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Autore: fragolottina    07/04/2016    4 recensioni
«Ho messo il ragazzo dai capelli rossi nel mucchietto sbagliato», Helen sorrise. «Uccidere mio padre ha davvero riparato il mio errore?».
Questa volta lui fu costretto a rimanere zitto.
«Io. So. Tutto», ripeté lentamente. «Anche le conseguenze delle mie azioni».
Silenzio.
«E lei sa a cosa porteranno le sue azioni?».
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Synt'
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I Veglianti di Synt ciao...
ho pensato che questo capitolo l'avesse vinta sulla mia volontà, ma ce l'ho fatto.
dunque purtroppo devo comunicarvi che non credo di riuscire a rispondere alle recensioni, mi dispiace molto perchè le ho lette tutte, tutte e vorrei rispondervi parlare con voi, confrontarmi, ma non ci riesco.
al lavoro è un delirio perchè questo è un periodo caldissimo, quindi sono stata impegnata su troppi fronti.
perdonatemi e vogliatemi bene.
oh, prima che mi dimentico: ADP è diventato LTP, immagino che informarvi sia il minomo. ADP stava tipo per "Atom Day Protetion", che mi pareva un po' un nome del cavolo per una agenzia governativa, soprattutto per un agenzia che combatte i Veggenti... la mia idea era uscita un po' dal disastro nel Vernon, ma non c'entrava niente comunque.
LTP sta per Living The Present, che mi pare più sensato.
e... beh, il capitolo 2 è tra noi!

CAPITOLO 2

    La sede centrale della LTP era a Vernon.
    Non era un caso. Commercialmente quell’idea era stata venduta come “L’umanità che si sollevava da una tragedia”. Nella pratica c’era meno poesia: avevano bisogno di un luogo che scoraggiasse ogni intrusione. Avevano pensato che chilometri di disastro radioattivo fossero un buon deterrente.
    L’unico mezzo di trasporto che arrivava fino alla sede, era una galleria sotterranea rivestita di cemento, di isolante, di strati e strati di materiali per garantire il più basso quantitativo possibile di radiazioni.
    Delia Douquette si guardò intorno con un nodo in gola. I Veggenti erano mille volte più resistenti alle radiazioni degli esseri umani, ma anche loro alla fine morivano; duravano di più, se non fossero stati usati loro, costruire quella galleria e la sede centrale della LTP avrebbe richiesto molte più vite.
    Deglutì e guardò l’auto blindata che li aspettava, la sua vista periferica colse anche Logan fissarla con inquietudine; le porse il braccio, lei lo prese. Il sostegno di Logan Douquette era forte e solido come era sempre stato.
    Se non avesse ucciso suo figlio sarebbe stato un marito ideale.
    Furono tutti molto rispettosi nell’accoglierli, erano sempre tutti molto bravi nel non trattarla da Veggente, sapeva di dover ringraziare suo marito per quel favore.
    Non si era mai considerata una donna sentimentale, aveva avuto un bambino malato a sedici anni da un uomo in fin di vita che amava e che l’amava con tutto il cuore, non si era potuta permettere di essere emotiva.
    Seduta in ospedale a stropicciare un fazzoletto intriso di lacrime, mentre vegliava sul cuore difettoso, inadeguato, quasi spento, di uno Sean di appena quattro anni, aveva visto ogni bestialità con la quale Logan Douquette avrebbe torturato lei, i propri figli, la propria razza.
    Ogni giorno più colpevole, l’aveva aspettato.
    Accarezzandosi la pancia ancora vuota, si era scusata con chi, presto, l’avrebbe abitata.
    Aveva temuto un’esistenza in schiavitù, aveva avuto una vita da regina.
    Logan era stato premuroso ed attento con lei, presente in ogni questione relativa alla gravidanza; interessato ad ogni bisogno di Sean, dalle cure mediche ai giocattoli, da una cameretta ad un’istruzione. Lo aveva adottato, gli aveva dato il suo cognome, gli aveva permesso di esprimere tutto il suo potenziale, tutelandolo da ogni obiezione che la LTP avrebbe potuto avanzare.
    Sean gli piaceva, Delia lo vedeva, si piacevano. Parlavano, si confrontavano, finché Zach era piccolo non avevano motivi di scontro.
    Però Zach cresceva, impacciato in tutta la sua imperfezione. Perfetto, per lei, nella sua assurda complicatezza.
    Sean se ne era accorto in fretta, che c’era qualcosa che non funzionava bene, lo guardava con la stessa attenzione che avrebbe dedicato ad un libro.
    «Che vuol dire non è un bambino vero?», le aveva chiesto confuso.
    Non aveva voluto rispondere: era così bello illudersi di avere una famiglia solida, di avere un marito: nessun pensiero su come crescere i propri figli, nessun pensiero su come arrivare a fine mese. Nessun pensiero.
    Poi Jamie Ross gli aveva mostrato Rebecca Farell e Sean aveva guardato in faccia ogni pensiero che lei aveva evitato, rimandato.
    Dopo il funerale, dopo il mix di antidepressivi e sedativi, aveva voluto uccidere Logan ogni giorno, aveva provato a farlo mille volte.
    Si era sempre fermata.
    Mentre attraversavano l’atrio del palazzo, diretti al luogo dell’appuntamento con Wood, gli occhi di Delia si spostarono distrattamente su una porta di servizio presidiata da due guardie armate: lì sotto c’era Helen Dandley, in attesa.
    Una ragazza si avvicinò alla porta e Delia si fermò, stupita. Indossava una camicia sgargiante a quadri rossi e neri ed un paio di jeans scuri infilati in scarponcini un po’ da maschiaccio. In mano aveva un vassoio di biscotti e due tazze di caffè, sembrava una stagista; si tirò indietro i capelli castani mostrando un tatuaggio, insolito, ma che lei conosceva.
    Sean aveva disegnato quel tatuaggio a diciassette anni, era rimasto in silenzio per giorni.
    All’inizio la odiò per lui, poi sperò che Helen Dandley volesse che rimanesse viva.
    Dopotutto Sean era morto.

    Nate si rigirò il termometro in bocca studiando i Veglianti sistemati di fronte alla porta degli interrogatori per non farlo uscire. Era decisamente offeso dal fatto che lo ritenessero così sciocco da fare una sceneggiata del genere; da quando gli avevano messo il controllo perimetrale non aveva mai cercato di uscire, il rischio di perdere una gamba era un buon deterrente, doveva ammetterlo, ma la sua buona condotta qualcosa doveva pur contare.
    Mr. Flicks, il galoppino lasciato da Wood, entrò nella stanza degli interrogatori sommerso fino alla testa da fogli più o meno accartocciati. Cadevano di continuo, dietro di lui Jean si chinava di tanto in tanto a raccoglierli.
    Si appoggiò al tavolo con le braccia incrociate a guardarli: di per sé la scena era piuttosto comica.
    Mr. Flicks raggiunse la scrivania e ci lasciò franare sopra tutti fogli, come se tenerli insieme fino a quel momento fosse stato uno sforzo immane, come se ci fosse esplosa al centro una bomba.
    «Ciao, Nate», lo salutò.
    Lui gli lanciò un’occhiata da sotto in su. «Mr. Flicks», ricambiò. «Ciao, Jean», accolse la propria responsabile con maggior entusiasmo.
    Lei affiancò il collega con grazia e gli porse i suoi fogli. «Posso suggerirle l’uso di un tablet o qualcosa del genere, Mr. Flicks?», gli propose.
    Lui sussultò, arrossì, si raddrizzò gli occhiali sul naso, scosse la testa. «Io davvero non sono bravo con quel genere di cose».
    «Come non detto, allora». Si accomodò sulla sedia che era stata posizionata per lei, paziente. «Nate, sono qui per garantire che questo colloquio si svolga nel tuo massimo rispetto».
    Nate annuì e si raddrizzò, Mr. Flicks si sedette.
    «Come stai, Nate?».
    «Il fantastico accessorio moda che mi avete dato prude», lo prese in giro.
    «Oh, mi spiace», affermò mortificato. «Ti senti di farmi vedere?».
    Discretamente Jean si portò due dita alla fronte e sospirò.
    Nate sorrise, ma si allontanò e sollevò il piede appoggiandolo sul tavolo. Mr. Flicks gli spostò i pantaloni dalla caviglia con una penna, si sporse ad osservare la bomba rivestita di plastica grigia che si portava dietro.
    Quella bomba esplodeva se si allontanava di più di un metro e mezzo dal perimetro esterno della caserma. Siccome l’aveva costruita Matt era ad innesco ritardato, non di molto, ma poco poteva salvargli la vita.
    «C’è una leggera irritazione, ti farò comprare una crema lenitiva».
    «Molto gentile da parte sua», disse sedendosi di nuovo.
    «Mi hanno chiesto di farti alcune domande a proposito di Minorou Lynn, ti va di rispondermi?».
    Scrollò le spalle e si appoggiò allo schienale della sedia. «Perché no?».
    «Da quanto tempo non hai sue notizie?».
    Lanciò un’occhiata a Jean prima di rispondere, che gli fece un rapido cenno di assenso.
    «Ieri».
    Mr. Flicks annuì fissandolo per un tempo esageratamente lungo, finché Jean non si schiarì la voce per sbloccarlo.
    «Certo», si riscosse. «Avevamo mandato una squadra a prenderla in aeroporto per la sua sicurezza, ma l’auto che la trasportava ha avuto un incidente, di lei sono rimaste solo le sue valigie verdi».
    «Spero che ci siano anche le scarpe», considerò. «Credetemi, non vorreste dirle di aver perso le sue scarpe».
    Jean gli lanciò un’occhiata di rimprovero, mentre Mr. Flicks prese a sfogliare tra le pagine dei suoi appunti.
    «Sì, abbiamo trovato delle scarpe, ma sono rotte, mi dispiace».
    Jean sospirò. «Per l’amor del cielo, Nate», lo richiamò.
    Lui si strinse nelle spalle, cercando di ridere il meno possibile. «Sono chiuso qui, a meno che lei non mi chiami o che la chiami io, non posso avere sue notizie».
    «Sei sicuro?», insistette Mr. Flicks con uno sguardo stranamente sospettoso, scosse la testa e la sua occhiata si addolcì. «Non possiamo escludere che l’abbiano rapita per far leva su di te, non possiamo escludere che la stiano torturando. Qualsiasi informazione…».
    «Non ho informazioni», lo interruppe secco. Jean lo fissò intensamente seria, non le piaceva che fossero bruschi ed irrispettosi con Mr. Flicks.
    «Wood mi ha comunicato che i tecnici della LTP hanno di nuovo cercato delle informazioni sul tuo pc».
    Nate continuò a fissarlo. «E non sono riusciti ad entrare», cantilenò.
    «Dice che sarebbe disposto a darti maggiore fiducia e toglierti il perimetrale, se ti dimostrassi collaborativo».
    «Riferisca pure che preferisco il perimetrale».
    Mr. Flicks lo guardò sconsolato. «Perché ti comporti così, Nate?».
    Nate rimase a pensarci. «Mr. Flicks, pensa che io sia un Veggente?».
    «Santo cielo, Nate!», trasecolò lui. «Certo che no! Cosa ti salta in mente?».
    «Sarebbe abominevole se lo fossi, non trova? Vuol dire che la LTP ha pensato che l’unico modo per eliminare i Veggenti sia usare Veggenti, tenendoli sotto controllo con neurotossine».
    «Nate, capisco che tu sia scosso, ma quello che dici non ha senso».
    «Il Mitronio in senso molto ampio agisce come una neurotossina, crea danni al sistema nervoso centrale di un Veggente, più che una cura è una mutilazione». Nate lo fissò.
    Mr. Flicks lo fissò a sua volta, come se avesse capito che voleva comunicargli qualcosa di essenziale, ma non riuscisse proprio a capire cosa.
    «Dica a Wood che mi tengo il perimetrale», ripeté per interrompere l’inutile lavorio del suo cervello.
    Per alcuni secondi Mr. Flicks continuò a fissarlo, poi si alzò e se ne andò a fare rapporto a Wood.
    Era un uomo strano quel Mr. Flicks, veramente troppo goffo per essere reale. Era alto e sembrava robusto sotto i vestiti, ma, guardandolo, nemmeno per un secondo avresti pensato che fosse sveglio, anzi, la sua stazza lo rendeva ancora più grottesco. Come se fosse un robot e l’omino che lo controllava da dentro, infinitesimamente più piccolo, non riuscisse bene a coordinarsi.
    Lo trovava interessante.
    Quando tornò a guardare Jean, lei lo stava studiando da un po’. «Non turbarlo così», commentò.
    Per alcuni secondi Nate ricambiò il suo sguardo, giocherellando con il termometro tra le labbra mentre cercava di decifrare gli intricati pensieri della sua Responsabile. «Com’è che sei così protettiva con lui?», le domandò.
    «Era il mio Caposquadra quando sono arrivata a Los Angeles».
    Nate sollevò le sopracciglia, scettico nell’osservare la scia di fogli che Mr. Flicks aveva lasciato dietro di lui. «Wood si sentiva in vena di scherzi?».
    Jean sorrise e gli lanciò un’occhiata. «Era un drago. Prima che lo diventassi io, era la persona che volevi ti venisse a soccorrere quando ti trovavi nei guai: non ha mai abbandonato un compagno, non ha mai perso un carico di Mitronio. Se si trovava un Veggente sulla sua strada, potevi star certo che l’avrebbe portato a casa».
    Nate lanciò un lungo fischio. «Certo, a vedersi non sembra».
    «Già», rispose Jean triste. «Non so cosa gli sia successo».
    Nate rimase in silenzio a guardarla per pochi istanti. «Sì, lo sai invece», le disse lentamente.
    Jean lo fissò. «Ogni giorno gli somigli di più».
    Nate sbatté le palpebre sorpreso. «A chi?», chiese.
    «A Romeo». Sospirò. «Stai giocando ad un gioco pericoloso, prima o poi la mia presenza in questa stanza non basterà a tenerti al sicuro».
    Distolse lo sguardo, ma non lo abbassò. «Qualcuno dovrebbe tenere al sicuro te».

    Courtney rimase ferma sulla porta della mensa.
    Era decisamente troppo affollata per i suoi gusti, le mancava il raccoglimento che avevano quando erano soltanto otto. Otto era un bel numero.
    Osservò Becky ridere seduta ad un tavolo di Veglianti di Wood, c’erano anche quei due gemelli che le giravano intorno; studiò come le sue gambe stessero appoggiate su quelle di Dean, come le mani di lui la accarezzassero. Si chiese com’è che era stata tanto imbranata con Zach, considerando quanto si stava mostrando audace e… brava. Negli ultimi tempi stava dimostrando una stoffa davvero non trascurabile in quel campo.
    Sapeva che lo faceva perché Nate non aveva trovato niente da nessuna parte su quei due; perché era meglio conoscere i loro piani dall’interno ed avere il tempo di reagire; perché la loro situazione era compromessa ed avevano bisogno di sembrare normali. Sapeva che lo faceva per tante ragioni giuste.
    Eppure non le piaceva.
    No, non le piaceva proprio.
    Cercò Nate, ma non c’era, probabilmente lo stavano di nuovo interrogando.
    Matt sicuramente non era nemmeno in caserma.
    Individuò il tavolo dove erano seduti Amanda e Johnathan e si arrese a raggiungerli.
    Passando superò Jared senza dirgli niente. Lui si trovava bene con i Veglianti di Wood, d’altronde lui era un Vegliante di Wood: non appena era arrivato in caserma l’aveva promosso Caposquadra.
    Nate si era complimentato con lui.
    Finse di non vederlo, lui invece la guardò apertamente.
    Amanda e Johnathan la salutarono quando si sedette vicina a loro, erano con altre persone, ma Courtney aveva già deciso che non avrebbe parlato con nessun altro. Certo, non si sarebbe fatta toccare le cosce da qualcuno solo per dare l’illusione di essersi integrata.
    «Non prendi niente nemmeno questa mattina?», le domandò Johnathan.
    Fece una smorfia. «Penso di andare a correre dopo, magari al rientro mi farò preparare qualcosa».
    La paranoia o il buon senso di Nate avevano messo sotto accusa anche il latte, diceva che le quantità erano minime, ma c’erano. La paranoia di Nate era pericolosamente contagiosa. Perciò aveva smesso di fare colazione in caserma, buttava lì la scusa della corsetta e mangiava nel bar del parco.
    Guardò Johnathan sbucciare una mela e si sentì molto meschina. Avrebbe voluto avvertirli, la sua coscienza di medico strepitava per farlo. Ma non poteva, non le avrebbero creduto, lei stessa faticava a credersi quando pensava certe cose. Nate lo sapeva, per questo l’aveva incoraggiata a cercarsi delle prove. L’aveva sfidata a prendere una delle loro mele, di quelle che arrivavano insieme al cibo dalla loro cara LTP, ed analizzarla.
    Non gli aveva più chiesto perché la sua lista di alimenti che non dovevano mangiare continuava a crescere. Se avesse saputo, forse, non gli avrebbe chiesto niente dall’inizio.
    «C’è una lettera per te, Courtney».
    La ragazza si voltò a fissare gli occhi vacui di Mr. Flicks dietro quegli enormi occhiali. Era un tipo strano quel Mr. Flicks, lo sentiva, avrebbe voluto avere le sue analisi per quantificarlo.
    «Grazie», disse soppesando la busta che le stava porgendo.
    La prese tra due dita come se potesse esploderle tra le mani e la studiò: sul dorso c’era scritto semplicemente il suo nome e l’indirizzo della caserma, nessun mittente. Per un attimo pensò che fosse una delle annotazioni che le mandava Romeo, qualcosa di enigmatico e probabilmente dai risultati nefasti, ma non le sembrava la sua calligrafia: le sue erano sempre parole scritte in fretta, buttate sulla carta come se ce le avesse sparate; la grafia che stava osservando, al contrario, era ordinata e precisa, chiunque l’avesse scritta aveva perso tempo a farlo.
    In ogni caso, non voleva aprirla in caserma.
    Se la infilò nei pantaloni, fermata sul suo fianco dall’elastico della tuta.
    «Beh, io vado», salutò i suoi compagni.
    «A dopo», ricambiò Amanda.
    Fece pochi passi prima che Jared le si affiancasse, Courtney finse indifferenza senza lasciar trapelare niente. Non le faceva esattamente piacere, il suo inconscio provava incomprensibili moti di odio ogni volta che l’aveva tra i piedi. La sua parte razionale, d’altra parte, faceva il tifo per un compromesso pacifico.
In fondo correre in silenzio non poteva proprio definirsi fastidioso.
    Le fece piacere scoprire piccoli gesti che parlavano della loro complicità: Jared le tenne la felpa, mentre lei trafficava per spostare il cellulare ed il cercapersone da una tasca all’altra; lei gli porse un fazzoletto quando lui starnutì. Tutto senza bisogno di parlare
    Quando raggiunsero il bar, Courtney rallentò fino a fermarsi e lo guardò fare lo stesso, indecisa. Non era sicura di volere che lui si fermasse con lei, ma sapeva che invitarlo a proseguire lasciandola lì, sarebbe stato come sputare su quel compromesso che stava cercando.
    Quindi: «Prendi qualcosa?», gli chiese e lui annuì.
    Si sedettero ad un tavolo.
    I camerieri la conoscevano, andava lì tutte le mattine da più di un mese ormai, quindi non aveva bisogno di ordinare, ma un impiegato dall’aria molto giovane chiese comunque cosa volesse Jared, mentre passava uno straccio umido sulla superficie del tavolo.
    «Ciao, Courtney», la salutò.
    «Ciao, Mike», rispose senza guardarlo.
    Per qualche secondo rimasero entrambi in silenzio, il parco era piuttosto frequentato al mattino, se l’erba non fosse stata di quell’orribile color giallino non sarebbe sembrato tanto squallido. Trovava sempre più spietato che l’unico verde a Synt fosse quello del Mitronio.
    «Vieni qui spesso?», le chiese Jared.
    Courtney lo studiò, sembrava una domanda che non avrebbe portato a conseguenze troppo spiacevoli. «Quasi tutte le mattine», ammise.
    «Per evitare i Veglianti di Wood?», indovinò.
    Non rispose.
    «Non dovresti essere così prevenuta», le suggerì paziente.
    Sospirò. «Me lo dice anche Becky», commentò scontenta. «Sto cercando di provarci, okay?».
    Lui annuì sorridendo. «Sì, ho visto», rispose. «Che ne pensi di Kingley? Alcuni sono preoccupati, pare che sia rimasto parecchio scosso dopo una missione».
    Courtney fece una smorfia. «Un po’ taciturno, ma tutto sommato okay. Tutti siamo rimasti scossi da qualche missione, se ne farà una ragione. Sono un po’ più preoccupata che Amanda riesca a far fuori Becky prima o poi».
    «Ti preoccupa che ci riesca prima di te?», la prese in giro.
    «Non sarebbe molto appagante se lo facesse lei, mettiamola così».
    «Ci sono Dean e Serena con lei, le daranno una mano se si trova in difficoltà», la tranquillizzò.
    Era bello credere nel tipo di mondo di cui parlava Jared: le sarebbe piaciuto dare per certo che Dean e Serena fossero davvero amici di Becky, ben disposti ad aiutarla; che la LTP ed i Veglianti di Wood volessero che lei si integrasse e stesse bene insieme a nuovi compagni; che Jared fosse il tipo di uomo che voleva al suo fianco, quello di cui aveva bisogno.
    «Hanno lasciato questo pagato per te», disse Mike dopo aver servito l’ordinazione di Jared.
    Entrambi fissarono lo sguardo sul ricciolo di frozen yogurt bianco nella coppetta davanti a lei.
    Quando tornò ad osservare il suo accompagnatore, scoprì che la stava già studiando, pensieroso.
    «È lo stesso dei cioccolatini?», le domandò.
    Courtney riconobbe la nota di fastidio nel suo tono ed automaticamente tutto il suo cervello passò alla difensiva, fece per parlare, giustificarsi, ma lui la interruppe alzandosi.
    «Non c’è bisogno di rispondere, si capisce dalla tuo espressione».
    Lei sbuffò esasperata. «Ma di quale espressione parli, non essere ridicolo», sbottò.
    «Sei contenta», sibilò. «Come eri contenta di quei cioccolatini, una piccola ragazzina eccitata. Non ho mai pensato che fossi il tipo di ragazza tanto sciocca da sciogliersi per certe cazzate, ma evidentemente non ti conosco abbastanza».
    «Vattene», sibilò Courtney, prima di balzare sul tavolo ed aggredirlo con molto più che le parole.
    Lui obbedì.
    Per un po’ rimase lì ad indispettirsi con una sedia vuota ed un frozen yogurt che non aveva più voglia di mangiare.
    Sospirando recuperò la lettera dalla cinta della tuta e l’aprì.
    Un ragazzo con un berretto scuro ben calato sulla testa ed un paio di occhiali dalla montatura nera e spessa le si sedette di fronte, per alcuni secondi la osservò e basta, poi tirò fuori un rotolo di fogli dalla tasca dietro dei pantaloni. Si mise a studiarli come se fosse un semplice passante che condivideva in modo del tutto casuale il tavolo con una ragazza, concentra quanto lui sui propri affari.
    Ma i tavoli del bar erano molti, alcuni vuoti in quel momento.
    Ad un certo punto il ragazzo allungò una mano per prendere il suo gelato.
    Courtney gli schiaffeggiò il dorso.
    Non disse niente, lo guardò sorridere.

    Matt fece finta di non vedere Ryan entrare in camera. Avrebbe potuto far notare che non era carino farlo senza bussare, ma d’altronde quella camera era di lei, lui la occupava ed usava il suo portatile lilla abusivamente.
    Stava studiando pigramente il progetto che Wood gli aveva spedito tramite email.
    Quasi.
    Sospettava che Wood avesse qualcuno che si occupasse delle sue email.
    Ryan trascinò una sedia vicino alla sua e ci si sedette, sbirciò lo schermo che stava fissando. «Cos’è?».
    Matt continuò a mordicchiarsi le labbra per un po’ prima di rispondere. «Scarpe». Spostò il cursore del mouse fino ad indicargli una porzione precisa. «Wood vuole che metta una bomba qui», le spiegò.
    «Perimetrale, come q-q-quella di Nate?».
    Da quando la verità era venuta a galla, Ryan balbettava molto meno, sospettava che quella situazione le avesse creato molti più disagi interiori di quanto lasciasse trapelare. Lui sarebbe mai stato in grado di reggere quel tipo di tensione.
    Scosse la testa. «Vuole che sia ad attivazione remota». Sospirò. «Telecomandata».
    Rimasero in silenzio entrambi. Quella casa era del proprietario della ferramenta dove lavorava Ryan, Matt era l’unico Vegliante in tutta Synt a non avere l’obbligo di stare in caserma ed in realtà non aveva molta voglia di stare con gli altri. La famiglia di appoggio di Ryan si era mostrata disponibile nei suoi confronti: gli avevano montato una brandina in salotto e lo trattavano come uno di casa.
    Non dormiva mai, quando lo faceva sognava bombe che esplodevano.
    All’inizio l’avevano rinchiuso come tutti gli altri, lui era stato silenzioso proprio come Nate. Sapeva di essere a conoscenza di molte cose, troppe cose, ma non avrebbe detto niente; i muri della sua cella dovevano confinare con quelli degli altri, gli bastava a non sentirsi solo.
    Poi Wood era entrato nella sua stanza, aveva fatto chiudere la porta e dato l’ordine di non aprire finché non l’avrebbe chiesto lui. Matt aveva avuto paura che volesse estorcergli parola dopo parola a suon di botte.
    Non era bastato comunque a spaventarlo, in un moto di audacia, aveva dichiarato a testa alta che non avrebbe detto niente.
Wood aveva sorriso, poi gli aveva dato un pacchetto di foto di Ryan, Wood aveva milioni di foto di Ryan: Ryan che parlava, che lavorava, che rideva, che andava a scuola; Ryan su un tetto che puntava un fucile in basso, una maschera bianca tirata indietro sui capelli.
    Aveva ritrattato ed il suo “Non dirò niente” era diventato un “Non posso dire niente”.
    «È una Veggente?», gli aveva chiesto.
    Matt l’aveva fissato, muto, aveva anche trattenuto il respiro.
    Aveva riso. «Non c’è bisogno che rispondi, so che lo è».
    Non si era mai sentito tanto solo in tutta la sua vita e i muri che condivideva con i suoi compagni di squadra gli erano sembrati eternamente lontani, irraggiungibili. Nessuno l’avrebbe aiutato, nessuno l’avrebbe salvata, lui era l’unico a cui importava abbastanza di Ryan da volerla tenere al sicuro.
E sapeva troppo, potevano ricattarlo in milioni di modi.
    «Anche la madre di Zach Douquette è una Veggente, ma a nessuno è mai venuto in mente di farle del male», gli aveva raccontato. «Lo sai perché?».
    Non aveva risposto.
    «Logan Douquette lavora per noi, non faremmo mai del male a sua moglie», aveva detto come se fosse ovvio. «Ti manderò un’email con un progetto. Fai sapere a quelli del mio team di cosa hai bisogno».
    Poi se n’era andato.
    Nell’email c’era il progetto della bomba per Nate e Matt l’aveva costruita.
    Come avrebbe costruito quelle scarpe.
    Premette alcuni pulsanti sul computer aggiungendo cose, apportando modifiche; avrebbe dovuto alzare un po’ di più il tacco per farci entrare una bomba, seppur di piccole dimensioni, cercò di snellirle sul davanti per dare equilibrio a tutto. Dovevano essere carine altrimenti Becky non le avrebbe mai indossate di sua spontanea volontà.
    Qualcuno avrebbe salvato Becky, lei era importante per tutti.
    Recuperò il cellulare e premette un pulsante per avviare la chiamata automatica, mentre guardava Rose distendere le lenzuola e rassettare la propria stanza con calma.
    «Ciao, tesoro», gli rispose squillante Serena.
    «Ciao», ricambiò. «Ti sto mandando una lista delle cose che mi servono».
    «Perfetto, te le procuro appena possibile».
    «Grazie», disse, pronto per riagganciare.
    «Torni in caserma stasera?», gli chiese.
    Matt aggrottò le sopracciglia, guardingo. «Non credo, perché?».
    «Beh», iniziò. «È un po’ che non ti fai vedere, ci farebbe piacere e puoi cenare con noi se i tuoi amici pizzosi di Synt ce l’hanno ancora con te».
    Decisamente un eufemismo.
    Mentre stava costruendo la bomba di Nate aveva pensato di togliere l’esplosivo: Wood sarebbe stato soddisfatto e non lo avrebbe mai scoperto. O almeno non l’avrebbe fatto purché Nate rimanesse dentro la caserma: se fosse uscito, se la bomba non fosse esplosa, avrebbe saputo che l’aveva imbrogliato ed avrebbe ucciso Ryan.
     Aveva visto Nate uscire.
    La vita di Ryan non era abbastanza importante per lui.
    «Abbiamo proposto a Becky di venire con noi a Los Angeles quando avremo preso Zach, perché non porti avanti questa idea anche tu?», lo incoraggiò.
    Preso.
    Non salvato.
    Ridendo sfidò il mondo a lasciar prendere Zach Douquette, non sarebbe mai successo. Lui e Lynn si erano raccontati davvero troppe storie, sapeva riconoscere il protagonista di un’avventura quando ne vedeva uno.
    Nessuno aveva salvato Lynn.
    Non capiva, proprio non capiva perché tutti dimenticassero cosa era davvero importante.
    Un carico di Mitronio non valeva quanto la vita di un’amica.
    Una giusta causa non valeva quanto la vita di Ryan.
    «Ci penserò, magari ne parlo con Jean», mentì.
    «Okay, ti aspettiamo per cena?», chiese con vocina sottile.
    Guardò Ryan.
    «Se sono così desiderato…».
    «Forte, Becky sarà contentissima. Baci».
    Sospirando si rinfilò il cellulare in tasca.
    Cliccò sul pulsante “scrivi” della sua casella di posta ed iniziò a compilare una lista della spesa.
    Bum.
    Sussurrava una voce nei suoi sogni.
    E tutto il mondo si riempiva del frastuono di qualcosa che esplodeva.
    Bum.
    E Synt veniva inghiottita dalla polvere.

    Megan, stravaccata di traverso su una poltrona, completamente assorbita dall’avvincente trama di “La voce del cuore”, acciuffò un pizzico di popcorn dalla busta.
«Non capisco proprio perché lei continui a dargli possibilità dopo possibilità, non è sano».
    Helen Dandley alle sue spalle sorrise, china sulle sue liste.
    «Mi sembra un’affermazione un po’ forte, considerato che non ti sei ancora liberata di quel buon a nulla del tuo ragazzo, non credi?».
    Megan sollevò un sopracciglio ed abbozzò. «Non hai tutti i torti». Si aggrappò allo schienale della poltrona e sbirciò il lavoro preciso dell’altra. Sembrava sempre esageratamente concentrata quando stilava quelle liste; tutto il suo corpo teso, la sua espressione attenta, parlavano di come ogni nome fosse attentamente ponderato, niente era affidato al caso.
    Ne scrisse un altro ed eliminò un test dalla pila.
    I test arrivavano in maniera continuata, erano più che altro una traccia per lei, un input per riuscire a vedere chi fosse una determinata persona. Aveva provato a spiegarle come funzionava, Megan non aveva capito molto.
    «Ma non ti annoi mai?», le chiese. «Io mi stufo solo a guardarti».
    Le labbra di Helen si piegarono in un sorriso. «Non preoccuparti, è quasi finita».
    Non sapeva di preciso quanti anni avesse più di lei, ma era certa che fosse lì da tutta la vita. Megan inizialmente era stata ingaggiata come donna delle pulizie. Le avevano fatto firmare tanti di quei fogli sulla sicurezza e sulla riservatezza, che per una settimana intera non era riuscita a lavarsi i denti senza sentire la mano indolenzita.
    Helen si era dimostrata subito molto cortese con lei, e sì che c’era una squadra di guardie pronte ad entrare e strapparla alle sue grinfie se avesse cercato di farle del male.
    Non capiva tutta questa paura, era sempre stata carina.
    Per questo l’avevano promossa a sua dama di compagnia e la pagavano una follia per mangiare popcorn e guardare la tv.
    Tornò a stravaccarsi e starnutì un paio di volte. «Cavolo», borbottò, tastandosi addosso alla ricerca di un fazzoletto.
    «Dovresti fare qualcosa per quel raffreddore», le suggerì Helen.
    Megan si strinse nelle spalle. «È solo influenza, mangerò arance e starò bene».
    «Dovresti vedere un medico», continuò.
    Sospirò. «Va bene, mammina, domani chiamerò il dottore».
    «Dovresti vedere una dottoressa di Synt, si chiama Courtney Williams».
    Megan sollevò le sopracciglia e si girò a lanciarle un’occhiata, stupita, Helen la stava fissando, senza più scrivere.
    «Millemila chilometri per vedere un medico e chiedere una ricetta per un’antinfluenzale non sono troppi?», le chiese.
    «È un buon medico».
    «Starò bene, non preoccuparti», archiviò la questione con uno sventolio della mano. «E poi se me ne vado tu sarai sola».
    Tornò a guardare la tv, finché un rumore di passi pesanti, seguito da voci arrabbiate le raggiunse dal piano di sopra. Megan guardò il soffitto, quasi potesse vedere da lì sotto.
    «Cavolo, chissà che sta succedendo», commentò. «C’era un bel traffico quando sono arrivata. Ho chiesto alle guardie, ma non mi hanno detto niente».
    «Logan è infuriato con Wood perché nonostante le sue raccomandazioni hanno perso Zach», rispose semplicemente Helen.
    Scosse la testa. «Perché non glielo dici e basta? Insomma è pur sempre suo padre, sarà preoccupato…».
    Anche se dichiarava e dimostrava di non avere paura di Helen, era costretta ad ammettere che quando la guardò, quando vide il suo sorriso, piccolo, inosservato, ma allo stesso tempo feroce come un ruggito, le vennero i brividi.
    «Non agitarti, mia cara Megan, Zach è esattamente dove deve essere».


dal prossimo capitolo iniziamo a fare cose.
un paio di capitoli di introduzione dovete concedermeli.
la mia dichiarazione di intenti è questa: introduzione, 1, daje, 2, 'orca ho fatto una cazzata, fine.
è il riassunto di tutta questa storia, appuntatevelo, alla fine del discorso, vederemo se sono riuscita a seguire la traccia.
sto anche valutando di buttare lì uno spin-off su Sean Turner, non so se riesco a gestirlo senza dargli uno spazio tutto suo... boh... speriamo di sì.
comunque, fatemi sapere che ne pensate.

baci

ps. scusate ancora per la questione delle recensioni, il mio mondo non può funzionare finchè non avrò modo di incontrarvi periodicamente e dibattere su quello che scrivo.

pps. l'ho riletto mille volte, ma sicuramente ci sono degli errori, nei prossimi giorni rileggendo li vedrò e correggerò di sicuro, mi scuso per quante di voi lo leggeranno prima che li corregga.


   
 
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