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Autore: Adeia Di Elferas    12/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ L'attesa era palpabile e tutta Forlì alzava il naso verso la Contessa, appena apparsa dietro alle merlature della rocca.
 Davanti a tutti, in bella mostra, stavano i rappresentanti di alcune nobili famiglie che avevano fin da subito osteggiato il governo degli Orsi, ovvero gli Orcioli, i Numai e i Marcobelli.
 Caterina li riconobbe subito e decise di far leva soprattutto su di loro: “Forlivesi! Orcioli, Marcobelli, Numai...” cominciò: “Gli Orsi sono scappati, Monsignor Savelli ha lasciato la sua carica... Ora vi chiedo di andare alla rocchetta di San Pietro e liberare i miei figli!”
 Un grido di entusiasmo si levò dai presenti, mentre Caterina proseguiva: “Fate atto di sottomissione a Ottaviano, riconoscetelo come nuovo signore di Forlì!”
 Guidati soprattutto dagli Orcioli, i forlivesi iniziarono a muoversi come un sol uomo in direzione di Porta San Pietro.
 Da loro si alzavano molti motti, ritmici, cadenzati. Qualcuno diceva 'Caterina', qualcuno diceva 'Ottaviano', ma certi, forse facendo ricadere il merito di quella ritrovata sicurezza sui milanesi, le cui truppe stavano al limitare della città, ripetevano il grido di battaglia di Milano: 'Duca'.
 Caterina osservò la popolazione correre verso Porta San Pietro, e finalmente si permise di rilassarsi.
 “Vostro figlio è molto giovane.” disse piano Tommaso, mentre affiancava la sua signora nel tornare dentro alla rocca.
 'È solo un bambino', avrebbe voluto dire.
 Caterina alzò le spalle e spiegò: “Non potevo certo chiedere di prendere il posto di mio marito. Il mondo non funziona così. Riconosceranno Ottaviano come loro signore, e io sarò la sua reggente. Le decisioni spetteranno a me, ma agli occhi delle altre corti italiane, sarà Ottaviano, il nuovo Conte. Così non infrangeremo nessuna regola.”
 Tommaso annuì lentamente, continuando a trovare quella cosa profondamente sbagliata e pericolosa.
 “Piuttosto – riprese Caterina – date subito ordine ai soldati di schierarsi attorno alle mura cittadine. Nessuno se ne deve andare. Dobbiamo punire i ribelli in un modo esemplare.”
 Nelle sue stesse parole Caterina vide il fantasma di Bona e dei giorni in cui aveva dovuto fronteggiare gli assassini di suo marito, il Duca di Milano. Più di una volta l'ingloriosa fine del suo governo l'aveva spronata a prendere decisioni ferme e irrevocabili nei confronti dei rivoltosi, ma quella volta non si sentiva troppo determinata a far pagare i congiurati per le loro colpo.
 Avrebbe dovuto dimostrarsi ferma, ma non era il caso di scatenare una vendetta come quella che Lorenzo Medici aveva acceso dopo la morte del fratello Giuliano.
 Sarebbero state misure adeguate, ma anche caratterizzate da un certo grado di magnanimità. Avrebbero pagato i congiurati direttamente coinvolti nella ribellione e anche i parenti degli Orsi, ma nessun altro. Il popolo aveva saccheggiato il palazzo dei Riario e aveva fatto a pezzi il cadavere del Conte solo per paura e per rabbia.
 “E con l'esercito di Milano?” chiese a un certo punto Tommaso Feo, scuotendo Caterina dai suoi pensieri.
 “Al momento opportuno.” fece la donna, zittendolo con un breve gesto della mano: “Prima voglio riabbracciare i miei figli e mia sorella.”
 
 “Cosa volete?” chiese Bianca, tenendo il nipote più piccolo in braccio: “Cosa è successo?”
 I tre carcerieri stavano parlottando da qualche tempo davanti alla porta della cella. Da fuori stavano arrivando delle grida confuse, e né Bianca, né gli altri riuscivano a capire cosa quella folla stesse dicendo.
 “Al diavolo, siamo soldati!” disse uno dei carcerieri a voce molto alta: “Abbiamo solo eseguito gli ordini! E ora eseguiremo quelli della Sforza!”
 Questa affermazione fece vibrare l'aria nella cella. Le balie si guardarono per un lungo istante, quasi non osando sperare di aver sentito bene.
 Uno degli altri due carcerieri borbottò un po', poi concluse con un forte: “Per Dio, va bene!”
 Subito dopo Serughi aprì la porta della cella e disse: “La Contessa Riario ha vinto. Attendiamo di avere ordini precisi e poi sarete liberi.”
 una delle due balie svenne, mentre l'altra si affrettò a stringere a sé i bambini più grandi, mentre Bianca iniziò a piangere sommessamente, incredula di fronte a una simile buona notizia.
 
 Il popolo premeva alle porte della rocchetta di San Pietro, inneggiando al Duca di Milano e alla Contessa Caterina, reclamando la presenza di Ottaviano Riario.
 Denti e Codiferro ci misero un po' prima di trovare un interlocutore in uno degli Orcioli che spiegò loro di essere arrivato alla rocchetta assieme ai forlivesi per liberare i prigionieri e portare in trionfo Ottaviano Riario: “Correrà la piazza – spiegò – e si sottoporrà al furto del cavallo, come...”
 Stava per dire 'come suo padre ha fatto prima di lui', ma poi si era ricordato che era stata Caterina Sforza e non Girolamo Riario a correre la piazza, la prima volta che i Conti erano stati in città.
 “E va bene!” concesse quasi subito Denti: “Ma dovrete dire alla Contessa che noi vi abbiamo consegnato subito tutti i prigionieri, dimostrando buon volontà.”
 Gli Orcioli e i Marcobelli cominciarono subito a rassicurare i carcerieri e così Codiferro diede una voce a Serughi, che arrivò al rastrello tenendo, con una gentilezza che normalmente gli era estranea, Ottaviano per un braccio.
 Il bambino di nove anni era bianco, con gli occhi incavati e un'espressione spaurita che difficilmente si sposava con l'idea di signore della città.
 Tuttavia due Orcioli gli andarono subito incontro, festeggiandolo e presentandolo al popolo come il nuovo signore di Forlì.
 “Dovrete correre la piazza.” spiegò uno di loro: “Così il popolo di Forlì vi riconoscerà come legittimo signore.”
 “Mia... Mia madre vuole così?” chiese Ottaviano con la voce strozzata.
 “Certo, mio signore.” fece uno dei Marcobelli, gioviale: “Ora vi daremo vestiti migliori e poi correrete la piazza!”

 “Come sarebbe a dire che stanno portando Ottaviano Riario in trionfo?!” chiese Giovanni Bentivoglio, scuotendo la staffetta per le spalle.
 “Che fine ha fatto Savelli?” chiese Rodolfo Gonzaga.
 “Scappato, mio signore.” rispose il messaggero: “Ora la popolazione è di nuovo a favore della Contessa e ogni cosa sembra tornata al suo posto.”
 “Ah!” esclamò il Bergamino, con uno strano ghigno dipinto in volto.
 “Che c'è?” chiese Giovanni Bentivoglio, guardando accigliato l'altro.
 “Niente, niente...” sussurrò Giampietro Bergamino: “Solo mi chiedevo come farete a tenere a bada quasi ventimila uomini a cui avete continuato a promettere ogni tipo di ricchezza e delizia oltre le mura di quella città...”
 Giovanni Bentivoglio si sentì avvampare. Era vero, ed era proprio per quello che non poteva credere al fatto che Savelli e compari avessero mollato il mazzo così in fretta.
 Da giorni ormai andava promettendo di continuo ai suoi soldati e ai saccomanni che lo avevano seguito il sacco della città. Era loro diritto e non vi avrebbero più rinunciato ormai. Però, se la contesa su Forlì era stata vinta dalla loro parte, che senso avrebbe avuto permettere un saccheggio?
 Di certo la Contessa lo avrebbe impedito. Ma come trattenere tutti quegli uomini assetati di sangue e ricchezze?
 “Sono proprio contento di non essere io, il comandante in capo...” ridacchiò il Bergamino, prendendo la sua spada da terra e cominciando a fare la lama.

 Ottaviano venne portato fino alla piazza centrale scortato non solo dai nobili fedeli ai Riario, ma anche da Serughi, che aveva insistito per essere la scorta armata del piccolo Conte.
 Al bambino venne dato un cavallo di fortuna, di stazza media, per paura che una bestia più grande potesse disarcionarlo nell'impeto della corsa.
 Ottaviano si lasciò aiutare nel salire in sella e poi strinse a sé le redini. Aveva paura, non solo per la corsa che lo attendeva – non era mai stato bravo a cavalcare e farlo dopo giorni di quasi totale digiuno era una prova troppo grande per lui – ma anche per i giorni che sarebbero seguiti.
 Avrebbe dovuto rivedere sua madre, ritornare a vivere nel palazzo dov'era stato ucciso suo padre e poi... Poi avrebbe dovuto cominciare a occuparsi degli affari di Stato, a seguire le riunioni, a studiare la politica e...
 Il cavallo venne spronato da Serughi e Ottaviano si trovò lanciato in una folle corsa attorno alla piazza.
 Passare accanto ai forlivesi, che si scansavano all'ultimo secondo, a quella velocità era un'emozione indescrivibile che, però, Ottaviano non riusciva ad apprezzare.
 Tutti quanti gridavano il suo nome, dando ritmo alle zampe della sua cavalcatura, accompagnandolo in quel metaforico viaggio verso il potere.
 Compiuto il terzo giro, furono direttamente il forlivesi a far fermare il cavallo e in breve, mentre portavano a braccio Ottaviano, procedettero con la cerimonia del furto, spartendosi senza troppi complimenti i finimenti dell'animale, benché fossero di foggia ordinaria e privi di qualsiasi ornamento prezioso.
 Per quanto fosse confuso e stanco, Ottaviano notò una cosa veramente strana. Per quanto la folla fosse numerosa, anche guardandoci bene, non si vedeva nemmeno una donna, in mezzo a tutti quegli uomini...

 “Cosa sono queste voci?” chiese Caterina, che stava passando in rassegna i soldati che avrebbero dovuto passare di lì a breve per le strade di Forlì ad arrestare i ribelli.
 Da fuori la rocca si era levata una sorta di lamentosa litania. Sembravano voci di donne e ragazze che imploravano per qualcosa.
 “Vado a vedere.” si propose Corradino Feo, partendo di corsa verso i camminamenti di vedetta.
 Quando tornò, apparve molto stupito: “A quanto pare, mia signora, le donne di Forlì sono furi dalla rocca e desiderano discutere con voi.”
 Caterina intuì abbastanza in fretta quale potesse essere l'oggetto di quella discussione, perciò si affrettò ad andare alle merlature.
 Davanti ai suoi occhi si stagliava un piccolo mare di donne, quasi tutte prostrate in ginocchio e in lacrime, intente a chiedere perdono e a supplicare.
 “Pietà!” gridò una delle forlivesi, coprendo le voci e pianti delle altre: “Voi che siete madre! Vi supplichiamo! Impedite il saccheggio della città! Che ne sarà dei nostri figli, altrimenti? E di noi? Delle nostre figlie? Sapete cosa accade, quando un esercito entra in una città!”
 Caterina ascoltava in silenzio. Era d'accordo con loro. Un saccheggio, soprattutto ora che la guerra era vinta, non sarebbe stato di nessuna utilità, anzi, sarebbe stato un danno incalcolabile.
 Ci aveva già pensato e avrebbe solo voluto poter sistemare ogni cosa con più calma, solo dopo aver rivisto i figli e la sorella, ma si rese conto che anche quella volta la ragion di Stato andava messa davanti alle ragioni dell'anima. In questo Cicco Simonetta era stato un grande maestro e Caterina avrebbe seguito i suoi insegnamenti.
 Proprio mentre stava per rassicurare le donne di Forlì, una decina di uomini arrivarono di corsa da una stradina secondaria gridando: “Arrivano i milanesi! Ci ammazzeranno tutti! Arrivano i milanesi!”
 Caterina seguì con lo sguardo gli indici puntati di quegli uomini, che indicavano un punto indefinito dell'orizzonte.
 A una distanza più che considerevole, ma comunque preoccupante, dalle mura di Forlì si era alzato un polverone che poteva solo indicare un esercito in avvicinamento.
 Non c'era più tempo da perdere. Caterina avrebbe voluto andare subito di persona dalle truppe sforzesche per ordinare di fermarsi, ma sapeva che lasciare Forlì, anche solo per poco e anche senza allontanarsene molto, sarebbe stato il più fatale degli errori. Soprattutto ora che le donne di Forlì avevano cominciato a correre istericamente da un angolo all'altro, piangendo per i figli e le figlie che sarebbero stati considerati dai soldati bottino di guerra tanto quanto l'oro o il cibo.
 “Tommaso!” esclamò Caterina, non appena riuscì a trovarlo nel cortile della cittadella: “Dovete correre subito incontro all'esercito milanese e imporre ai comandati di portare le truppe vicino alla rocca di Ravaldino, sul lato delle montagne, senza osare, però, mettere anche un solo piede in città.”
 “Ma...” cominciò a dire Tommaso: “Io... Io sono il castellano. La legge parla chiaro: non posso lasciare la rocca o la mia carica decadrà immediatamente...”
 Caterina si massaggiò un momento la fronte. Accidenti a Tommaso Feo e al suo essere ligio alle regole...
 “Dobbiamo evitare a ogni costo il saccheggio e io mi fido solo di voi. Vi sostituirò ufficialmente io, mentre sarete fuori. Nessuno avrà il coraggio di opporsi quando, al vostro ritorno, vi ridarò la vostra carica.” tagliò corto Caterina.
 Tommaso Feo esitava. Non temeva certo di non vedersi restituita la rocca, tutt'altro, era più che sicuro che la Contessa sarebbe stata di parola. Le sue perplessità erano tutte per l'esercito milanese. Difficilmente sarebbe riuscito a imporsi più di tanto, nemmeno facendo il nome di Caterina. E anche se fosse riuscito a far accampare gli sforzeschi vicino alla rocca di Ravaldino, sarebbe stato comunque quasi impossibile evitare loro di entrare in città e metterla a ferro e fuoco.
 “Farete quello che vi chiedo?” domandò alla fine Caterina, vedendo che il castellano non si risolveva.
 Tommaso alla fine si passò una mano sulla barba, che in quei giorni si era fatta più lunga e ispida: “Sì, mia signora, come sempre.”

 Andrea Bernardi, conteso tra tutti quelli che erano accorsi nella sua barberia a chiedere notizie – come se quella fosse una posta e non un negozio da barbiere – mise tutti a tacere con un sonoro fischio.
 Non ci stava capendo più nulla e non sapeva cosa rispondere a quelli che domandavano a lui come sarebbe finita coi milanesi. Si erano messi in testa che il barbiere avesse una linea di comunicazione preferenziale con la Contessa e che per questo fosse al corrente di tutto, ma si sbagliavano.
 Il Novacula era stordito e impaurito come tutti all'idea che l'esercito sforzesco potesse entrare in città da un momento all'altro, razziando a destra e a sinistra malgrado Ottaviano fosse stato appena nominato signore di Forlì.
 Così, quando riuscì finalmente a divincolarsi da tutti quei suoi opprimenti concittadini, Andrea Bernardi andò un momento in strada a riprendere fiato.
 Proprio mentre si faceva largo per trovare un metro di via per respirare in santa pace, vide arrivare, dalla direzione della rocca di Ravaldino, un uomo a cavallo.
 Questi andava tanto veloce che quasi nessuno avrebbe potuto riconoscerlo. Il Novacula, però, quando se lo vide sfrecciare davanti, non faticò troppo a riconoscere il castellano di Ravaldino, il Capitano Feo, colui che mai, per nessun motivo al mondo, avrebbe dovuto lasciare il suo posto, pena l'immediata destituzione.
 “Ma che cosa...?” fece Bernardi, appena prima di essere ripreso quasi di peso dai forlivesi che voleva saperne di più.
 “Chi era quello?” chiedevano tutti, indicando il cavaliere che era appena sparito dalla loro visuale.
 “E che ne so io!” rispose il Novacula, tenendo lontani i più invadenti con secchi gesti delle braccia: “Cosa volete che ne sappia, io!”

   
 
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