Serie TV > Supernatural
Segui la storia  |       
Autore: serClizia    03/04/2016    4 recensioni
Rexburg, Idaho, la città dove Castiel ha trovato lavoro con lo pseudonimo di Steve, mi ha dato l'ispirazione per questa storia.
Si distribuirà tra passato e presente, cercando di capire cosa è andato storto nel primo incontro tra Castiel e Dean, e come andranno a finire 8 anni dopo.
Genere: Angst, Fluff, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Rexburg, Idaho, 2007
 
Castiel non amava particolarmente studiare.
Non per pigrizia, né per ribellione adolescenziale, semplicemente lo trovava noioso.
Snocciolare nozioni che nella vita non gli sarebbero servite a niente lo rendeva frustrato. La sua mente necessitava di stimoli, di interessi, di problemi da risolvere – che non fossero i soliti 25 stupidi esercizi del libro di matematica che la professoressa aveva assegnato per il giorno dopo.
A volte pensava che se fosse stato un giovane mago ad Hogwarts, sarebbe finito in Corvonero insieme a quelli che hanno pessimi voti a scuola perché nel consegnare un compito sui troll scrivono otto pergamene sull’ingiustizia della loro condizione sociale rispetto alle altre creature magiche – ecco perché Hermione non sarebbe mai potuta essere un Corvonero, andare fuori tema non era nel suo DNA.
“Castiel?”
La voce di sua madre lo ridestò dalla contemplazione del quaderno, che coprì con il braccio fingendo indifferenza. Se si fosse avvicinata, avrebbe visto ghirigori al posto delle disequazioni di secondo grado.
“Sì?”
La mamma scese i due gradini che dal corridoio portavano alla grande sala dalle pareti bianche – e per lo più spoglie – in cui si trovava Castiel, e si appoggiò con le mani alla sedia di mogano di fronte a lui. “Sto uscendo. Ti serve qualcosa?”
Castiel finse di pensarci su e guardò le altre sei sedie vuote. (Mogano, come il tavolo. Tutto era perfettamente in tinta, in quella casa.) Avrebbe voluto Gabriel, e Anna. Avrebbe voluto qualcuno con cui parlare, con cui fare i compiti insieme, con cui passare il tempo. Avrebbe voluto compagnia, più di ogni altra cosa. Invece aveva una famiglia ricca e una casa incredibilmente vuota.
“No, grazie.”
La mamma si scostò i capelli dalla fronte sistemandosi l’acconciatura, e Castiel sapeva già cosa stava per dire. “Fai una pausa di dieci minuti, tra un pochino.”
Glielo ripeteva sempre prima di uscire, era una donna che credeva molto nell’organizzazione serrata delle ore di studio – oltre che di tutte le altre cose. Forse era l’essere moglie di un reverendo e avere troppo tempo a propria disposizione.
“Certo.”
Si lisciò il tailleur prima di passare a dargli il canonico bacio sulla testa e sparire oltre la soglia del portone, a pochi passi dal tavolo dove era seduto.
Con quel tonfo, scese il silenzio. Castiel era di nuovo solo. I fratelli maggiori al college, il padre a svolgere qualunque mansione richiedesse il suo ruolo nella piccola parrocchia, la mamma fuori a fare compagnia alle altre fedeli casalinghe, per non lasciarle troppo sole.
Era molto ironico che i suoi genitori impegnassero il 95% del proprio tempo e dei propri sforzi nel lavorare per la comunità, lasciando il resto 5% scarso ai propri figli.
Gabriel lo trovava assolutamente spassoso. Ma per Gabriel era facile trovare del comico ovunque, anche nel fatto di diplomarsi prima del tempo pur di fuggire da Rexburg e andare all’Università.
Castiel sospirò e decise di anticipare la pausa, tanto non stava combinando nulla in ogni caso. Prese un po’ di succo d’arancia dalla cucina e si sistemò fuori, sugli scalini di legno del portico.
Gli era sempre piaciuto stare all’aria aperta, e doveva approfittarne, visto che a breve sarebbe stato troppo freddo perfino per pensare di mettere il naso fuori.
Sì rilassò sotto il cinguettio degli uccellini, il rumore distante di un tagliaerba, il tepore che gli avvolgeva le guance. La strada di fronte era deserta, le casette tutto intorno spiccavano perfettamente allineate e con uno spiazzo di giardino davanti, tutte uguali. I colori erano diversi, certo. La maggior parte era colorata di un marroncino opaco e giallo, mentre una in fondo a sinistra era rossiccia. Quella della famiglia di Castiel era l’unica ad essere impeccabilmente bianca.
Stava fissando intensamente le foglie autunnali che avrebbe dovuto spazzare dal giardino – il suo mamma/calendario segnava le 15:10 del pomeriggio successivo, ma perché non farlo subito visto che ogni scusa è buona per non studiare? – quando sentì una porta aprirsi, lasciando uscire delle urla da una delle case vicine che stava osservando solo qualche momento prima.
Strinse gli occhi per rintracciarne la provenienza, e vide un ragazzo gridare qualcosa all’interno dell’abitazione (quella rossa), sbattersi la porta alle spalle e correre giù per il vialetto a passo svelto.
Magari a quella distanza – tre case più in giù, dall’altra parte della strada – non lo avrebbe neanche riconosciuto, se non fosse stato per la giacca di pelle.
Dean si infilò le mani in tasca, armeggiò finché non trovò qualcosa e aprì la macchina parcheggiata di fronte.
Se Castiel fosse stato più attento, avrebbe visto un’Impala ferma nella sua stessa via da giorni. Eppure lui era uno attento. Ed era anche piuttosto sicuro che quella villetta fosse vuota, fino a poco tempo prima. Dovevano essersi trasferiti da poco.
Dean nel frattempo si era infilato dentro l’automobile, Castiel lo vide scomparire al suo interno – pareva si fosse sdraiato. Partì della musica sparata al volume massimo, attutito dai vetri chiusi, e vide spuntare delle mani che seguivano il ritmo frenetico della batteria.
Castiel sorrise, scese i tre gradini del portico e attraversò la strada.
La musica che proveniva dall’abitacolo gli era sconosciuta. La cosa non lo stupiva particolarmente. Anna aveva comprato un lettore CD di nascosto, anni fa, e ogni tanto gli faceva sentire i suoi gruppi preferiti – quando vivevano ancora insieme – oltre a quello, la sua ignoranza era pressoché totale. Oh, fatta eccezione per le canzoni di quella terribile notte da una botta e via. Ma quelle aveva cercato di rimuoverle completamente.
Bussò al finestrino, e Dean interruppe a mezz’aria un giro di batteria particolarmente difficile, a giudicare dall’espressione corrucciata.
Castiel si domandò se si ricordasse di lui, il tipo strano a cui aveva dato un passaggio due settimane prima dopo una festa. D’altronde Dean doveva essere uno di quelli che vanno ad un sacco di feste.
Dean abbassò la manopola del volume e aprì velocemente il finestrino con la manovella. “Ehi, Cas.”
Il sorriso che gli rivolse era lo stesso che aveva quella sera, quello che gli faceva sperare che Dean non fosse etero al 100% come sembrava urlare da tutti i pori. E poi Cas. Nessuno gli aveva mai dato un soprannome, prima.
“Ciao, Dean.”
“Ti stai re-idratando, principessa?”
Castiel lo fulminò esattamente come la volta prima, sperando che non diventasse un’abitudine. Era decisamente meglio l’altro soprannome. Che poi, perché gli stava parlando di idratazione?
Dean fece un cenno del capo verso la mano che a quanto pare teneva a mezz’aria e che si era portata dietro il succo d’arancia. Doveva sembrare un imbecille, fermo in mezzo alla strada con un bicchiere di plastica pieno, mentre se ne stava lì impettito a bussare alle macchine degli altri.
Il portone alle spalle di Dean si aprì di nuovo, ne uscì un ragazzino con un caschetto di capelli castani e uno zaino troppo grande sulla schiena.
“Ehi, ehi, ehi!”, Dean si infilò nel finestrino sporgendosi a mezzo busto sulla strada. “Dove vai!”
Il ragazzino girò le gambette magre per correre all’indietro, senza rallentare di un passo. “A fare i compiti da Tom! Te l’avevo detto!”
“Ah, già,” borbottò Dean. “Beh, torna alle sette!”
“Torno quando mi pare!”
“Torna alle sette!”
Il ragazzino, chiaramente un fratello - Castiel provò un moto d’invidia perché nessuno gli aveva mai urlato di tornare dopo aver fatto i compiti a casa di un amico, dato che non li aveva mai fatti da nessun’altra parte che non fosse il tavolo di mogano della sala - gli mostrò la lingua e riprese a correre guardando avanti, lo zaino che gli ballonzolava sulle spalle.
Dean si voltò a guardare Castiel con un’espressione affranta e colpevole, quasi lo avessero sorpreso a fare qualcosa di male. Forse Castiel aveva visto uno spaccato della sua vita che non avrebbe voluto far vedere ad altri? L’uscire di casa urlando, sbattendo la porta… Forse c’era un padre o una madre con cui non andava d’accordo, là dentro? E il fratellino era corso via come se ne andasse della propria vita. Magari non era per la foga di fare i compiti, Castiel cominciò a dubitare che lo fosse.
“Vuoi andare da qualche parte?”
Dean appoggiò il mento sul gomito che fuoriusciva dal finestrino. Lo guardò da sotto in su, battendo le palpebre. “Mi stai chiedendo di uscire?”
“No, ti sto chiedendo di entrare.”
Dean si irrigidì così velocemente che Castiel si affrettò a chiarificare. “Nella tua macchina. Vorrei entrare nella tua macchina. C’è un parco qua vicino, potremmo andare là. A sederci. E… parlare.”
Dean strofinò il mento sull’avambraccio. “Possiamo stare seduti e parlare anche nella mia macchina.”
“Il parco è più bello.”
L’espressione scioccata che gli rivolse era quasi comica. “Amico, niente è più bello della mia bambina.”
Castiel non rispose. Non aveva idea di cosa ci fosse di tanto interessante nelle automobili, non trovava niente di particolare in questa e non sapeva cosa pensare di uno che chiamava il proprio veicolo ‘bambina’.
“Ah, fanculo, va bene. Togliti pure il palo dal culo e sali.”
Castiel si accomodò sul sedile del passeggero, un po’ duro sotto le gambe, troppo solido; almeno lo schienale era piuttosto morbido, e vi si appoggiò, tenendo il bicchiere di plastica tra le mani piegate in grembo. Era una cosa stupida, avrebbe potuto gettarlo via, ma sentiva la necessità di avere qualcosa da farci, con le mani, senza che vagassero goffamente verso delle tasche in cui da seduto non poteva infilare.
Dean accese il motore e fece ripartire la musica, alzandone il volume. Inarcò le sopracciglia con fare compiaciuto. A Castiel ci volle qualche secondo per capire che si stava vantando delle note che fluttuavano nell’abitacolo.
“Non conosco questa canzone.”
A Dean si spense il sorriso. “Non conosci i Creedence.”
Castiel scosse la testa.
“I Creedence Clea- non è possibile.”
“Non possiedo una cultura musicale adeguata.”
Castiel provò ad ascoltare; la melodia non gli suscitava nulla, la voce del cantante troppo acuta.
“La musica sembra…”, si sforzò di sorridere. “…carina?”
“Carina.” Dall’espressione, Dean doveva averlo preso per un affronto. “Carina?!”
Castiel si strinse nelle spalle. Non aveva intenzione di scusarsi. Già che stava cercando di fare un favore ad uno sconosciuto, ci mancava solo che fingesse di farsi piacere qualcosa. Non era da lui essere qualcuno che non fosse veramente. Aveva capito, grazie ad un paio di brutte esperienze, che essere onesti a se stessi era più importante di qualunque cosa.
“Carina. Sarà meglio che il parco sia lontano, perché questa canzone te la senti tutta.”
Alzò la manopola al massimo, Castiel strinse gli occhi e cominciò a rivalutare le sue scelte di vita, tipo aiutare gli sconosciuti in difficoltà – anche se sono sconosciuti particolarmente attraenti.


Il parco era, in effetti, vicino; giusto un paio di isolati di distanza.
Grande quanto il classico parco di periferia, un rettangolo di verde in mezzo a tutta quella borghesia di cemento. Città piccola, parchi di quartiere ancora più piccoli, con due o tre attrazioni e tanta erba dove sbucciarsi le ginocchia nei pomeriggi d’estate.
A Castiel piaceva andarci a riflettere, guardare i bambini giocare sulle altalene. Forse gli ricordava un tempo in cui i suoi genitori non c’erano, ma la spensieratezza dell’infanzia e la compagnia dei fratelli facevano il resto. I ricordi erano tutto quello che aveva. E lo rilassavano.
Si accomodò sulla solita panchina, quella con una bella vista sul parco di fronte – Dean si spaparanzò su quella immediatamente accanto, doveva essere uno di quelli che hanno bisogno di molto spazio per sedersi.
“Perché questo posto?”, gli chiese, le braccia allungate sul ferro verde e arrugginito.
Castiel allungò una mano per indicare alla loro sinistra.
“Là, a quell’altalena, Anna si era intestardita a voler saltare giù mentre era ancora a mezz’aria.” Indicò un altro punto. “A quello scivolo, Gabriel l’ha buttata di sotto. Voleva scendere per primo… Anna tornava sempre a casa coperta di lividi, come potrai immaginare.”
“Sono i tuoi fratelli?”, Dean aveva un piccolo sorriso, quasi tenero.
“Sì, più grandi. A volte mi piace venire qui, quando mi mancano.”
“Non ci sono più?”
“College.”
“Oh.”
Forse Dean pensava fossero morti, quel ‘non ci sono più’ detto con una voce flebile. Forse Dean aveva davvero perso qualcuno.
Castiel indicò un ennesimo punto con un cenno della testa, stavolta verso uno spiazzo nell’erba.
“Laggiù, Gabriel mi ha difeso da dei ragazzi più grandi venuti per picchiarmi. Non l’ho mai visto sanguinare così tanto.”
“Cos’è successo?”
Dean sembrava sinceramente interessato. Castiel immaginò che lo distogliesse dal pensare ai suoi problemi. Era una cosa che funzionava anche con Gabriel e Anna: lasciare che si prendessero cura di lui era il modo di Castiel per prendersi cura di loro. Magari funzionava per tutti i fratelli maggiori.
“Non erano d’accordo con la mia scelta di frequentazioni.”
Dean fece una smorfia. “Che diavolo di motivazione sarebbe?”
“Mi sembrava di avertelo detto…”, lo sguardo di Castiel si fece più intenso. “Non sono interessato alle ragazze.”
Dean abbassò gli occhi, li spostò verso il vociare dei bambini. Castiel stava registrando ogni minima espressione, tentando di leggere cosa ci fosse scritto sopra. Era imbarazzo? Curiosità? Sdegno? Non sembrava nessuna delle tre, Castiel si infastidì con se stesso per non riuscire a capirlo.
“Mi sembra comunque un motivo schifoso per picchiare qualcuno,” bofonchiò infine a mezza voce.
Castiel non rispose. Certo che era un motivo schifoso, era uno dei più schifosi che gli venissero in mente, solo non aveva intenzione di stare a rimuginarci sopra.
Lo aveva fatto, e non voleva più buttarsi giù a quel modo. A Gabriel ci erano voluti giorni per attirarlo fuori dalla sua stanza – Anna si era semplicemente sdraiata nel letto con lui ad accarezzargli la testa – era un tipo di esperienza a cui non voleva ripensare.
E poi adesso era più forte, più sicuro di sé, non era più un bambino delle medie. Poteva farcela. E sapeva come difendersi. Si domandò se Dean fosse allo stesso modo, ma qualcosa gli diceva di no.
“E tu…?”
Dean si voltò di nuovo a guardarlo, il verde chiarissimo dei suoi occhi che risaltava al sole. “Io cosa?”
Castiel non sapeva come formulare la domanda: ‘E tu hai qualcuno a difenderti?’, ‘E tu sai proteggerti da chiunque ti gridi dietro a quel modo?’
“Non è stata mia intenzione…”, cominciò, incerto. “Ma ho sentito delle urla provenire da casa tua, prima.”
Ovviamente si irrigidì, peggio di Castiel in mezzo ad una strada follata. “Cosa sei, uno stalker?”
Castiel rimase a fissarlo, senza abboccare. Qualunque cosa avesse detto, avrebbe dato modo a Dean di sviare il discorso (era incredibile quanto assomigliasse a Gabriel).
Dean si avvicinò con fare cospiratorio. “È Sam. È schizofrenico, ogni tanto le sue numerose personalità sono fastidiose.”
“Sam?”
“Mio fratello.”
Castiel capì che la conversazione non sarebbe andata più in là di così. Decise di stare al gioco, e si fece raccontare le personalità multiple di quel ragazzino con lo zaino troppo grande.
“Una è donna,” ghignò Dean. “È grazie a lei che i suoi capelli sono così luccicanti.”
Quando vide che Castiel non lo imitava, si spense un po’.
“Beh, comunque… Io sono Batman. Sam è il mio Robin. Stiamo benone.”
Chissà se doveva mentire così spesso, e fino a che punto doveva proteggersi da quello che succedeva dietro quelle mura. Castiel pensò di aver sviluppato quella sindrome da crocerossina di cui aveva letto una volta.
“Non è tanto che abitate qui.”
“Nah, mio padre ci fa traslocare spesso per lavoro. Siamo arrivati un paio di settimane fa.”
Una palla lo colpì al ginocchio – un bambino paffuto sui 5 anni corse a riprendersela, li fissò per qualche secondo con il pallone di tela rosso tra le dita cicciotte, e corse dal padre con i riccioli scompigliati sulla testa – Dean gli sorrise dietro, con l’espressione di uno a cui è riaffiorato un ricordo piacevole.
Scese un silenzio pacifico.
Erano due estranei, avrebbero potuto chiedersi mille cose, eppure nessuno dei due aprì bocca. Castiel ne fu contento, aveva letto da qualche parte anche che è importante conoscere persone con cui si possa condividerne i silenzi. Sperò che Dean non stesse soffrendo internamente di quella mancanza di conversazione – soprattutto perché ne avevano appena conclusa una piuttosto lunga per i suoi standard, e intensa, e Castiel non avrebbe saputo dove andare da lì.
Si accorsero che il freddo si stava facendo strada tra le ombre degli alberi dal diradarsi delle famiglie nel parco. A poco a poco, i genitori riacciuffarono la prole e se la trascinarono via, alcuni più rumorosamente di altri.
Quando ne rimase solo una – il bambino paffuto dal pallone di tela rosso con il padre – Dean si stava stringendo nella giacca di pelle.
Castiel si alzò per non farlo congelare su quella panchina (non certo perché avesse fretta di tornare ad una casa vuota).
“Dovresti coprirti di più.”
Dean si indicò la maglietta nera, con uno strano simbolo sopra. “Non rinuncio ai Zeppelin, fanculo l’inverno.”
“Tecnicamente, non è inverno.”
“Da dove vengo io, l’inverno è quando c’è freddo. Fa freddo.”
“Da dove vieni?”
Dean alzò gli occhi al cielo. “È un modo di dire. Comunque dal Kansas, originariamente. E fa un sacco più freddo di così, principessa.”
Castiel cominciò ad incamminarsi verso la macchina, pensando alla neve. “Vedremo.”


La scena era già vista.
Castiel fermo sul marciapiede di fronte a casa, Dean dentro l’Impala con il motore acceso.
I convenevoli di rito erano stati scambiati (“Grazie del passaggio”, “Figurati”), ed erano di nuovo rimasti a fissarsi in silenzio.
Una cosa era diversa, certo: adesso Castiel sapeva che abitavano vicini (chissà se era per questo motivo che l’altra sera Dean sorrideva compiaciuto), e che quindi l’avrebbe rivisto.
Eppure qualcosa lo teneva lì, a sperare che ci fosse un modo per non lasciare puramente al caso il loro prossimo incontro.
Dean si rimestò le tasche e ne tirò fuori un cellulare nero come la sua macchina.
“Ehi, facciamo così. Mi dai il tuo numero e-“
“Non possiedo un telefono.”
“Come?”
“Voglio dire, ho un fisso, a casa…”
“Amico, non hai un cellulare?”
Cas si infilò le mani nelle tasche dei jeans. “No.”
Dean stava ghignando di nuovo. “Sei strano forte.”
Castiel fece quello che sapeva fare meglio, l’alieno-stoccafisso-immobile-che-ti-sonda-le-interiora.
Dean ridacchiò un pochino, ingranò la marcia. “Beh, ci vediamo a scuola, Cas.”
Guardò l’Impala filare via, non fermarsi tre case più in giù ma continuare dritto fino in fondo al viale – fermarsi allo stop, voltare a sinistra.
La scuola. L’avrebbe visto l’indomani a scuola. Quei compiti di matematica ridiventarono improvvisamente interessanti.
 
 
 
Spazio autrice:
ho fatto DI NUOVO quella cosa di fissare male il capitolo, e darvi piccoli ritocchi di tanto in tanto sperando di trovare la perfezione. Beh, la perfezione non esiste, quindi mi sono stufata e lo pubblico così.
Venendo alla storia… piccoli passetti avanti tra lo stoccafisso e il figo della festa. Che sono vicini di casa!!! Che bellezza. E quanto è solo Cas… e quanto è bello little Sam (io me lo immagino come nei flashback, tutto magrolino e faccetta triste).
Dean è il più figo di sempre, come al solito, con la sua Baby e la sua musica e le sue maschere. Che, come ben sappiamo, funzionano poco con Cas…
Alla prossima, folks!
P.s.: Mi potete trovare anche sulla mia pagina Facebook
qui.

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Supernatural / Vai alla pagina dell'autore: serClizia