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Autore: Adeia Di Elferas    09/04/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Troveremo il modo di contattare la Contessa Sforza Riario – disse Giovanni Bentivoglio, appena Giovanni Landriani ebbe riferito ogni cosa – e appena lei ci darà il via libera, autorizzeremo il sacco della città.”
 Bergamino, che stava affilando la lama della sua spada alla luce di una torcia, fece una smorfia compiaciuta e assicurò: “Quei maledetti papisti si augureranno di non essere mai venuti al mondo.”
 “Anche i forlivesi innocenti, però, ci andranno di mezzo.” notò Rodolfo Gonzaga, accigliandosi.
 “Ebbene...” soppeso il Bergamino, dando un ultimo colpo con la pietra sulla lama: “Dovevano pensarci prima di assecondare gli Orsi e la loro gentaglia.”
 Rodolfo Gonzaga e Giovanni Bentivoglio si guardarono per un lungo istante, ma nessuno dei due trovò obiezioni convincenti, così l'improvvisato e informale consiglio di guerra si sciolse, rimandando ogni altra decisione al giorno seguente.

 “Il papa ci ha traditi, mi sembra chiaro!” stava dicendo Ludovico Orsi, strappandosi ciuffi di capelli con le mani, mentre i suoi occhi vagavano senza tregua da un lato all'altro della stanza.
 Lui e suo fratello, da quando si era saputo che i milanesi erano accampati non lontano da Forlì, si erano rintanati in un'ala del palazzo che era stato dei Riario, mettendo guardie a tutte le porte e ordinando di uccidere qualunque sconosciuto che avesse cercato di avvicinarsi.
 “Avremmo dovuto stare dalla parte degli Ordelaffi e di Venezia!” vaneggiava Ludovico: “Loro non ci avrebbero abbandonati! Roma e Firenze! Al diavolo! Branco di traditori!”
 Qualcuno bussò alla porta e sia Checco sia Ludovico trasalirono.
 “Sono io...” disse piano Ronchi, entrando con un foglio nella mano: “State tranquilli, per ora è tutto sotto controllo. Però è dall'alba che dalla rocca di Ravaldino partono verrettoni di questo tipo.”
 Così dicendo, Ronchi pose il foglio sul tavolo, proprio davanti a Checco Orsi che, dopo essersi schiarito più volte la voce, lesse: “Forlivesi miei, date addosso e mettete a morte tutti i miei nemici. Vi prometto che per questo vi avrò sempre come buoni fratelli. Fate presto, non temete nulla. L'esercito milanese è alle porte: tra poco voi avrete la vostra ricompensa e i miei nemici avranno il castigo meritato.”
 Ludovico strappò il messaggio dalle mani del fratello e lo rilesse più volte, in modo ossessivo, finendo poi per esclamare: “Ci uccideranno! Non abbiamo scampo!”
 Ronchi guardò sia Ludovico, trovandolo come impazzito, sia Checco, pallido e silenzioso. Capì che ormai erano due uomini bruciati.
 Quando il loro amico se ne fu andato, lasciandoli soli con le loro paure, Checco prese a dire: “Che fare? Non possiamo certo gettarci ai piedi dei generali milanesi... Non crederebbero mai al nostro pentimento. E allora? Restare e farci ammazzare come bestie?”
 “Scappiamo.” disse Ludovico, come ritrovando improvvisamente la lucidità.
 “E nostro padre? Le nostre famiglie?” chiese Checco, con sdegno.
 “Non c'è tempo di pensare anche a loro.” rispose subito Ludovico, con un tono di ovvietà che convinse il fratello.
 “E i figli della Sforza?” domandò poi Checco: “Li abbiamo ancora noi...”
 “Giusto. Non possiamo mica lasciarglieli così, come fossero un regalo...” concordò Ludovico, mentre gli occhi gli si illuminavano: “Ormai non possiamo più conquistare Forlì, ma possiamo almeno assicurarci che quella strega soffra tanto da desiderare di togliersi il cuore dal petto...”
 Checco prese per un braccio il fratello, ponendogli una domanda silenziosa, alla quale Ludovico rispose con un breve cenno del capo, e in un momento decisero che, prima di scappare, sarebbero passati dalla rocchetta di San Pietro.

 “No, non permetterò ai soldati milanesi di saccheggiare Forlì.” disse subito Caterina, quando lesse la proposta dei suoi alleati: “Dicono di essere ai miei ordini, dunque dovranno obbedire. Useremo l'esercito milanese solo come deterrente e un attacco verrà sferrato solo se sarà strettamente necessario.”
 Tommaso Feo annuì: “Trovo sia una scelta molto saggia.”
 Caterina lo pregò di scrivere la risposta per i milanesi e di farla recapitare a Giovanni Landriani, in qualche modo, dopodiché uscì un momento nel cortile della cittadella, per prendere un po' d'aria.
 Per tutta la mattina aveva scritto, assieme a tutti gli abitanti della rocca che ne erano in grado, messaggi destinati ai forlivesi. Li spronava a ribellarsi a Savelli e ai suoi scagnozzi, ma dubitava che qualcuno l'avrebbe fatto davvero, senza un aiuto.
 Per il resto, aveva parlato a lungo col capitano dei cavalieri giunti da Roma. Le avevano riferito le posizioni incerte del papa e la confusione che quel colpo di Stato aveva portato nelle corti italiane. Le avevano detto che il Cardinale Sansoni Riario aveva atteso un po', ma che alla fine aveva preferito schierarsi apertamente in favore dei figli del defunto cugino e così aveva messo mano al portafoglio e aveva assoldato cinquanta cavalieri affinché si congiungessero con i soldati della Contessa Riario.
 Caterina, allora, aveva riassunto la situazione della città e aveva cominciato a concordare con loro na strategia per i giorni seguenti.
 Aveva bisogno di cinque minuti di pausa.
 Mentre camminava a lunghi passi in mezzo al cortile sterrato, uno dei cavalieri romani le si avvicinò, portando per le briglie il suo cavallo che zoppicava un po'.
 “Mia signora – disse l'uomo, con un cenno del capo – credo che il mio cavallo abbia perso uno zoccolo...”
 Caterina gli sorrise e colse la palla al balzo, felice di avere una scusa per dedicarsi a un'attività più pratica che non scrivere messaggi o imbastire diplomazie pericolose e incerte: “Non preoccupatevi, lo porto io agli stallieri. Lo sistemeranno in un attimo.”
 Il soldato, sorpreso da tanta disponibilità, le porse le redini e la ringraziò di cuore.
 Caterina accarezzò la testa del grosso cavallo da guerra e cominciò a condurlo verso le stalle. Da quando era arrivata alla rocca, non aveva ancora visitato le stalle. In parte perchè non si occupava personalmente di quell'ala della rocca e in parte perchè la guerra che si stava combattendo non prevedeva ancora l'uso dei cavalli, rendendo per lei la stalla un luogo poco interessante.
 Appena varcò l'ingresso, un forte odore di stallatico e di paglia le riempì il naso, facendola tornare per un istante con la mente alle grosse stalle del palazzo di Porta Giovia.
 Appena i suoi occhi si abituarono alla penombra, in contrasto col pieno sole d'aprile che c'era all'esterno, si guardò attorno, in cerca di uno degli stallieri.
 Poiché non vedeva nessuno, rassicurò il cavallo, che si era fato un po' inquieto, e provò a dire, a voce moderatamente alta: “A questo cavallo va rimesso un ferro, qualcuno può...”
 La voce le si spense nella gola quando, mentre si stava voltando per cercare un interlocutore, i suoi occhi incontrarono un paio di iridi luccicanti a pochi metri da lei.
 Quello che le stava davanti era un uomo, o meglio, un ragazzo, vestito in modo modesto e con una sella di cuoio sotto al braccio.
 Si fissavano l'un l'altro, senza dire una parola. Caterina non riusciva a pensare a nulla. Avvertiva una sensazione stranissima, qualcosa che non aveva mai provato e che non riusciva a decifrare. Quasi non capiva se quella sensazione fosse bella o brutta.
 Aveva la bocca asciutta, sentiva il collo scaldarsi e il cuore le batteva più rapido che mai nel petto, mentre le gambe parevano essere diventate di marmo, impossibili da muovere. Era come avere paura, ma non volersi sottrarre per nessun motivo alla causa di quel panico improvviso.
 Dopo quelle che parvero ore, il cavallo che Caterina teneva per le briglie nitrì con impazienza e così la donna trovò la forza di staccare gli occhi da quel giovane che tanto l'aveva rapita.
 “Mia signora...” disse egli, con una voce dolce e bassa: “Dicevate...?”
 Caterina tossicchiò, prendendo tempo per ricordarsi cosa mai l'avesse portata nelle stalle, poi si ricordò: “Questo cavallo...” disse, muovendosi con cautela verso il giovanissimo stalliere: “Ha perso un ferro. Potete sistemarlo?”
 Il ragazzo annuì: “Certo, mia signora.” e si fece avanti per prendere le redini.
 Nel momento in cui Caterina gli passò i finimenti, gli sfiorò appena la mano, involontariamente e tanto bastò a farla sentire di nuovo come poco prima, come quando si era imbattuta per caso nei suoi occhi.
 Senza riuscire a dire altro, Caterina si congedò con un rapidissimo gesto della mano e uscì quasi di corsa dalle stalle, fuggendo più da se stessa, che non da quel giovane uomo.

 Erano più o meno le due di notte e la città era avvolta dall'oscurità più totale.
 Ludovico Orsi, con indosso un mantello che lo copriva per intero, aveva appena raggiunto la rocchetta di San Pietro, seguito a una certa distanza da Ronchi e dai suoi uomini.
 “Devo parlare con Denti, Serughi e Codiferro.” disse alla guardia: “Sono qui per conto di Monsignor Savelli.” aggiunse, a mo' di esortazione a sbrigarsi.
 La guardia annuì e tornò dopo pochi minuti seguito dai tre carcerieri.
 “Che volete?” chiese Denti, incrociando le braccia sul petto, mentre veniva aperto il rastrello della Porta.
 “Monsignor Savelli ordina che ci diate subito in custodia i figli di Caterina Sforza. Vuole che li scortiamo personalmente in una prigione di Cesena, per usarli come merce di scambio con i generali milanesi.” disse Ludovico Orsi, ostentando una certa calma.
 “Non siamo degli sprovveduti.” disse Codiferro, guardando Orsi di sottecchi: “Noi rispondiamo solo a Monsignor Savelli. Se avesse voluto una cosa simile, sarebbe venuto di persona a dircelo. Voi Orsi siete come cani rabbiosi e so che potreste volere questi bambini per fini ben diversi da quello che state dicendo.”
 Ludovico provò a ridire quel che aveva già detto usando giri di parole e perifrasi di ogni tipo, ma i tre carcerieri trovavano il modo di smontare ogni sua invettiva.
 Ronchi, intanto, aveva notato il rastrello sollevato. Era il momento giusto per andare a chiamare i suoi uomini e cercare di entrare nella rocchetta con la forza.
 Tuttavia Ronchi non fu in grado di correre abbastanza silenziosamente. Malgrado il buio e la scarsità delle torce, il rumore dei suoi passi pesanti bastò a una delle sentinelle della Porta San Pietro per accorgersi di lui e dei suoi uomini, in attesa poco lontano.
 Subitamente, mentre Ludovico lasciava di fretta la rocchetta, una pioggia di mattoni, pietre e proietti di qualsiasi tipo arrivò addosso a Ronchi e ai suoi che, nell'impeto del momento, l'avevano raggiunto comunque.
 “Questi bambini sono stati messi in San Pietro dagli Orsi! Sono proprietà loro, non di Savelli!” provò a dire Ronchi.
 “Savelli comanda a Forlì, non gli Orsi! E ora andatevene, o vi faremo arrestare e impiccare!” minacciò Denti, gettando di persona un grosso masso giù dalla rocchetta.
 Il colpo arrivò a segno, proprio sulla testa del soldato che stava accanto a Ronchi. Questi, sentendo il sangue caldo del suo amico schizzargli il viso, perse la testa e cominciò a correre, uscendo dalla città e prendendo per le campagne, deciso a non tornare mai più in quell'inferno.
 Ludovico e Checco Orsi, nel frattempo, erano corsi fino alla loro casa mezza diroccata. Avevano preso i gioielli e quel poco ora che stava loro in tasca e se l'erano filata, nascosti dalla notte, senza nemmeno svegliare il padre o le mogli per dire loro addio.

 “Gli Orsi sono fuggiti, mio signore.” annunciò mesto Maso Maldenti, che era appena stato tirato giù dal letto da una delle sue spie.
 Monsignor Savelli, tenendosi le vesti da notte come un'educanda particolarmente vergognosa, sgranò gli occhi e sillabò: “Fuggiti?”
 Maldenti annuì e chiese, subito: “Inoltre le mie spie dicono che appena dopo di loro sono scappati oltre cinquanta soldati e una ventina di persone che avevano preso parte alla congiura...”
 Monsignor Savelli agitò le mani ossute, come a rimarcare una volta di più il suo disprezzo per una parola volgare come 'congiura' e non volle ascoltare altro: “Andate, andate... Non ho altro da sapere.”
 
 Per quanto non riuscisse a capirne il motivo più profondo, Caterina aveva passato quasi tutta la notte insonne, ma, contrariamente alle notti precedenti, i suoi pensieri non erano stati occupati dall'angoscia e dalla paura per i suoi figli e per sua sorella.
 L'unico volto a cui aveva pensato fino allo spuntare dell'alba di quel 30 aprile, era quello del giovane stalliere.
 Come possibile che un'idea tanto futile le avesse tolto il sonno e occupato la mente in modo così prepotente?
 Che poi, perchè continuava a rivedere davanti a sé quel viso asciutto e regolare, quei capelli castani un po' spettinati e quella barba, appena accennata sul mento e sulle guance?
 Razionalmente, non riusciva a capirlo.
 “Mia signora!” la voce di Tommaso Feo, da dietro la porta, la scosse da tutti quegli strani pensieri.
 “Cos'è successo?” chiese subito la Contessa, andando ad aprire la porta, benché indossasse solo la vestaglia per la notte.
 Tommaso, che pure ormai avrebbe dovuto essere abituato a vederla anche in abiti decisamente informali, rimase un momento in silenzio, quando se la vide davanti così poco vestita.
 Tuttavia, l'euforia che provava riuscì a vincere anche quel momento di imbarazzo: “Mia signora, gli Orsi sono scappati, Savelli non si trova da nessuna parte... Abbiamo vinto.”
 Caterina ci mise un minuto buono per realizzare quello che Tommaso Feo le aveva appena detto.
 Aveva sperato così tanto di sentire quelle parole, che ora che le udiva davvero, stentava a credere che fossero reali.
 “Abbiamo vinto...” sussurrò, mentre un largo sorriso cominciava a formarsi sulle sue labbra: “Abbiamo vinto!” esclamò poi, saltando al collo di Tommaso Feo e stringendolo in un abbraccio di pura gioia.
 Il castellano ricambiò con entusiasmo e quasi stava per aggiungere qualcosa, spinto dall'emozione di quel frangente, ma Caterina si allontanò da lui prima che potesse dire anche solo una parola.
 “Dobbiamo essere veloci e sfruttare questo momento di incertezza. I forlivesi devono capire che abbiamo vinto noi, che gli Orsi non ci sono più e che Savelli non ha più alcun diritto su questa città.” disse veloce Caterina, cominciando a cercare un vestito: “Fate in modo di radunare la popolazione davanti alla rocca. Li esorterò a liberare definitivamente i miei figli e a far correre la piazza a Ottaviano. Se lo riconosceranno come loro signore, nemmeno il papa si azzarderà a prendere altre iniziative contro la mia famiglia.”
 Tommaso Feo fece un breve inchino: “Corro subito sulle merlature per radunare la gente.”
 
 Andrea Bernardi seguiva la folla che si stava muovendo verso Ravaldino con la forza di un fiume in piena.
 Gli Orsi erano scappati, fuggiti, dileguati. Si erano lasciati alle spalle una casa quasi demolita, le mogli, i figli piccoli e l'anziano padre, da veri codardi.
 Ronchi era fuggito e con lui vari altri congiurati e Savelli, dicevano, era uscito dalla città prima che il sole sorgesse, nella speranza di non essere fermato da nessuno e di poter raggiungere Cesena o un'altra città a lui più favorevole.
 Il Novacula era felice oltre ogni dire, nel vedere come i forlivesi si erano finalmente schierati dalla parte della Contessa. Non gli importava se lo stavano facendo per paura dell'esercito milanese, ciò che contava era quello che stavano gridando, ovvero: “Caterina! Caterina!”
 Così, lasciandosi trascinare dalla corrente di esseri umani festanti – gli stessi che una quindicina di giorni prima avevano fatto a pezzi il cadavere del Conte Girolamo Riario davanti agli occhi della Contessa e dei suoi figli – Andrea Bernardi raggiunse la rocca di Ravaldino.
 Sulle merlature stava Tommaso Feo, raggiante, che incitava la folla e proclamava la vittoria della Contessa Sforza Riario.
 Il Novacula non dava peso a tutti quelli che, attorno a lui, stavano dicendo di essere sempre stati certi di quell'esito felice per la Contessa. Erano gli stessi che due settimane prima la davano per spacciata. No, a lui interessava solo vedere la sua signora, sentirla di nuovo parlare con tono sicuro, ma sereno. Ritrovare la donna, non la tigre.
 Così, quando Tommaso Feo annunciò la Contessa, Andrea Bernardi trattenne il fiato e, trepidante, si mise a gridare e applaudire con tutta Forlì, mentre Caterina Sforza, vestita in modo sobrio, ma elegante, faceva capolino sulle merlature, le braccia sollevate in segno di vittoria e un sorriso smagliante a illuminarle il viso.
 Quella vittoria le era costata molto, lo sapeva anche Bernardi, che l'aveva vista in cella, sofferente, in pena per i suoi familiari, che l'aveva sentita dileggiare fin dall'ultimo forlivese, che l'aveva udita gridare improperi e minacce, dilaniata dalla paura e dal dolore, ma in quel momento di pura gloria ed esaltazione valeva bene quel caro prezzo.
 Aveva ragione Annibale, che, secondo Tito Livio, disse: l'animo preferisce la vittoria alla pace.

   
 
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