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Autore: Adeia Di Elferas    14/04/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Ve lo dona il sarto della corte ferrarese.” spiegò il messo, porgendo l'abito a Caterina: “L'ha confezionato appena ha saputo della vostra strenua resistenza e ha detto che sarebbe stato perfetto per una donna della vostra forza e levatura.”
 Caterina lo ringraziò e pregò alla moglie di Bernardino, ormai sua fedele dama di compagnia, di portarlo nella sua stanza.
 “Lo indosserò immediatamente. È tempo di smettere il vestito a lutto.” dichiarò Caterina, indicando il proprio abito scuro.
 In realtà era stato un caso trovare quel vestito scuro tra quelli che aveva fatto portare nella rocca nei giorni precedenti al colpo di Stato degli Orsi.
 Il messo fece una faccia strana, come a dire che in fondo due settimane scarse di lutto erano molto poche anche per una tigre, ma non si sentì abbastanza ardito da dar voce ai suoi pensieri. Così, con un ultimo inchino, ringraziò la Contessa per tanta disponibilità e lasciò la rocca.
 Caterina andò subito nella sua camera – scelta tra quelle più vicine al cortile d'addestramento – e si fece aiutare per indossare il nuovo abito. Da anni non aveva vestiti di quella foggia e, anche se non era mai stata un'estimatrice degli abiti alla moda, lo trovava veramente bello.
 Mentre lo rimirava alla luce che filtrava dalla piccola finestra, il pensiero le tornò, a tradimento, a quel giovane stalliere incontrato il giorno prima. Che avrebbe detto lui, vedendola vestita così?
 Scosse il capo, contrariata dalla piega che avevano preso i suoi pensieri e tornò a concentrarsi su quello che stava dicendo la sua dama di compagnia.
 “Vestito molto allegro, mia signora.” notò la cameriera, mentre le sistemava le maniche: “Colori accesi e una linea molto morbida. Mi piace.”
 Caterina concordò con lei e le chiese se, a suo parere, il popola avrebbe trovato troppo azzardato il suo lutto smesso così in fretta.
 La forlivese si affrettò a dire di no: “Anzi, mia signora, credo sia proprio ciò che ci si aspetta da voi.”
  Caterina aprì un momento le labbra, forse per protestare di fronte a una simile affermazione, ma alla fine dovette ammettere che la donna aveva ragione.
 La ringraziò di nuovo per l'aiuto e poi la pregò di andare a chiamare Corradino Feo. Appena Tommaso fosse tornato dalla sua missione, Caterina avrebbe ridato a lui il titolo di castellano e sarebbe finalmente potuta andare dai suoi figli.

 “Sì, faremo come dite.” accettò Rodolfo Gonzaga: “Ma non vi assicuriamo nulla. Le truppe sono irrequiete, perchè hanno cominciato a capire che il saccheggio potrebbe saltare e non è facile far ragionare i soldati...”
 Tommaso Feo alzò le sopracciglia: “Lo comprendo bene. Per questo motivo la mia signora ha anche detto di riferire che incontrerà ella stessa le truppe, non appena le avrete portate nel luogo stabilito.”
 Giovanni Bentivoglio sbuffò. Ma chi si credeva di essere quella donna? Pensava davvero di avere abbastanza ascendente per convincere quel fiume di uomini a rinunciare a una preda tanto facile?
 “Avete qualcosa in contrario?” chiese Tommaso Feo, guardando il bolognese.
 Questi fece spallucce: “Nulla. Faremo come dite. Anche se dubito che la Contessa Sforza riuscirà a mettere in riga i saccomanni e i fuoriusciti che ci hanno seguiti fino a qui. Inoltre – soffiò – la sua famiglia ha interesse a pacificare questa zona in modo definitivo e credo che un saccheggio sarebbe una buona soluzione.”
 “La Contessa Sforza Riario – controbatté Tommaso Feo, marcando bene il secondo cognome – sa bene quello che fa e sa come parlare alle truppe. Deciderà lei come muoversi, una volta che sarete arrivati nei pressi di Ravaldino.”
 “Direi che ci siamo detti tutto.” fece allora il Bergamino, allargando le braccia: “Noi devieremo andando verso Ravaldino, ma lei in cambio dovrà davvero presentarsi al campo. Sono curioso.”
 Tommaso Feo fece un breve cenno col capo: “Bene. Ci rivedremo presto, ora devo tornare alla rocca.”
 Quando il sedicente castellano se ne fu andato, Giovanni Bentivoglio ricominciò a sudare freddo. Già si vedeva davanti agli occhi una donna di venticinque anni in abito da cerimonia che prova a farsi ascoltare da ventimila uomini armati fino ai denti.
 Che avrebbe detto il suo amico Ludovico Sforza, se sua nipote fosse stata fatta a pezzi dalle truppe che lui stesso aveva inviato?
 “Vi vedo molto agitato...” sussurrò il Bergamino, guardando Bentivoglio di sottecchi: “E pensare che eravate entusiasta, all'idea di prendere ordini da quella donna...”

 Ottaviano era molto teso. I suoi fratelli, sua zia e le sue balie erano alle sue spalle, davanti alla rocca di Ravaldino.
 I Marcobelli e gli Orcioli avevano proposto di attendere davanti al palazzo dei Riario, ma per fortuna alla fine i Numai li avevano convinti a portare i figli di Caterina davanti alla rocca.
 Ottaviano ne era stato estremamente sollevato. Stare davanti al palazzo in cui aveva vissuto fino a due settimane addietro era insopportabile per lui. Non poteva evitare di ricorrere con la memoria al momento in cui aveva visto il corpo di suo padre cadere da una di quelle finestre. Solo lui, sua nonna e sua madre avevano guardato. I suoi fratelli non sapevano, non immaginavano cosa volesse dire avere scolpita nella memoria un'immagine di quel tipo.
 Così aveva seguito di buonagrazia i suoi temporanei custodi che l'avevano scortato fino a Ravaldino assieme ai suoi fratelli.
 Stavano aspettando l'arrivo della loro madre, che avrebbe lasciato la rocca a breve per andare loro incontro, dicevano.
 Arrivando alla rocca, avevano incontrato molte donne in lacrime, alcune preda della paura più cieca, che avevano detto loro di come i milanesi stessero per invadere Forlì.
 Tuttavia, non tutti i forlivesi che avevano appena portato in trionfo Ottaviano davano segni di agitazione. Qualcuno aveva lasciato la scena, andando verso la propria casa, altri continuavano a guardarsi attorno, come temendo l'arrivo di qualche misteriosa minaccia. La maggior parte di loro, però, restava ferma nella sua posizione. In effetti, la famiglia della Contessa appena liberata era uno spettacolo abbastanza curioso da tenere moltissimi cittadini ancora radunati davanti alla rocca.
 Ottaviano stringeva i pugni lungo i fianchi. Lo avevano vestito con abiti che gli stavano troppo larghi e aveva caldo, sotto al sole di quell'ultimo giorno di aprile.
 Quando finalmente vide un piccolo drappello a cavallo, allungò il collo per vedere chi ne faceva parte.
 Caterina Sforza, con indosso un abito coloratissimo e nuovissimo, apriva il corteo che stava attraversando il ponte levatoio calato. Era visibilmente senza armi né protezioni. Voleva dimostrare a Forlì che, malgrado tutto quello che era accaduto in quei giorni, si fidava ancora.
 Serughi, che ancora si sentiva la guardia del corpo di Ottaviano, affiancò il bambino per qualche metro, come a consegnarlo alla madre.
 Caterina sentiva il cuore esploderle nel petto. I suoi figli erano tutti lì e con loro Bianca. Era riuscita a riportarli sani e salvi da lei. La tempesta si stava spegnendo, era il momento di ricostruire, era il momento di ricrearsi una vita, migliore e più felice di quella che avevano abbandonato con la forza la notte del 14 aprile.
 Ottaviano la guardava con gli occhi spalancati. Anche da lontano, si vedeva che stava tremando.
 Caterina avrebbe voluto dirgli di non fare così, di mostrarsi più sicuro, meno coinvolto. Tuttavia, sapeva bene anche lei che non sarebbe stata molto convincente. Infatti nemmeno lei riusciva a controllarsi come avrebbe sperato.
 Avrebbe voluto dimostrarsi fredda, distante, ancora trattenuta.
 Era così che si doveva comportare una donna potente. Chi l'avrebbe presa sul serio, se avesse agito come una donna qualunque?
 E invece, appena Ottaviano le fu abbastanza vicino, Caterina cominciò a correre, senza più pensare ad altro.
 Anche il bambino colmò la distanza che li separava correndo, benché avesse giurato a se stesso di non dimostrarsi debole, di non dare a sua madre la soddisfazione di una saluto caloroso.
 Caterina allargò le braccia, permettendo a suo figlio di saltarle al collo e stringerla a sé.
 Incapace di trattenersi, il bambino scoppiò a piangere in modo dirotto, aggrappandosi al vestito della madre e farfugliando qualche parola tra i singhiozzi.
 Anche Caterina aveva ceduto alle lacrime, contravvenendo a ogni suo proposito. Teneva il viso premuto contro il collo di suo figlio, cercando di non dare troppo spettacolo con la sua commozione.
 Ottaviano la stava abbracciando con un trasporto che mai aveva avuto per lei. Le sue difese erano cadute tutte d'un colpo e, Caterina lo sapeva fin troppo bene, di colpo sarebbero tornate. Doveva godersi quel momento di indifeso amore che Ottaviano le stava offrendo, perchè difficilmente avrebbe riprovato ancora una gioia simile.
 Quel figlio che tanto aveva amato e odiato, quel bambino che ora avrebbe dovuto imparare a difendersi da tutti e da tutto, proprio quel suo primogenito era uno dei suoi più grandi tormenti.
 Tommaso Feo stava osservando la scena dall'alto, nascosto dalle merlature. Quella donna lo affascinava, non poteva negarlo, ma la complessità della sua vita, del suo passato e dei sentimenti che doveva provare per i suoi figli, gliela rendevano irraggiungibile.
 Poteva amarla quanto voleva, ma non l'avrebbe mai capita.
 Si può sperare di conquistare qualcuno che non si può comprendere?
 Con un sospiro, mentre Caterina lasciava Ottaviano per riabbracciare gli altri bambini e la sorella, Tommaso lasciò il camminamento e, con parole più aspre del necessario, si affrettò a dare ordini a tutti, per predisporre la prossima cattura dei congiurati ancora in libertà.
 “Sono così felice che stiate tutti bene...” sussurrò Caterina nell'orecchio di sua sorella Bianca.
 Questa la guardò un momento, in modo penetrante, come se stesse cercando qualche verità in particolare, poi si limito a dire: “Grazie per averci salvati tutti.”
 
 “Come prima cosa – disse Caterina, seduta sullo scranno che era stato di suo marito Girolamo e che ora stava nel centro di una sala spoglia – ordino che vengano portati al mio cospetto Guido Bagni e Carlo del Piano di Meleto, Ettore Zampeschi, che hanno osato guidare le truppe di Cesena contro di me. E voglio che venga preso anche Savelli, non mi importa a che prezzo.”
 L'ordine della nuova reggente del nuovo Conte Riario creò un certo gelo nella stanza del Consiglio.
 Tutti si aspettavano la sua vendetta, ma ordinare che anche Monsignor Savelli – un messo papale! – fosse nelle lista di quelli che andavano puniti, fece sudare freddo molti membri del Consiglio degli Anziani.
 “Il Capitano Rubino – proseguì Caterina, inflessibile – giunto a Roma assieme ai cavalieri mandati dal Cardinale Raffaele Sansoni Riario, diventerà seduta stante il nuovo castellano della rocca di Forlimpopoli.”
 A questo nessuno obiettò, nemmeno tacitamente.
 “Infine voglio che vengano arrestati tutti i membri della famiglia Ronchi, della famiglia Pansecchi e anche che vengano rintracciati i due uomini che hanno aiutato Orsi a gettare il cadavere di mio marito Girolamo Riario dalla finestra.”
 Anche per questo punto nessuno trovò qualcosa da ridire. Era nel diritto della reggente del nuovo Conte, cercare vendetta. Anzi, se non l'avesse fatto, sarebbe stata reputata debole e insicura.
 Ottaviano ascoltava le parole di sua madre in silenzio, seduto assieme alla zia e al fratello Cesare, senza potersi pronunciare in alcun modo.
 Era consapevole del fatto che nove anni erano troppo pochi per governare davvero, ma si era aspettato che sua madre lo coinvolgesse di più fin da subito. Anche solo facendolo sedere al suo fianco. Se Forlì l'aveva riconosciuto come nuovo signore, perchè sua madre si comportava come se fosse stata lei a correre la piazza?

 Finita la riunione, Caterina si ricongiunse con la sua famiglia per chiedere come si fossero comportati i tre carcerieri, Denti, Codiferro e Serughi.
 Fu Bianca a dire che, in fondo, non erano stati del tutto ingiusti. Anzi, se non fosse stato per loro, probabilmente gli Orsi avrebbero ucciso sia lei sia i bambini la notte della loro fuga.
 “Adesso dove andremo a vivere?” chiese Cesare, guardando con i suoi grandi occhi le sale del palazzo, così vuote e fredde.
 Caterina vide degli schizzi di sangue in terra e dei segni di ogni tipo sulle pareti. La violenza che quel palazzo aveva visto era inaudita.
 “Ci trasferiamo alla rocca di Ravaldino.” decretò alla fine: “Almeno per i primi tempi.”
 “Non abbiamo nulla, là.” constatò Bianca.
 Caterina si morse il labbro e poi decise: “Farò in modo di riottenere tutte le nostre cose. Nel frattempo chiederemo alla popolazione qualche vestito per noi e per i bambini.”
 Ottaviano, felice di sapere che non sarebbero tornati a vivere a palazzo, almeno per i primi tempi, come diceva sua madre, si rilassò.
 “Va bene...” bisbigliò Bianca, che si sentiva un po' tesa al pensiero di andare a vivere in una rocca piena di soldati.
 “Mia signora...” disse piano Corradino Feo, che si era avvicinato alla Contessa di soppiatto.
 “Ditemi.” fece lei immediatamente.
 “Prima vi siete dimenticata una cosa...” prese a dire l'uomo: “Ecco, bisogna eleggere un nuovo bargello.”
 Bastarono quelle parole per riportare alla mente di Caterina l'immagine del vecchio bargello cittadino fatto a pezzi dai forlivesi. Rivide i suoi capelli prendere fuoco e risentì le sue grida disperate.
 “Oh, certo.” disse, scuotendo piano il capo, per togliersi dalla testa quelle orribili immagini: “Ho già in mente un nome, devo solo assicurarmi la sua disponibilità.”
 “Posso sapere di chi si tratta?” chiese Corradino: “In modo da rassicurare le nostre guardie, che si sentono spaesate, senza una guida precisa.”
 Caterina annuì: “Ho pensato a Matteo da Castelbolognese.”
 Corradino impallidì. Guardava la Contessa come se non credesse a quelle parole. Caterina fu molto soddisfatta da una simile reazione, perché era esattamente quel che cercava.
 “Benissimo.” fece poi l'uomo, con un breve inchino, lasciando la Contessa di nuovo sola con la sua famiglia.
 Caterina aveva pensato di chiamare come nuovo bargello Matteo da Castelbolognese fin dai primi momenti in cui si era resa conto che avrebbe dovuto pensare a un sostituto per il defunto Antonio da Montecchio.
 Quel Matteo era ciò che faceva al caso suo. Lo chiamavano tutti Babone, ed era rinomato per la sua crudeltà e la sua fermezza. Inoltre, dicevano, quando doveva far pagare qualcuno per un torto, lo faceva con una certa fantasia, il che colpiva molto l'immaginario della popolazione.
 Per quanto Caterina non volesse una vendetta come quella di Lorenzo Medici, che si era abbattuta in egual modo sui colpevoli e sugli innocenti, non voleva nemmeno che la cosa finisse solo con un paio di impiccagioni.
 Quando aveva dovuto far giustiziare i Roffi aveva usato una linea classica di azione. Si era dimostrata rigida, ma senza eccessi. La popolazione aveva capito che con lei non si scherzava e l'aveva temuta, ma era bastato poco affinché qualcuno dimenticasse, la sottovalutasse e infine provasse a rimuoverla dal suo scranno.
 Ebbene, era certa che Babone avrebbe saputo come impressionare i forlivesi, instillando in loro non più solo il dubbio, ma proprio la certezza che ogni congiura e ogni ribellione sarebbe stata annegata nel sangue, senza se e senza ma.

 Andrea Orsi sapeva che qualcuno sarebbe arrivato per portarlo via. I suoi figli erano scappati e la legge prevedeva che le loro colpe ricadessero su di lui.
 Avrebbe voluto morire in pace, invece la sorte gli aveva concesso ottantacinque anni di onorata esistenza, per poi costringerlo a vedere la caduta della sua stirpe, pagando in prima persona per le mancanze della sua prole.
 Così, quando sentì dei colpi alla porta, ignorò i suoi nipoti – poco più che lattanti – che avevano preso a piangere e non ascoltò nemmeno le sue nuore, che lo imploravano di non muoversi, di aspettare, di chiedere la grazia.
 Andrea Orsi camminò a passo spedito, cercando di tenere dritta la schiena, sentendosi più che mai l'unico vero rappresentante della sua famiglia, una famiglia che aveva fatto da ago della bilancia per così tanti anni, che aveva apportato così tante migliorie a Forlì, che era stata così amata dai concittadini.
 Arrivato alla porta, la spalancò, esclamando: “Fate quel che dovete, è giusto che io paghi!”
 I soldati della Contessa, appena scossi da tanta fermezza, lo presero subito per le braccia e cominciarono a trascinarlo in strada, mentre i loro compari facevano altrettanto con le mogli e i figli di Checco e Ludovico.
 Appena la casa fu deserta, i forlivesi che avevano seguito l'operazione in un silenzio quasi perfetto, diedero sfogo tutto d'un colpo al loro impeto e si riversarono nella casa mezza distrutta, portando via ogni cosa.
 Solo alcuni di loro si avvidero del fatto che nelle cantine erano stati ammassati gioielli e blocchi d'oro, che gli Orsi avevano trafugato dal Banco dei Pegni degli ebrei.
 Finito il saccheggio, i più volenterosi e quelli che non erano rimasti soddisfatti dalla razzia, cominciarono a buttar giù, pezzo per pezzo, l'intero palazzo.
 
 “Chi... Chi è?” chiese Monsignor Savelli, tenendo le mani strette al petto, sopra al crocifisso.
 “Aprite subito la porta! In nome di Caterina Sforza, signora di Forlì!” rispose una voce secca.
 “Io... Io sono un... Un uomo di chiesa!” provò a dire Savelli: “Sono molto vicino a Sua Santità il papa Innocenzo VIII!”
 “Non ci importa!” ribatté quello che stava alla porta: “Aprite o qui sfondiamo tutto!”
 Il religioso si fece il segno della croce, cominciando a sgranare alternativamente preghiere e bestemmie, preda della paura più cieca.
 “Aprite subito o sfondiamo la porta!” ribadì la voce, con più rabbia.
 Come avevano fatto a trovarlo così in fretta? Come aveva potuto essere lui così stupido e superficiale da non tornarsene subito a Roma o a Cesena, dove sarebbe stato impunibile? Perchè aveva preferito nascondersi a metà strada, credendo così di essere più difficilmente rintracciabile?
 E poi, che diamine c'entrava lui con tutte la storia della morte del Conte Riario?
 Era stato solo un intermediario, dannazione...!
 “Dio, abbi pietà di me...” farfugliò Monsignor Savelli, andando con piede malfermo verso l'uscio.
 Appena girò la chiave nella toppa e scostò la porta di qualche millimetro, gli uomini della Contessa lo afferrarono per le spalle, spintonandolo e dandogli colpi non necessari, fingendo di sedare una sua resistenza.
 “Dovrai vedertela con Babone, caro il mio pretino!” ridacchiò uno degli uomini che l'aveva preso per un braccio: “Vedremo se sarai ancora così un uomo di fede, quando ti caverà gli occhi dalla testa!”

   
 
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