolo a mettersi seduto.
“Perché sei qui?” Chiese, piano, gli occhi ostinatamente aggrappati ai suoi.
“Per te.” John si lasciò scivolare la verità tra le labbra, senza traccia di vergogna.
Sherlock aggrottò la fronte, confuso.
“Non…” Iniziò, ma il medico fu più veloce.
“Ero qui per te.” Ripeté, coraggioso, lo sguardo stanco orgogliosamente fisso sul viso dell’altro. “Tu? Perché eri qui?” Aggiunse, un tono di incertezza nella voce.
Sherlock sospirò appena, muovendo gli occhi di fronte a sé. Socchiuse le labbra, cercando le parole, ma non riuscì ad afferrarne nessuna capace di dare un senso compiuto al dolore agrodolce che sentiva farsi largo nel petto, muovendosi tra anima e fiato.
Lasciò quindi andare ogni controllo sulla propria scia, sperando che potesse trovare per lui le parole che non era in grado di dire.
John si trovò immerso in un odore dolce, morbido, l’esatto specchio dei due enormi occhi azzurri che vedeva fissarlo con tanta speranza ma altrettanta paura.
Ammirazione. Attaccamento. Attrazione. Amore? Amore.
Lestrade si affacciò nuovamente alla porta, immobilizzandosi a metà del passo che stava per compiere oltre la soglia.
La stanza era satura delle scie di John e Sherlock, al punto da farlo sentire un estraneo colto a spiare nell’intimità di qualcuno.
Ma a sconvolgerlo fu soprattutto realizzare che il loro odore si fosse sincronizzato, mutando, la perfetta rappresentazione di un Legame.
Rimase a fissarli per qualche attimo, fin quando entrambi non si voltarono verso di lui, raggiunti dalla sua scia estranea.
“La… la macchina è pronta.” Balbettò, imbarazzato, alzando la testa per fissare il soffitto polveroso sopra di lui.
Sherlock aspettò che John gli facesse cenno di essere pronto e lo aiutò a mettersi in piedi, sorreggendolo per la vita.
“Andiamo a casa.” Gli sospirò il medico sul collo, tremando appena, stremato.
“Sì.” Rispose in un sussurro l’altro, avviandosi verso la porta avvolto dall’odore del medico, sentendosi già, a casa.
 
Note:
 
[1] Da leggersi rigorosamente con il tono dell’ “Hi!” di Jim nella scena della piscina. XD
[2] Uno dei problemi principali del capitolo, è stato quello di gestire le parti riguardanti Victor/Jim. Ero sempre indecisa se indicarlo come Trevor, o come Moriarty. Alla fine ho optato per una via di mezzo: viene chiamato Victor (anche dalla voce narrante) fino a quando non è lui stesso a definirsi “Moriarty” con i personaggi in scena. Da quel momento, essendo effettivamente Jim a tutti gli effetti, nel tempo presente, mi rivolgo a lui con questo nome. Il realtà l’ho sempre fatto. Ad esempio nelle scene dove compaiono solo Sherlock e Lestrade, non ho mai chiamato quest’ultimo Greg, cosa fatta invece in occasione di scambi Ispettore/John.
[3] Altro problema enorme del capitolo: Jim Moriarty non è il nome di battesimo del personaggio, per ovvi motivi. Ma non potevo lasciare cadere nel vuoto una scelta apparentemente casuale ma che, dato il soggetto, non poteva ritenersi tale. Avrebbe potuto scegliere il nome sfogliando un elenco del telefono, perché no. Ma non mi avrebbe appagata, come spiegazione. Quindi ecco a voi Dean Moriarty, personaggio del libro “Sulla strada” (“On the Road”), romanzo autobiografico, scritto nel 1951, dello scrittore statunitense Jack Kerouac. Dean è perfetto. È uscito da un riformatorio, ed il suo stile di vita è in netto contrasto con la concezione borghese dell’epoca della necessità di avere una fissa dimora, un lavoro, un buon grado di responsabilità. Dean ha solo interesse per una vita intensa, fatta di innumerevoli esperienze, e desidera conoscere l'immensità del continente nordamericano, il brivido del sesso, della musica jazz, delle discussioni sotto l'effetto dell'alcool e della benzedrina.
Un personaggio di rottura col suo tempo, con la banalità degli altri, dedito alla scoperta ed agli eccessi. Mi è sembrato “carino” e plausibile che Victor abbia scelto di prendere il suo cognome, per tutta la serie di cose elencate.
[4] Ancora una volta, dopo aver usato “Victor” fino a quel momento, torno al “Jim”, dato che Moriarty si è appena presentato sotto quella veste anche con Sherlock.
[5] Ho finalmente scoperto la differenza tra le due sigle (dopo averle trovate, alternate, senza capire quale fosse quella corretta.) XD): L’MI 5 (o Military Service sezione 5 oppure, più in generale, Security Service) britannico si occupa della sicurezza e del controspionaggio interno della Gran Bretagna. Al contrario del MI 6 che, invece, lavora per la sicurezza esterna del Paese. Immagino lo sapeste già tutti, ma io ho avuto un’illuminazione “sulla via del Diogenes Club”.  XD
 
[*] Da questo si capisce anche perché Sherlock avesse “immaginato” la scia di John, quando quest’ultimo lo aveva scaraventato di peso nella vasca: ho immaginato che ogni stress emotivo del medico, nella vicinanza di Sherlock e della sua scia, avesse avuto il potere di aprire piccole “falle” nella funzione degli inibitori già prima del “gentile intervento” di Jim.
 
Angolo dell’autrice:
 
Più faticoso di descrivere sentimenti, c’è solo il cercare di delineare la follia lucida di qualcuno, cucendola assieme ai fili di una trama che si è dipanata per decine di capitoli.
Questo capitolo mi è costato fatica,  molta.
Cuore e sangue.
Il sangue è tutto per Jim, così complesso da aver la sensazione di non averlo mai completamente fermo tra le mani.
Come ho avuto modo di dire a loveart7, che ha appena pubblicato su di lui (con tutta la mia ammirazione): “Mai trovato nessuno così allucinante (e allucinato) da descrivere. Se lo fai blando è OOC, se lo esasperi è OOC. È un OOC con qualche probabilità (rara) di esser scritto bene.”
Non ho modo di valutare se sia riuscita o meno nell’impresa.
Mi ritengo comunque soddisfatta di essere sopravvissuta.
 
Ho inserito richiami, citazioni, spunti, azzardi, informazioni, e spero che possano arrivare, almeno in parte (alcuni, a mio avviso, restano chiari solo alla mia mente malata XD)
Spiegarli tutti sarebbe assurdo per me e noioso per voi.
Mi auguro solo che sia stata una lettura piacevole, perché… perché c’ho messo proprio tutta me stessa.
 
Siamo ad un capitolo dalla fine, e diciamo che (in tutti i sensi) “il peggio è alle spalle”. ^_^
 
Come sempre grazie a tutti per aver letto, doppio a chi mi farà il regalo di farmi avere un suo parere in merito.
 
A presto!
B.
 
PS: vi lascio con un’immagine evocativa, che amo molto (si ricollega all’ultima parte del capitolo, vedetela come un “come apparirebbero le loro scie se fossero in carne ed ossa”.)
 

 
PPS: Se qualcuno avesse trovato l’uscita di scena di Moriarty “sottotono”…
Diciamo che mi voglio tenere “le porte aperte” per un eventuale continuo, se e quando mi riprenderò completamente da questa storia! XD
 
 
 
 
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Blablia87