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Autore: Aliseia    12/04/2016    3 recensioni
«Guardami… » sussurrò il Sovrano.
Le iridi blu, scure come la notte, accolsero il magmatico ribollire della luce.
« Mio signore.» mormorò Cabranel. Senza aggiungere null’altro, perché qualunque altra preghiera sarebbe stata eresia
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Thranduil
Note: AU, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Eryn Galen'
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Fandom: Lo Hobbit – AU
Genere: Slash - Introspettivo - Romantico
Rating: VM14
Personaggi: Thranduil, Thorin Scudodiquercia, Caleloth (OC – “Musical Elf” : Movieverse); Cabranel (OC- Nestadion-Thingalad : Movieverse)

Disclaimer: I personaggi e i luoghi presenti in questa storia in gran parte non appartengono a me ma a J.R.R. Tolkien, a Peter Jackson e a chi ne detiene i diritti.
Dedica: Questa storia è dedicata all’Elfetta della Primavera, per il suo compleanno
Note: questo breve racconto riprende i temi di The Light will Stay On di cui è il prequel
Altre dediche: Ghevurah, _Orlando_
 

 


 

La Gemma che conteneva il Mondo*
 

 
 
Sul collo bianchissimo oscillava un opale.
Verde e sontuoso, attraversato da lampi. Squarci vuoti e vertigini astrali.
Cabranel ne era ipnotizzato. E per la prima volta da quando si conoscevano fissava quel luminoso, inesorabile pendolo, anziché le labbra e gli occhi del proprio sovrano.
«Guardami.» disse il Re. Era un ordine.
Lo sguardo notturno di Cabranel incontrò quello stellare di Thranduil.
Come nell’analogia di quella pietra iridescente con lo spazio profondo, si ripeté l’incontro della luce con l’oscurità.
«Guardami… » sussurrò il Sovrano.
Le iridi blu, scure come la notte, accolsero il magmatico ribollire della luce.
« Mio signore.» mormorò Cabranel. Senza aggiungere null’altro, perché qualunque altra preghiera sarebbe stata eresia, mentre inchinatosi di fronte al Re quasi si abbandonava tra le sue braccia. E quello, seduto sul trono e piegato su di lui, sembrava sfiorare con le labbra il suo capo chino.
«Parto.» fu Thranduil a spezzare l’incanto.
Cabranel annaspò, spezzando per un attimo il contatto che aveva appena ritrovato con gli occhi. Guardò la bocca, quell’onda morbida e sinuosa da cui potevano sfuggire le parole più crudeli.
«Noi partiamo.» si corresse Thranduil con un sorriso strano.
Cabranel oscillò, le sue pallide mani si aggrapparono al ricco broccato di cui Thranduil era vestito, con un gesto che certo sarebbe stato strano per un qualunque guardiano.
Non per lui. Non per un amante.
Ora così, occhi negli occhi e mani che cercandosi scoprivano di conoscersi a memoria, sembravano davvero due compagni languidi e testardi ancora perduti nel momento che segue un amplesso.
Poi furono quelle parole, “noi partiamo”, a sciogliere il nodo che legava loro le braccia.
Rivelando che no, non erano amanti. Non più.
E che quel contatto che pareva così intimo altro non era che una stretta fraterna.
Parti. Sono qui per dirti addio.
Noi partiamo…
Arretrando ancora un poco Cabranel ricordò lo sguardo obliquo del Nano, nel corridoio, mentre egli attraversava la soglia della stanza del Re.
L’altro si era voltato appena, i lunghi occhi come ferite nella parete ruvida della montagna.
Come profondi laghi blu incastonati tra rocce scure.
Occhi sprezzanti, come sempre. Forse meno gelidi del solito. Ma brillanti e attenti come non erano mai stati. Occhi accesi di gelosia.
Thorin Scudodiquercia sapeva, e ricordava.  Anche se rammentava solo a sprazzi una convalescenza straniante e dolorosa. I lunghi giorni in cui gli Elfi li avevano strappati a una fine annunciata.
Gli Elfi vicini a Thranduil che, sotto la guida dell’indomabile Sovrano, li avevano recuperati alla morte, quando essa aveva già steso i suoi artigli neri. Quando il suo freddo fiato già soffiava sopra le bocche appena dischiuse di Thorin, di Fili, di Kili.
Ma essi, gli Elfi guaritori, non avevano avuto paura. Dopo lunghi giorni e interminabili notti di cure e rituali i Nani di Durin erano stati salvati. Restituiti alla vita… Ma quale vita?
I carri che mestamente tornavano alle Montagne Azzurre sancirono la loro separazione dagli Elfi. E gli amanti voluti dal fato sembrarono allora lontani e perduti. Forse per sempre.
 
Per cento anni.
Un battito di ciglia in cui Thranduil fu privo di luce. O quasi.
E in quei giorni che per il Sovrano erano di sofferenza, di languore, di smarrimento, erano pochi quelli ammessi accanto a lui. Cabranel era fra loro. La guardia fedele.
 
«Parti.» confermò il guerriero.
Il Nano era dietro la porta chiusa.
Il giovane amante del bruno guardiano pizzicava mollemente l’arpa, in una stanza lontana.
Una nota argentina, lieve e irrequieta come una goccia di pioggia che rimbalza sul davanzale, li raggiungeva di tanto in tanto facendo sì che Cabranel aggrottasse la fronte.
«Cosa guardi?» chiese Thranduil in tono flautato.
«Questo pendente che oscilla sulla tua gola. » rispose Cabranel sfiorando la pietra con lunghe dita audaci.
Rabbrividì. Rabbrividirono entrambi.
«Nulla mi può tenere separato da voi.» disse Thranduil con voce remota.
«Nemmeno le braccia di un nano?» la voce di Cabranel s’incrinò appena.
«No. Lui lo sa. Noi andiamo verso una nuova vita… Ma io posso tornare. L’esistenza terrena non mi è preclusa. Io ci sarò. Per voi, per tutti voi. Ci sarò sempre.»
«La vita terrena, mio signore? – Cabranel alzò la testa di scatto – Non è forse per ripudiare la terra che te ne vai? Per raggiungere con lui un luogo ove trionfino solo le stelle?»
Thranduil sorrise. «Cabranel… Il mio Elfo dei Corvi. - un lungo dito sfiorò le labbra sottili del guardiano – Tu sarai il mio legame con questa terra… E non ho scelto forse, di tutte le creature, quella capace di darmi sempre un ruvido abbraccio terreno? Un nano?»


«Il mio nome non è Cabranel… E tu lo sai.» Il bruno elfo scosse il capo, diventando ancora più pallido.
«Lo so, certo.» rispose Thranduil tornando serio.
«Dì il mio nome – pregò la guardia con gli occhi che ardevano – Dillo… il mio nome vero.»
«Thingalad… - sospirò Thranduil con voce commossa – La luce della sera… »
Le loro labbra erano così vicine da sfiorarsi. Tanto vicine, ma senza cercare il bacio.
«Io ci sarò – disse Cabranel a fatica – Ci sarò, quando tu tornerai. Ci sarò. Sempre.»
Si fissarono a lungo, e in quel silenzio, nell’incanto memore di notti passate, nel segreto delle loro menti, forse il bacio ci fu davvero.
Poi Cabranel, che senza vergogna si era inginocchiato, altrettanto fieramente si rialzò. «Ci sarò, ogni volta. Ma non portare con te il Nano, ti prego.»
Le labbra piene di Thranduil si piegarono in una graziosa smorfia. «Il mio Re, Thorin Scudodiquercia, ha con te un debito di riconoscenza. Egli non potrà più lasciare Aman, se non vuole perdere la vita infinita che gli sarà donata. Ma non si inquieterà… non troppo, spero, se di tanto in tanto tornerò dai miei amici terreni.» Il bel volto diafano era raggiante, riverberava la luce splendente degli occhi e quella mossa, chiara fino all’incandescenza, della pietra che portava al collo. Le iridi, come la gemma, avevano un bagliore ultraterreno.
 
E all’improvviso, come il suono che muove il mondo, come il rintocco di un’eterna pendola, una nota argentina interruppe i loro discorsi e i loro pensieri.
Cabranel si riscosse.
Thranduil sorrise. Alzandosi sussurrò all’orecchio della guardia: «Devo andare, mio caro.» Un’ombra di malizia colorava le sue guance.
Anche Cabranel sorrise, e posando sulla guancia dell’altro il più tenero dei baci (certo il più puro che si fossero mai scambiati, se non il più casto) egli affrontò ancora lo sguardo di gemma che conteneva il mondo. «Mio signore… Caleloth suona una melodia particolarmente triste questa sera. Egli suona per te. La musica della sua arpa assomiglia al mormorio armonioso dei nostri saluti, al coro delle nostre voci, che con toni e tempi diversi si sovrappongono in un’unica parola di commiato. »
«Ah, ecco… - Thranduil sollevò un sopracciglio – Dunque la voce della sua arpa attira la tua attenzione più di quella che esce dalla mia bocca…» Le belle labbra ebbero un fremito nel passare dall’ostentato e ben noto broncio al più ironico e affascinate dei sorrisi.
Negli occhi vigili di Cabranel passò un’espressione insieme tenera e sensuale. «Ciò che viene dalle tue labbra, mio signore, non ha eguali… E lo stesso può dirsi della musica di Caleloth.»
Ora si guardavano in silenzio. E il Re, che pure aveva conosciuto innumerevoli amanti, pensò che quello era stato uno dei pochi, tra coloro che aveva avuto tra le braccia, con cui aveva condiviso il riso e il pianto. Il gemito amoroso e l’imprevedibile esplosione d’ilarità.
E quel connubio di emozioni opposte si ripeté ancora una volta. Le bocche risero mentre s’inumidivano gli occhi.
Poi Thranduil tornò completamente serio. «Abbi cura di lui.» disse piano.
«Mi è più caro della vita.» sussurrò Cabranel con un filo di voce, quasi che quelle parole sgomentassero anche colui che le pronunciava. «Ma la mia vita è tutta racchiusa nel tuo sguardo, nelle profondità astrali dei tuoi occhi… E dunque il mio non è un addio. Una parte di me sarà con te ovunque andrai. Una parte di te resterà con me.»
«Dimmelo, allora – chiese Thranduil con il più soave dei comandi  - Dì il mio nome.»
Cabranel piegò il capo, poi rialzando la testa e guardandolo fisso negli occhi mormorò: «Arrivederci, Thranduil.»


 
 
 
 

*La parola “gemma” è un omaggio a un personaggio originale dell’Elfetta

 
  
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