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Autore: Adeia Di Elferas    15/04/2016    4 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 Babone arrivò a Forlì quasi immediatamente, non appena fu chiamato dalla Contessa Riario.
 Aveva ascoltato gli ordini direttamente dalla voce di quella donna e l'aveva subito apprezzata per la sua franchezza e la sua fermezza.
 Appena gli era stato dato il via libera, l'uomo, un grosso energumeno dai capelli lunghi e aggrovigliati, si era subito messo all'opera.
 Tutti quanti lo avevano subito notato, quando si era messo a vagare per la città in cerca delle persona che avrebbe dovuto punire e in molti gli diedero informazioni celeri e precise, temendo di poter venir coinvolti nei supplizi.
 I primi che doveva punire erano quelli che assieme all'Orsi avevano gettato dalla finestra il cadavere del Conte Riario.
 Li trovò con una velocità impressionante.
 Marco Scossacarri, Pagliarino e un certo Pietro Albanese che, a detta di tutti, aveva avuto un gran ruolo in quella scellerata decisione.
 Li portò tutti nelle segrete del palazzo, andando poi a recuperarli uno per volta, per fare le cose per bene. Era stato pagato profumatamente e non era solito scontentare chi apriva le casse per lui.
 Dunque al primo viaggio nelle segrete si avvicinò a Scossacarri e lo afferrò per la camicia, portandolo fuori dalle prigioni. Non camminava, il prigioniero, perchè Babone gli aveva preventivamente spezzato le gambe con una mazza.
 A un certo punto lo prese per i capelli, così come gli era stato raccontato che era stato afferrato il Conte Riario quando aveva cercato di scappare. Lo trascinò su per le scale, fino alla sala delle Ninfe.
 Arrivati alla finestra, sotto cui c'era ancora la chiazza di sangue secco versato la notte del colpo di Stato, gli passò una corda attorno al collo e con un unico poderoso gesto lo fece penzolare oltre al davanzale.
 Lo sentì gorgogliare e quando il corpo smise di muoversi, Babone lo lasciò cadere giù, dove una discreta folla stava accorrendo da ogni angolo per vedere quello che stava accadendo.
 Ai piedi del palazzo, proprio sotto alla finestra incriminata, un piccolo gruppo di sgherri del Babone stava aspettando l'arrivo del cadavere. Appena lo ebbero davanti, lo presero a calci, lo derisero e lo fecero a pezzi.
 Nessuno dei forlivesi, nemmeno quelli che in vita erano stati amici dello Scossacarri, fecero nulla per impedire quello scempio.
 Poi Babone tornò nelle segrete e prese Pagliarino, nipote di Giacomo Ronchi, un uomo bellissimo di ventotto anni.
 Caterina aveva cercato un appiglio per non dover punire Pagliarino. Era amica di sua madre, l'aveva conosciuta durante una delle sue tante passeggiate per Forlì e l'aveva sempre trovata una donna straordinaria. Quando aveva saputo che Pagliarino era tra quelli che avevano scaraventato dalla finestra il defunto Conte, aveva avuto un brivido gelido lungo la schiena.
 Alla fine, per quanto nauseata da una simile scelta, aveva deciso di includere anche lui nella lista degli uomini da giustiziare.
 Solo, aveva pregato a Babone di non fargli troppo male. Che lo punisse come gli altri, ma che prima lo stordisse.
 Così, quando toccò al Pagliarino, il boia prima gli diede un forte colpo alla testa, stramortendolo, poi, quando fu sicuro che il prigioniero fosse incosciente, lo prese a pugni, per rompergli il naso, gli zigomi e l'arcata sopraccigliare. Quel vanitoso aveva tutte le donne di Forlì ai suoi piedi e quindi sfregiarlo era la punizione minima per le sue colpe.
 Dopodiché, anche lui venne trascinato per le scale, impiccato alla finestra e gettato alla soldataglia, che ne fece ancor più scempio che non del primo.
 Infine fu il turno di Pietro Albanese, che penzolò come gli altri dalla finestra per poi cadere dabbasso, dove gli sgherri di Babone lo presero a calci e pugni per poi farlo a brandelli.
 Morti questi tre, a Babone restava solo Andrea Orsi, per concludere le missioni più importanti della giornata. Aveva altre dodici esecuzioni da portare a termine, ma sarebbero state molto più semplici e meno spettacolari.
 Non era bello, secondo il boia di Castelbolognese, ammazzare i vecchi, ma quell'Andrea Orsi doveva morire e doveva farlo con grande rumore, così aveva detto la sua signora.
 Prelevò il vecchio dalla sua cella e non dovette pregarlo in alcun modo per farsi seguire. Sapeva come fare spettacolo, perciò non si fece scrupoli e andò nella piazza centrale, dove si fece portare dai suoi sgherri una tavola di legno.
 Vi legò sopra Andrea Orsi, lasciando che solo la testa restasse libera. Fece portare uno stallone e legò con una corda l'asse di legno alla coda del cavallo.
 Mentre tutto questo catturava l'interesse morboso della folla, Andrea Orsi guardava il suo boia, senza tradire né paura né disperazione. Raramente Babone aveva avuto a che fare con condannati tanto dignitosi, tanto meno quando aveva avuto a che fare con dei vecchi.
 Babone prese la sferza e colpì il cavallo con tutta la sua forza. Lo stallone, una bestia dalla velocità imbattibile, cominciò a girare attorno alla piazza, guidato dalla folla, che si apriva appena prima del suo passaggio, come a segnargli la strada.
 Dopo tre giri esatti, Babone fermò il cavallo senza alcuna fatica e lasciò che tutti vedessero quello che era rimasto di Andrea Orsi.
 Un corpo con un grumo di sangue, carne e polvere al posto della testa. Da qualche vaso zampillava ancora il caldo liquido rosso e tanto bastò a molti per dar di stomaco.
 Babone si disinteressò del cadavere di quell'orgoglioso vecchio, ma fu certo che la sua idea aveva avuto successo.
 Gli Orsi avevano voluto rischiare la sorte. Avevano voluto provare a diventare i signori della città. Ebbene, ora il loro capofamiglia aveva corso i tre giri di piazza. Un contrappasso che pochi avrebbero scordato.

 Antonio Maria Ordelaffi soppesò accuratamente la notizia. La vittoria di Caterina Riario era ormai davanti agli occhi di tutti, su questo non si poteva più discutere.
 Aveva fatto bene, dunque, a restare neutrale, a non schierarsi apertamente dalla parte di quegli stupidi Orsi...
 E pensare che per qualche tempo era stato tentato di aiutarli per poi liquidarli al momento giusto. Per fortuna aveva capito in tempo che quella congiura altro non era che uno sterile tentativo di qualche borioso incapace.
 Tuttavia quegli Orsi lo avevano involontariamente favorito. La Riario – o, meglio, la Sforza – era di nuovo sul mercato.
 Aveva sei figli, vero, ma non era il caso di andare per il sottile. E poi quante cose possono capitare a cinque bambini? La femmina non era nemmeno da calcolare. Bastava darla in moglie a qualche nobilastro pieno di soldi e sarebbe tornata utile. Tutti gli altri, invece, sarebbe stato meglio farli sparire. Un incidente di caccia per uno. Una caduta da cavallo per l'altro. Una strana e improvvisa malattia per il terzo... E per gli ultimi due ci sarebbe stato tempo per pensare a qualcosa.
 Oppure, ancora più pratico, sarebbe bastato spedirne un paio a fare qualche guerra, pregando per il meglio, e gli altri dritti filati a fare il vescovo, o il cardinale.
 Poi, certo, c'era Tommaso Feo. Tutti dicevano che fosse l'amante della Sforza già da tempo... Poco male. A tutti è concesso divertirsi un po'. Però dopo il matrimonio, anche quel bellimbusto avrebbe dovuto far fagotto o togliersi dai piedi in modo anche più definitivo.
 Antonio Maria Ordelaffi sospirò. Doveva sfruttare bene il momento. La Sforza non era una stupida, questo lo aveva capito ed era potenzialmente un problema.
 Però... Se le avesse fatto capire il suo punto di vista, magari un accordo lo si sarebbe trovato.
 Lei voleva Forlì? Bene. La voleva anche lui.
 Lei voleva il potere? Ottimo, un'altra cosa che avevano in comune.
 Con un po' di disponibilità da ambo le parti, avrebbero condiviso il trono e tutti e due avrebbero avuto quel che volevano.
 Infine, avrebbero avuto un erede legittimo e da quel momento in poi le loro vite private sarebbero state separate.
 Sì, era un ottimo piano.
 Così l'Ordelaffi, passandosi tra le dita la lettera che aveva appena finito di rileggere, sospirò sognante, già pensando a come agghindarsi per il primo incontro.
 Si trattava di affari, certo, però se fosse anche scattata una certa attrazione, sarebbe solo stato un valore aggiunto.
 
 Quando lo stalliere portò nel cortile il cavallo da guerra scelto per l'occasione, Caterina si sentì un po' delusa nel vedere che non era lo stesso stalliere che aveva incontrato la sera prima della vittoria contro gli Orsi.
 Non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere chi fosse quel ragazzo a Tommaso Feo, che in quanto a castellano doveva conoscere alla perfezione l'identità di tutti gli uomini che vivevano nella rocca. Temeva di risultare ridicola e inopportuna, anche se in realtà non ci sarebbe stato nulla di strano. Era la padrona di Ravaldino, era suo diritto sapere chi era stipendiato dalle casse dello Stato...
 “Non mi sono sembrati molto amichevoli.” disse Tommaso Feo, mentre aiutava Caterina a montare a cavallo: “State attenta, vi prego.”
 “Sono la nipote dell'uomo che paga il loro salario. Credete davvero che mi farebbero del male?” chiese Caterina, con un mezzo sorriso.
 “Io so solo che basta uno sciocco per combinare una grande confusione.” notò Tommaso, ma era evidente che la sua signora non aveva voglia di sentire i suoi consigli. Sembrava distratta da qualcosa, ma il castellano credeva che il motivo di tanta distrazione fosse l'imminente incontro con i milanesi.
 Era stato preso un accordo con i capi delle truppe sforzesche e l'incontro tra loro e la Contessa Sforza Riario sarebbe avvenuto a Porta Cotogni.
 Caterina ci teneva particolarmente. Voleva prima di tutto mostrarsi una volta di più ai forlivesi, facendo loro capire che la vittoria era palese e che era lei a comandare. Doveva fare in modo che tutti loro capissero che anche l'esercito di Milano e quello di Bologna prendevano ordini da lei e che Forlì non aveva nulla da temere, fino a che lei era la signora della città.
 Aveva dichiarato che sarebbe andata a vivere per qualche tempo alla rocca, lasciando il palazzo a disposizione del Consiglio. Aveva notato che l'unica stanza che non era stata saccheggiata era la sua 'spelonca da strega'. Forse i forlivesi avevano avuto paura e non avevano nemmeno provato a entrarvi. Questa fortunata coincidenza le aveva permesso di rimettere le mani sui suoi strumenti da alchimista e, soprattutto, sul suo blocco di appunti, che chiamava confidenzialmente 'rimedi a far bella'.
 Aveva intenzione di recuperare tutti i suoi averi, o almeno la maggior parte di essi, perciò aveva subito fatto scrivere una serie di proclami da appendere in giro per la città, dove dava un discreto periodo di tempo ai forlivesi affinché restituissero ciò che avevano rubato.
 Casualmente il suo defunto marito aveva permesso che venisse stilato un inventario dei loro beni proprio pochi giorni prima di essere ucciso, dunque sarebbe stato facile controllare i reali ammanchi.
 Chiunque fosse stato trovato in possesso degli oggetti dei Riario scaduto il termine indicato sul proclamo, sarebbe stato punito alla stregua dei congiurati che avevano ucciso il Conte.
 Caterina era più che decisa a farsi vedere inflessibile su tutti questi punti. Che la chiamassero pure tigre, o leonessa, come aveva sentito dire. Ne avrebbe fatto un motivo di orgoglio.
 Così uscì in gran pompa dalla rocca di Ravaldino, nelle cui stanze, intanto, si stavano sistemando i suoi figli e sua sorella.
 Era accompagnata da una fitta schiera di soldati, gli stessi che le erano stati vicini nei giorni della ribellione, quelli che avevano resistito assieme a lei nella rocca di Ravaldino. L'unico assente, ovviamente, era il castellano Tommaso Feo, che non aveva poteva lasciare il suo posto.
 La cittadinanza tutta seguì la cavalcata di Caterina con un misto di reverenziale paura e affetto. I sentimenti si mescolavano come non mai, sotto il sole di quella primavera che stava scivolando nell'estate.
 Il ricordo delle esecuzioni di quel giorno era vivido come non mai, ma la sicurezza che ostentava quella venticinquenne a cavallo era tale da far sentire tutti protetti dalle minacce esterne e interne alla città.
 Non era più solo la vedova vittima degli eventi, né solo la belva feroce capace di abbandonare i figli in nome di una rocca. Era una guida, una roccia a cui aggrapparsi, un comandante che sfidava la tempesta senza il timore di affondare.
 Qualcuno allungava le mani, per sfiorarle il vestito, altri gridavano il suo nome, altri ancora invocavano pietà, forse temendo che la Contessa potesse ordinare ai milanesi di saccheggiare Forlì.
 A Porta Cotogni l'attendevano tutti i comandanti delle truppe milanesi e bolognesi, il Bergamino e Giovanni Bentivoglio in testa a tutti.
 “Diavolo di una donna...” sussurrò il Bergamino, con un sorrisetto intrigato, mentre Caterina avanzava a passo di marcia, attorniata da uomini in armi.
 Giovanni Bentivoglio trattenne per le redini il proprio cavallo, che cominciava a dare segni di impazienza per via dell'attesa.
 Galeazzo Sanseverino si massaggiava lentamente il mento, mentre Rodolfo Gonzaga stringeva i denti, chiedendosi cosa mai avrebbe detto o fatto quella donna per convincere ventimila uomini a ritirarsi in pace.
 Quando Caterina fu a portata d'orecchio dei comandanti, li salutò e attese che tutti loro si presentassero.
 “Mia signora...” fece Giovanni Bentivoglio, con un breve cenno del capo: “Questa città vi teme e vi ammira in egual misura.”
 Caterina guardò il bolognese per un lunghissimo momento, cercando di capire cosa sottintendessero quelle parole.
 “Vi porgiamo le più sentite condoglianze da parte di vostro zio Ludovico – si intromise il Bergamino – sa bene quanto amavate il compianto Conte.”
 A Caterina non sfuggì il luccichio ironico degli occhi di quell'uomo.
 “Dobbiamo discutere di questioni importanti.” disse la Contessa, dando una piccola carezza al collo del suo cavallo: “Prima, però, vorrei poter incontrare di persona la truppa.”
 Sanseverino e Bentivoglio si lanciarono un'occhiata allarmata. Il Bergamino trattenne a stento una risata, mentre Rodolfo Gonzaga provò a far ragionare la donna.
 “Vi consiglio di attendere almeno qualche giorno... Gli animi sono troppo agitati – spiegò – per poter sperare di far ragionare quella gentaglia... Si aspettavano un bottino di guerra, voi volete negare a loro questo diritto. Non la prenderanno bene.”
 “Conosco l'animo dei soldati, so come prenderli.” ribatté secca Caterina.
 “Forse dovreste ascoltare il nostro amico.” tentò Giovanni Bentivoglio: “Non possiamo sapere come reagiranno nel vedervi, se dovesse accadere qualcosa...”
 “Sentite – fece Caterina, zittendo Bentivoglio e alzando la voce tanto che i forlivesi che erano lì vicini cominciarono finalmente a sentire cosa si stava dicendo a pochi metri da loro – vi ripeto che so che argomenti usare. Inoltre immagino che parte dei soldati che portate con voi siano di Milano. Potrei conoscerne alcuni e altri potrei averli incontrati durante il mio ultimo soggiorno nella mia città natale. Non ho intenzione di sottostare a un vostro divieto, imposto per eccesso di prudenza. Questa è la mia città, io sono padrona in questo territorio e dunque farò quello che desidero, senza dover dare ascolto a voi.”
 Giovanni Bentivoglio si risentì del tono usato dalla Contessa, perciò quando parlò lo fece con la voce più acuta del solito: “Se è quello che volete...”
 “È quello che vuole ed è quello che farà...” ridacchiò il Bergamino, facendo di nascosto l'occhiolino a Caterina.

   
 
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