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Autore: Hamlet Moriarty    19/04/2016    4 recensioni
{Warning: Destiel!AU}
Da quando Castiel è morto e la sua eterea presenza è stata rimpiazzata da innumerevoli e noiosi gesti di quotidianità, la vita di Dean Winchester ha assunto un'andatura piatta e monocroma. Le sbavature, le pennellate, gli oli, gli acquerelli dell'infanzia sono deceduti con il suo amico, con suo padre e con la sua innocenza.
Sembra tutto irreparabilmente inerte fin quando, un giorno, il fratello Sam non gli fa conoscere James Novak, un giovane e promettente violinista con un passato da pittore, nascosto dietro ad un nome falso e decisamente troppo familiare perchè Dean non possa ricordare qualcosa a cui pensava di aver voltato le spalle tanti anni prima.
– … Ma forse la follia di un uomo che è esistito nel passato non è destinata a diventare la saggezza di qualcuno dell'ermetico divenire, perché si può esser saggi e fingere follia mentre il contrario suona fin troppo ossimorico e divertente. –
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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NON SONO MORTO *schiva i pomodori e OH è una crostata quella?*

so che mi detestate perché sono sparito due mesi (circa. Forse di più. Meglio se non conto.) e che i pomodori me li sono meritati fino all'ultimo, ma hey. Sono tornato. Siete anime pie tanto buone (e spero ci sia anche qualche centurione romano lì oltre a tutte le ragazze che hanno atteso – vi scongiuro, capiate la Whovian Quote, mi sento solo al mondo) e gentili e questo capitolo potrebbe essere una gran pizza perché è particolarmente lungo (per i miei standard) e il POV è cambiato completamente. In questa trilogia, ci tengo a precisare, ogni capitolo ha un Pov diverso, quindi… surprise!!

vi voglio molto bene. Anche se sono più in ritardo di Trenitalia (eccenevole) e se potrebbe essere tutto troppo messy, vi voglio bene comunque.

*si inchina*

adios.

 

 

 

Capitolo 2:

We've waited so damn long, we're sick and tired.

 

I won't leave any doubt or stone unturned.

 

I've got a collar full of chemistry from your company

 

so maybe tonight I'll be libertine”

 

Collar full – Panic! At The Disco

 

 

 

Se qualcuno, dieci anni prima, gli avesse detto che sarebbe finito a fare lo scrittore, molto probabilmente Dean l'avrebbe spedito dritto da un neurologo.

Perché sul serio, Dean ha avuto qualche aspirazione nel cassetto (dal fare la rockstar al meccanico nell'officina di Bobby c'erano due o tre galassie di differenza, ma una valeva l'altra, all'epoca) che nel corso degli anni ha cercato di dotare di ali perché potessero prendere il volo. Ma si sa, a volte succede che resti a secco di colori ad olio e devi accontentarti di usare gli acquerelli, e nonostante il risultato sia annacquato e l'effetto diverso da quello che ci si aspettava, finisce per diventare piacevole.

La sua propensione alla scrittura ha raggiunto notorietà solo alle superiori, quando lettere e produzione creativa erano state le uniche materie in cui fosse riuscito a farsi valere senza alcuno sforzo. Perché, neanche a dirlo, Dean Winchester, bello e dannato, sogno erotico della popolazione femminile e gay del liceo, con i suoi occhi verdi, la giacca di pelle, l'aria tenebrosa e il sarcasmo tagliente che fa sospirare persino qualche professoressa, è stato un'irrecuperabile brocco in qualsiasi materia richiedesse capacità logica fine a sé stessa.

Ha rischiato seriamente la bocciatura in più di un anno, ma il concorso letterario della scuola gli ha sempre alzato esponenzialmente la media trascinando letteralmente le sue gloriose chiappe fuori dal girone dell'inferno riservato ai ripetenti.

Sebbene fosse stato sicuro che una cosa del genere gli avrebbe fatto perdere popolarità, ha scoperto che questo suo talento avrebbe avuto anche notevoli vantaggi. Strafigo e dannato e pure sensibile e con un animo poetico, ricco di profondità retorica? Qui si arriva a livelli magistrali.

 

Ora.

Non che passi tutto il santo giorno a scrivere.

Okay, magari sì. Ma solo perché Chuck l'Editore un Tantino Fumato (non è stato Dean ad appioppargli questo soprannome, ovvio che no) gli ha dato una scadenza che, come tutte le sacrosante scadenze che si rispettino sta per scadere e lui non ha ancora tirato fuori uno straccio di idea.

In effetti, girare per il suo appartamento in vestaglia e pantaloncini indossando ciabatte di pelo a forma di orso polare e alternando tazze da un litro di tè a whiskey e hamburger a tre piani attendendo che il criceto nella sua testa riprenda a correre sulla sua ruota non è esattamente la cosa più edificante che possa fare.

Per dirla tutta, sta affrontando il famoso blocco dello scrittore.

E la cosa non è affatto piacevole.

Dean Winchester è un osso duro, mica solamente un bel faccino. Galante con le signore ed affascinante con pubblico e critica, se si tratta di affrontare questo genere di problema è il tipo che prende il toro per le corna e lo rispedisce dritto di filato da dove se n'è uscito.

Oggi è diverso.

Oggi la sola idea di mettere mano alla penna, o alla tastiera, gli fa annodare le budella, perché sa perfettamente che se anche riuscisse a mettersi fermo dieci dannati minuti, non saprebbe sputar giù mezza parola messa in croce.

Ha già defenestrato l'ennesimo foglio nudo accartocciato su sé stesso. Il piccolo rettangolo d'erba fuori dalla finestra ne è disseminato: cadaveri di carta raggomitolati su sé stessi pieni di rabbia impressa con inchiostro trasparente.

Dean decide che è ora di fare tabula rasa. Se non riesce a scrivere vuol dire che non è il momento giusto per farlo. Deve calmarsi e trovare una qualche distrazione che possa cancellare dalla sua mente il nuovo libro e piazzargli qualcosa di decente su cui rimuginare che lo tenga occupato le ore necessarie a distendersi i nervi.

Si rigira alcuni istanti fra le mani, guardandoli scorrere come se la soluzione dovesse apparire scritta nell'aria.

Cas.

Cassie.

Dean semplicemente odia usare le perone, ed odia esserne consapevole (in realtà Dean odia semplicemente sé stesso per un innumerabile somma di motivi), ma indora la pillola pensando che non è nemmeno colpa sua se la ragazza è svelta ad aprire le gambe quando si presenta l'occasione.

E Cassie è particolarmente brava a distrarlo.

 

 

Specie perché non fa mai troppe domande. Si fa maneggiare come argilla fra le sue dita, muovendosi sensuale e piegandosi e modellandosi. Si lascia scolpire come un'opera d'arte e ha una figura longilinea semplicemente… beh.

Dean ama le cose pittoresche. Non può farci nulla. Non è un artista, non è capace di disegnare nemmeno un omino stilizzato, ma quando si tratta dell'arte altrui, specie le persone, allora è un'altra storia, perché sa come diventare un maestro.

Come con Cassie, appunto.

Non è come la scrittura.

Per quanta libertà si abbia, c'è sempre quel canone che devi rispettare, altrimenti sei fuori contratto e a volte ci devi pensare per nottate intere prima di trovare un escamotage che ti salvi la carriera.

Non ci si blocca, con Cassie.

Il sesso è quella forma armonica ed espressiva che non necessita d'altro che istinto, e per quanto la monotonia si stia infilando anche in quell'anfratto della sua vita, cerca di godersela finché può.

 

 

Come tutto.

Ascolta sempre la solita cassetta degli AC/DC, ha masticato talmente tante volte quelle parole nella solitudine della sua Baby che ormai hanno completamente perso ogni traccia di sapore. È come ruminare centinaia e centinaia di volte lo stesso boccone senza riuscire a deglutirlo perché beh, Bon Scott e Brian Johnson hanno fatto parte della sua vita e si sentirebbe in colpa.

Sente che gli manca qualcosa ma non sa di preciso cosa.

Torna da Cassie.

 

In un paio di smadonnati falsi allarme, la sua mente gli ha giocato il brutto scherzo di aver trovato qualcosa da srotolare e districare in parole sulla carta, ma che il cielo lo aiuti, ha quasi lanciato il computer dall'altra parte della stanza. La sua mente non è del tutto collaborativa e neppure Cassie lo intorpidisce abbastanza a lungo da dimenticarsi che la Cartella Senza Nome è tutt'ora Senza Argomento e Speranze di Decollo.

 

Sì, va bene, suona davvero deprimente. È vero che la vita di Dean Winchester, a sei mesi da un'importante scadenza (la stracazzo di Scadenza con la S maiuscola e tanto di sibilanti e stupide allitterazioni, aggiungerebbe) sta facendo giusto un pochettino schifo, ma qualcosa gli va bene. Per forza.

Sammy si sta laureando in legge e grazie a Dio avrà un avvocato gratis (forse?) per il resto della sua esistenza. Non è un sentimentale, ma non negherebbe nemmeno sotto tortura di essere estremamente orgoglioso di quell'alce e così sempre sarebbe stato, nel bene e nel male.

E poi c'è Charlie, con la quale non parla da almeno due giorni perché l'uccello del malaugurio gli ha spoilerato letteralmente tutta la nona stagione di Doctor Who ( – Ma Dean, volevo sincerarmi che fossi completamente andato! Insomma, con tutte le birre che avevi fatto fuori… – ) e suvvia, mica può passarla liscia.

Ha una bella casa, dopotutto, non è completamente in bancarotta (non ancora), e nonostante quello che successe a mamma tanti anni prima continui a tormentargli il sonno, il suo vuoto è avvolto da una piccola coltre di felicità. È solo uno strato sottile che si sta staccando come intonaco, ma per ora gli basta, perdiana.

 

 

E poi arriva James.

E per certi versi va tutto a puttane. Ma è solo un eufemismo.

 

 

 

Sam è seduto accanto a lui, la Roadhouse non è mai stata così piena e, che la sua buona stella sia con lui, Benny e Charlie faranno meglio a muovere le chiappe, perché in due non possono occupare un tavolo da sei e finiranno per essere buttati fuori nel nubifragio che si sta abbattendo con violenza sulle finestre.

La scena deve essere alquanto comica perché insomma, sono uno scrittore di fama incrementare ed un quasi-avvocato che sta per prendere la laurea con un anno e mezzo d'anticipo, quest'ultimo un gigante di un metro e novantasei con l'aspetto meno minaccioso del pianeta in preda a quella che si direbbe una scarica di adrenalina.

– E' davvero un genio, dovresti sentirlo comporre o anche solo parlare… – e così via da almeno una settimana, straparlando di questo tipo che ha incontrato all'università (in realtà gli ha rovesciato addosso un caffè cinque minuti prima di un esame, ma dettagli) che si chiama con un nome che è inglese e a Dean non frega davvero tanto. Se gli serve a distrarsi dal blocco potrebbe pure farselo ma andiamo, non è qui per deludere le aspettative del fratellino. Gli volge una breve occhiata da sopra il bordo della pinta di birra, abbassandola poi sul tavolo. Lecca la schiuma via dalle labbra.

Ha questo sguardo enorme negli occhi, il che lo intenerisce sempre perché gli occhi di Sam non sono particolarmente grandi (nella media, sì), ma quando è felice o emozionato sembrano dilatarsi all'infinito e beh. Lo intenerisce, già.

– Mi ha detto che ha avuto le prove tutt'oggi e ci ha invitati al saggio del venitsei. – Giusto, ecco, perché questo tizio suona…? Il piano? No, forse era il clavicembalo o una roba simile; Dean è esperto di parole, artifici retorici, cose che esistono solo nella sua mente, donne, auto, ma non è affatto esperto di musica classica. Quindi si lascia scorrere addosso il dubbio liquidandolo con l'inesperienza di chi se li fa andare per buoni tutti, gli strumenti classici, e al diavolo.

È in un brutto periodo e si è lasciato convincere a conoscere gente nuova, quando di nuovo gli serve solo una stramaledettissima idea.

– Intendi chiedergli di sposarlo, entro la fine della serata? – interrompe la fiumana di parole che sgorgano dalla bocca del fratello, che lo fissa stranito. – In realtà, speravo diventasse amico tuo. È un tipo un po' timido.

– E spaventosamente in ritardo. – aggiunge Dean, scolando in un sorso l'ultimo goccio di birra nel boccale. Fissa il fondo di vetro con aria distratta, sperando che in una qualche sorta di improvvisata divinazione i rimasugli di schiuma formino una parola o un indizio che gli sparino in testa la storia del secolo e gli diano una scusa per svignarsela da lì al più presto.

Non che non abbia voglia di vedere i suoi amici. Ha solo voglia di perdere la cognizione di sé e dimenticarsi che ha sei mesi soltanto per scrivere un intero libro, ovvio dopo essersi liberato da uno stallo che va avanti da più di un anno.

– Non essere impaziente. – lo rimbecca subito Sam, picchiando il piede a terra.

– Senti, questo tizio ha una mente spettacolare, e penso che fare quattro chiacchere con lui potrebbe aiutarti a stendere i nervi e… –

– E cosa? Rimettermi in carreggiata?

L'entusiasmo del fratello pare afflosciarsi. Assume un'aria colpevole, incrociando le braccia sul petto ampio e distogliendo lo sguardo.

– Voglio solo aiutarti. – si giustifica, lanciando brevi occhiate alla porta.

Dean si passa una mano sul viso, troppo stanco per obbiettare. A questo punto una bella botta in testa gli farebbe davvero comodo.

Dopo qualche secondo di assente riflessione si riscuote leggermente. Fa vagare lo sguardo attorno a sé alla ricerca della santa salvezza di Ellen (che dovrà vedersi tirar fuori più di un asso della manica del giovane per acconsentirgli a rifilargli un'altra birra), sospira e dice: – Non lo metto in dubbio, fratellino, ma forse da questa situazione devo uscirci da solo. Non ti devi preoccupare, vedrai che non è nulla. Pensa te se Dean Winchester deve mettersi a fare la cinquantenne complessata nel bel mezzo della sua carriera. – e sminuisce con una sonora risata che quasi convince anche Sam.

Un Sam che lo conosce troppo bene per poter essere intortato con tanto di meringa e ciliegine, ma sa anche riconoscere quando il maggiore ha meno possibilità di essere predisposto a qualunque apertura di tipo psicologico e lascia che indossi la sua solita maschera da “ho tutto sotto controllo”.

 

 

Dean sente il trillo della porta, con la coda dell'occhio vede suo fratello raddrizzare la schiena e voltarsi nella direzione dell'ingresso, in faccia stampato un sorriso impaziente e bambinesco. E, come nei ventidue anni precedenti, non può non essere intenerito da quello spilungone esaltato con gli occhi da cucciolo ed i capelli tutti spettinati.

Si stringe le tempie fra le mani, riempiendosi i polmoni d'aria pronto per architettare una serie di inverosimili scuse pur di tagliare la corda.

Si rende spiacevolmente conto che, alla inerte e secca noia che lo sta avvolgendo da mesi nella sua rete impolverata, si è aggiunta quell'impercettibile tendenza a scostarsi dalle altre persone, a non volerne conoscere di nuove e la predisposizione a non volerne vedere di vecchia data. Il guaio è che Dean ha solo ventisei anni e non cinquanta, queste cose da crisi di mezza età sono un chiaro segno che dovrebbe cambiare ritmo di vita.

Scuote la testa e sbuffa sottovoce, sfoderando immediatamente il suo miglior sorriso.

Benny e Charlie si fanno strada fra i tavoli seguiti dall'uomo misterioso, che per quanto si sforzi di vederlo finisce sempre nascosto ora da un vassoio vagante, ora da un vecchietto che si fionda in ricognizione alla toilette, ora dalla testa bionda di Jo che come al solito se ne va in giro ondeggiante a sparare sentenze.

Non che sia veramente curioso di vederlo e parlarci, ma ormai non si parla d'altro e okay, va bene, un pochettino curioso lo è.

– Salve, puttanelle. – Asserisce Charlie, scivolando sulla sedia accanto a Dean e scontrando il pugno con il suo. Benny solleva una mano e sfila il berretto, gettandolo sul tavolo. – Fuori fa un freddo assurdo, se Charlie avesse tardato un altro minuto sarei morto assiderato. – Brontola, lanciando alla ragazza uno sguardo di fuoco. Questa dondola la testa rossa e fa per ordinare un drink, sogghignando leggermente allo sdegno dell'amico.

– Ti avrei riportato indietro dall'Ade con queste mani vecchio mio, da solo il compare di Chuck non posso proprio soffrirlo. – Ribatte Dean, dandogli il cinque.

– Crowley? Lo scozzese con la puzza sotto al naso?

– Proprio quello. Lo stesso tizio impossibile che mi corregge i congiuntivi. – si lagna Dean, mentre Charlie rotea gli occhi. – Forse se tu i congiuntivi non li sbagliassi

Dean le da una spintarella, ma le sorride subito dopo con infinita dolcezza. – Che razza di beta saresti se non mi aiutassi a fare bene il mio lavoro? Non ti ho ancora perdonata per gli spoiler.

Charlie ridacchia ancora e per qualche secondo di sfrenata conversazione Dean si dimentica del motivo per cui è lì.

L'esclamazione del fratello al suo fianco destro lo fa sobbalzare.

– Quasi ci dimenticavamo le presentazioni! – Perchè il tizio, chi per tu, è rimasto impalato a qualche passo dal tavolo, completamente immobile come se per quei brevi minuti avesse dimenticato come si fa ad esistere. E li fissa in un silenzio attonito.

La ragazza prende il drink dalla cameriera, senza risparmiarsi di strizzarle maliziosamente l'occhio. – Sono d'accordo, siamo qui per questo! Sarebbe davvero ora che la nostra noiosa vecchietta esca dalla caverna e si faccia qualche amico, perché dal blocco stai davvero diventando intrattabile, Dean.

– A chi hai dato della vecchietta, babbana?! – replica subito lui, fingendosi profondamente offeso per la rettifica dell'amica.

In ogni caso. – Sam si alza e con una mano sulla sua spalla dello sconosciuto lo incoraggia ad avvicinarsi. – Dean, ti presento James Novak. James, lui è mio fratello, lo scrittore.

Si aspetta davvero qualsiasi cosa, si sente pronto ad ogni evenienza e piega che le cose possono prendere perché non si è scolato una birra per nulla e sa che con un po' di ironia e carisma potrebbe anche cambiare idea sull'esito della serata.

Ma ciò che ha davanti è qualcosa di talmente impossibile che mai in tutte le eventualità che il destino infame, l'universo, Dio o chi per tu gli avesse rifilato sarebbe stato in grado di prepararsi psicologicamente.

Castiel è in piedi di fronte a lui, rigido ed impacciato come lo è sempre stato, in tutto il suo metro e ottanta di anatomica tangibilità.

Dean si sente così male che è costretto a circondarsi lo stomaco con un braccio. Deve avere gli occhi sbarrati e un'espressione spiazzata o inorridita, perché anche Sam sembra improvvisamente preoccupato.

Riconosce pennellate che non si vedono più, riconosce mani e capelli che ha inventato lui, così tanti anni prima che non ricordava nemmeno di averlo fatto.

Ogni secondo che passa si sente peggio.

Il ragazzo che gli sta davanti lo fissa come generalmente una persona normale fissa una buca delle lettere sul ciglio della strada e ciò è come venire legati da corde che si stringono progressivamente bruciandogli la pelle, perché Castiel non lo guarderebbe mai così.

E se questo basterebbe a convincerlo che questa persona non è Cas ma un impostore, dall'altra parte è decisamente la copia sputata perché ha sempre quel colore pallido e denso di pelle e i capelli sparati in ogni direzione del creato scuri come pece e ha la stessa cravatta blu contro cui ha pianto innumerevoli volte. Ed è così arrabbiato e spaventato e ricorda così bene ogni momento dalla sua infanzia alla depressione all'istante in cui la sua figura si è dissolta completamente nell'aria che vorrebbe usarla per strangolarlo o tornare a piangerci sopra.

Dean è certo di non essersi mai sentito così e sa che non dovrebbe, ma è inevitabile.

– Castiel. – con tutte le cose che poteva dire, proprio quella; e se non andavano benissimo le cose prima, ora la situazione collassa letteralmente a livelli irrecuperabili. Il ragazzo sbianca e poi diventa quasi verde e per un terribile momento Dean ha la sensazione che potrebbe vomitare prima ancora che possa farlo lui.

Miracolosamente, James Novak sembra trattenersi. Riprende un cipiglio rigido e composto, gli occhi gelidi dal taglio geometrico e severo si stringono in linee sottili fra le sopracciglia e gli zigomi eleganti. Dean ne ha quasi paura, sente le ossa tremare. Castiel non gli ha mai fatto paura, questo è certo.

 

(In realtà, la volta che hanno giocato a nascondino, Cas era andato a finire dentro il garage e, visto che la porta non era come quella dell'aula di scuola, non aveva potuto attraversarla e ci aveva passato un'intera giornata, chiuso in quelle mura buie. Lì Dean aveva davvero preso paura)

 

– Chiedo scusa, ci conosciamo?

Sam si scuote improvvisamente sulla sua sedia. La nausea di Dean incrementa esponenzialmente ribaltandogli lo stomaco, il cuore minaccia di sfondargli le costole. Può sentire il proprio sangue rombargli nelle orecchie come una marea di pensieri confusi e ricordi che credeva di aver rimosso.

– Hai detto di aver letto un suo libro, no? – Diamine, Sammy, i tuoi tentativi di trasformare la serata in un evento sociale sono quasi tanto patetici quanto la mia gaffe. Bloccato di fronte ala copia del suo amico immaginario di quando era piccolo.

La cosa è talmente surreale che stenta a crederci, ma la parte più meschina di lui vorrebbe scoppiare a piangere e tempestarlo di pugni come una squinternata tredicenne.

– Sì, è così. Ho posto questa domanda perché non ho mai detto a nessuno il mio secondo nome. Non ce l'ho nemmeno sul passaporto nuovo, e ho pensato fosse un amico di vecchia data, anche se lo rammenterei. –

– Io non l''ho mai vista. – mente spudoratamente Dean, finalmente capace di mettere in fila qualche parola di senso compiuto.

Okay, forse c'è ancora qualcosa di salvabile.

– Hai davvero letto i miei libri?

Annuisce, inclina appena la testa di lato. – Allegorie di Keith Fell.

Che per fortuna, manco ad averne, è l'ultimo che ha scritto e quello che ricorda meglio e magari può avventurarsi in una conversazione approssimativamente normale e tornarsene a casa snocciolando un paio di scuse in nemmeno un quarto d'ora.

– Commenti al riguardo?

– Non mi è piaciuto.

Come non detto. Dean sa accogliere le critiche. Davvero. Solo, in quel momento una recensione positiva avrebbe davvero o fatto la differenza fra la morte della sua dignità ed una minima speranza di arrivare vivo alla mattina seguente.

– L'ho trovato egocentrico. Troppo soggettivato.

La tempesta nelle budella del Winchester, forse grazie ad un intervento divino, comincia a passare.

Tutti gli occhi sono puntati su di loro. Quelli di James Novak sono ancora sul suo viso e quelli di Dean, sconcertati e sgranati all'inverosimile, non sanno bene dove guardare.

Ovunque li sposti, la realtà viene rimpiazzata dalle trame fitte di una tela cosparsa d'oli e le linee nette di James vengono assorbite nelle sfumature liquide e non ancora asciutte, sbiadite e rovinate come quelle di un quadro antico che venga restaurato.

– Spiegati meglio.

– Forse il signor Fell aveva bisogno di esprimere opinioni che non coincidevano precisamente con quelle di chi l'ha creato. La sua visione delle cose, del mondo in cui la sua storia viene fatta muovere corrispondo troppo ad una versione romanzata della sua visione delle cose. Magari è per questo che è in blocco. Ha messo troppo di sé stesso in quelle pagine.

Dean non riesce a capire se la sua è solo inettitudine sociale mista ad apatia o vera e propria arroganza. Decide di non aver voglia di litigare.

Sta per replicare che qualsiasi cosa Sam abbia raccontato le cose vanno a gonfie vele e che apprezza le sue critiche, ma il giovane si fa improvvisamente avanti e non solo ogni piccolo frammento di realtà che lo compone diventa nitido e i colori si asciugano finalmente, ma scorge anche la custodia di velluto per violino che ha in mano, tutta macchiata di vernici e tempere e sembrerebbe quasi un'opera di Jackson Pollock se l'impronta fanciullesca color rosa pallido sulla superficie non provocasse a Dean un vero e proprio conato.

Schizza in piedi, gli occhi che bruciano, un misto di tristezza, rabbia, nostalgia e fanculo il destino che gli corrode i polmoni, afferra la giacca e si precipita fuori.

Non fa nemmeno caso agli sguardi intontiti e sorpresi degli amici, ha solo bisogno di cancellare James Castiel Novak dalla sua vita e non rivederlo mai più.

 

 

 

Un mese dopo le cose vanno peggio.

E non perché l'incontro di James Castiel Novak ha in qualche modo influito sulla sua esistenza, in generale, ma perché quello che è solo un barlume di patetica fantasia si presenta come una lucciola da inseguire in un bosco buio e Crowley e Chuck gli stanno addosso più che mai.

Il lato positivo è che sembrano voler fare un adattamento teatrale delle Allegorie di Keith Fell e magari uno stimolo di questo tipo potrebbe finalmente incentivarlo a riprendere le sue lunghe ore di stesura come ai vecchi tempi (nemmeno troppo vecchi perché risalgono a un anno prima, ma comunque).

In realtà Dean ha fatto decisamente in fretta a dimenticarsi della controfigura del suo amico immaginario e pure della serata in sé, quindi le cose vanno peggio solo in brevi momenti. Se si ritrovasse in un inferno a trecentosessanta gradi potrebbe morirne.

 

 

I teatri vuoti e bui sono un bel posto per pensare, e da quando le Allegorie sono ufficialmente riadattate ad opera da palcoscenico (cosa di cui è più orgoglioso di quanto voglia ammettere) e il signor Marv è alla disperata ricerca di cast, musicisti, costumi e qualcuno che gli scriva un copione degno del nome, può frequentare assiduamente quello della città dove vive.

Visto che ha le chiavi della porta posteriore (il proprietario deve davvero averlo visto come Un Tizio Degno di Fiducia, o forse Crowley l'ha pagato) può entrare ed uscire a suo piacimento.

Quindi ha cominciato a farsi vedere quando il sipario è chiuso, i posti nelle platee sono raggomitolati e dormienti, le luci spente e nessuno gli rompe le palle. Non potrebbe andargli meglio di così, perché la sua concentrazione aumenta notevolmente e il silenzio tetro e denso è un toccasana per la sua mente ingombrata.

Dean ha sempre avuto una particolare passione per il teatro. Forse la sua modalità d'espressione, la forza comunicativa, l'impatto diretto sullo spettatore, e quegli attimi in cui quasi può sentire echi ed esclamazioni di spettacoli visti anni addietro.

Ha una certa affinità con l'ambiente, sebbene non abbia mai desiderato fare l'attore.

Dean vuole fare lo scrittore, e se è vero che ha trovato qualcosa da mettere su carta allora magari (magari) le cose potrebbero andare meglio.

 

 

Se pensava di poterlo evitare a vita, nonostante si fosse dimenticato della sua esistenza, si sbagliava di grosso.

Entra nel teatro e non è solo, lo capisce perché sotto le pesanti tende porpora, chiuse, dove di solito si appostano le Maschere, si infila una debole luce aranciata e sente qualcosa provenire da dentro.

Aveva immaginato che sapesse suonare il violino, e Sam ne aveva certamente fatto cenno ma non l'aveva ascoltato, non aveva nemmeno cercato di immaginarselo.

 

 

Dean sa di odiare tante cose e di amarne poche altre.

La seconda lista si allunga un pochettino quando si ricorda di amare colori ad olio che non ha mai imparato ad usare e di amare anche James Castiel Novak che suona il violino.

 

 

Ogni giorno, Dean continua ad intrufolarsi nel teatro dalla porta posteriore, sperando di trovarvi la pace di cui ha bisogno per scrivere.

James Castiel Novak sa che è lì in fondo alla platea che un po' lo ascolta, un po' lo guarda, un po' lo pensa e un po' ne è spaventato e intanto riempe fogli di parole. Continua a suonare perché Dean Winchester gli fa paura e lo rilassa e lo ascolta senza ricordargli che tiene il gomito troppo teso.

Nicola Cosimi non è mai stato così facile da suonare.

 

 

Inaspettatamente, gli parla. Passano circa tre settimane dalla prima volta che condividono il teatro vuoto come fosse un rifugio dal caotico mondo che rotea fuori da quelle mura ampie e smussate, e James Castiel Novak, sdraiato al centro del palco, il violino posato sul ventre e le dita che pizzicano le corde, circondato di fogli, pentagrammi, note, legature e sospiri, si alza improvvisamente e a passo incerto scende.

Dean se ne accorge non appena capisce che quella che dovrebbe essere una pausa da tre quarti si prolunga in un silenzio gravoso.

Solleva lo sguardo dal suo quaderno. James Castiel gli è ormai praticamente davanti.

– Ciao Dean.

Ha il violino stretto in una mano, come se la sua compagnia gli desse sicurezza. È dritto impalato come la prima volta che si sono visti.

– Castiel. – ribatte, sottovoce.

– Preferirei che non mi chiamassi così. E vorrei anche che mi dicessi come fai a sapere il mio secondo nome, visto che lo usava solamente mia mamma.

Okay. È uno che va dritto al sodo. Due mesi e mezzo che stanno nello stesso teatro a comporre e non ha mai immaginato che potesse colpirlo come uno schiaffo con un tono così monocorde.

– Te lo dirò, come faccio a saperlo. Non oggi, non voglio parlarne.

– Continuo a preferire che tu mi chiami James.

– Che cosa vuoi, di preciso, Castiel? – replica acido, poco invogliato a parlare.

Il taglio severo dei suoi occhi si ammorbidisce leggermente, spalancandosi in genuina curiosità. Dean credeva che si sarebbe arrabbiato.

– Chiederti se puoi cambiarmi venti dollari.

Dean è deluso, non può negarselo nemmeno provandoci. Sperava, in un angolino remoto del suo infame subconscio, che potesse davvero avviare una conversazione con questo tipo così strano che lo colma di nostalgia fino a fargli quasi male e magari liberarsi da quell'incudine che gli spezza il respiro ogni volta che lo vede.

Si risveglia da una breve trance e fruga nelle tasche, versandosi nella mano un paio di banconote e qualche moneta.

Gliele porge senza guardarlo, ma sente i suoi occhi sulla sua testa china.

– Siamo qui da ore. Ti va un caffè?

Non esultare, Winchester. Che tu sia dannato se ti azzardi.

 

 

Ora vanno anche a prendere il caffè insieme e James Castiel non gli fa quasi più paura.

La prima volta è imbarazzante. Le sue occhiate penetranti, dense di domande continuano a gelarlo sul posto senza che possa trovarne una ragione e più cerca di capire dove sia l'appiglio che lega questo Castiel inscindibilmente alla realtà nascondendone le pennellate che rendeva l'amico immaginario così familiare e rassicurante, più forte la testa pulsa.

Ordina un caffè perché James Castiel non proferisce parola e la cameriera porterà come minimo una quinta abbondante e distraiti, o potresti vomitare.

Poi, improvvisamente, un'illuminazione lo aggredisce con la forza di un treno in corsa.

Sta sorseggiando con scarsa convinzione, sbirciando il ragazzo dal bordo della tazza, e la finestra alle sue spalle rovescia dentro una luce tenue sporcata da nuvole plumbee, ma forte abbastanza da sottolineare i suoi contorni.

Sono i suoi occhi.

Con un tuffo sordo al cuore, realizza che da bambino non aveva mai immaginato un colore specifico per gli occhi di Castiel, perché era come se cambiassero in continuazione e non necessitassero di nulla di troppo definibile come un singolo colore.

Gli occhi di questo Castiel, invece, nell'ombra sono di un blu tempestoso, così fermo che non sembra possibile che abbia sfumature di alcun tipo.

È troppo reale.

Troppo vero e tangibile, se volesse abbracciarlo non dovrebbe impegnarsi per sentirlo e se volesse essere salvato da qualcosa che non esiste non potrebbe contare su di lui.

A sua volta, Castiel lo sta fissando incuriosito e il cuore di Dean sprofonda di nuovo.

Quell'improvvisa e disarmante realizzazione congela ogni suo senso della discrezione e lo colpisce come una sberla in piena faccia; abbandonata seccamente la tazza sul tavolo biascica un paio di scuse e si precipita fuori dal locale proprio quando timide gocce di pioggia cominciano a cadergli sul viso. Come se già da solo non stesse per piangere.

 

 

Smette di andare al teatro.

È fottuto comunque, e anche se la sua scrittura ne risente più di quanto sia piacevole sottolineare, decide che non vuole più vedere James Castiel Novak.

La sua immagine è troppo vicina al dolore.

È troppo vicina allo studio dello psichiatra infantile, troppo vicina all'impronta sulla custodia da violino che sembra dipinta da Jackson Pollock e troppo lontana dai Monet che tanti anni prima avevano mosso sapientemente la sua figura in quel mondo spaventoso e violento.

Più sente quel ragazzo vicino come lo sono tutte quelle cose più la sua familiare e protettiva bolla si assottiglia e il dolore minaccia di rovesciarsi dentro e affogarlo.

È troppo vicino e troppo lontano allo stesso tempo e un'antitesi del genere è inammissibile.

 

 

– Hai mai più visto Jimmy? Dalla sera al pub, intendo.

– No, Sammy.

– Oh.

– Lasciami lavorare, Sammy.

– Ma…

– Non ho nulla da dire al riguardo. Non mi sembrava interessante e ho altro da fare, ultimamente.

 

 

Marv lo perseguita come un becchino che si aggira attorno alla casa del vecchio ultracentenario della via in un paio di libri che ha letto.

– Devi venire ad aiutare il regista per lo spettacolo, Winchester. Quel benedetto libro l'hai scritto tu.

Vorrebbe sbattere la testa contro allo spigolo del tavolo fino a morirne. Non può togliersi James Castiel Novak dalla testa, e stranamente, una piccola insignificante briciola del suo subconscio sa che, in parte, non vuole.

Non vuole dimenticarsene perché a sua volta vuole sapere come. Perché. Per quale avverso volere o capriccio divino. E sì, continua ad esserne spaventato e finisce per evitarlo.

 

Ritorna al Madison Theatre quando sa non esserci nessuno, e ovviamente si sbaglia.

Maledice Sammy che gli aveva sottolineato il fatto che James Castiel il martedì avesse lezione al conservatorio per quella laurea in violino, ma se lo ritrova davanti in tutta la sua spaventosa rigida fierezza.

È di nuovo sul palco, che è stato coperto ed avvolto da teli bianchi e lenzuoli, i giornali incoronano quello che sembra essere un enorme dipinto solo per un terzo completato addossato al proscenio. Forse è parte della sceneggiatura, e James Castiel di aggira attorno ad esso misurando e scarabocchiando su un taccuino. Dopo un'attenta analisi dei dettagli a disposizione sulla parte dipinta della tela coglie cosa sarà il risultato finale e in un qualche modo tale consapevolezza lo sprona ad avvicinarsi.

È probabile che non si sia accorto di Dean.

– Ciao Dean.

Ahi. Come non detto.

Il suo spirito d'iniziativa si spegne improvvisamente e Gandalf urla nella sua testa “FUGGITE, SCIOCCHI” così forte che il giovane scrittore deve maledire mentalmente Charlie per avergli logorato la mente con i suoi preziosi Hobbit.

Ma ehi, mica può andarsene così, ecco.

Con passo malfermo si avvicina alla prima fila della platea.

– Perchè sei scappato via, due settimane fa? Non avevo parlato, quindi non penso di averti offeso in qualche maniera… giusto?

Per la prima volta, sembra sinceramente apprensivo, e Dean glien'è quasi riconoscente.

– Hai interrotto quella che era una rilassante abitudine.

Complimenti, Dean.

– Mi sono ricordato di avere un impegno importante… un incontro con l'editore.

– Per un libro che a quattro mesi dalla scadenza ancora non hai finito di scrivere?

Dean si sente preso con le mani nel sacco. Non dice nulla per parecchi lunghi istanti.

James Castiel non sembra avere alcuna fretta. Getta il taccuino fra le scartoffie che si aprono a ventaglio sul palco accanto allo scatolone riverso su un lenzuolo da cui fuoriescono numerose bottiglie e tubetti ed una quantità indicibile di pennelli dall'aria usata e rovinata.

Dean si accorge in quel momento, sollevando il capo su di lui, che ha le braccia completamente impiastricciate di colore come se le avesse usate a mo' di tavolozza, le mani in uno stato peggiore ad indicare che ad un certo punto dell'opera i pennelli non erano più stati sufficienti e la faccia piena di sbaffi dove il sonno o le riflessioni gliel'avevano fatta strofinare sui palmi.

Ora gli fa ancora meno paura.

I suoi occhi vagano verso la tela, dove il Glorious Kenneth Night Pub sovrasta una stradina di acciottolato nella periferia di Boroughtown.

– Hai colto l'ambientazione piuttosto bene per non aver apprezzato il libro. – commenta, ammirato da tanta maestria del maneggiare i colori con tendenza impressionistica.

Castiel trascina il colore lungo un bordo con il pollice, il viso a pochi centimetri dalla tela.

– … Ma forse la follia di un uomo che è esistito nel passato non è destinata a diventare la saggezza di qualcuno dell'ermetico divenire, perché si può esser saggi e fingere follia mentre il contrario suona fin troppo ossimorico e divertente. –

Dean sbarrò gli occhi. Gli mancava il respiro. – è una delle poche parti del libro che coglie la realtà così com'è senza che retoriche e allegorie la filtrino e capovolgano. –

Castiel sorride in assenso – Sei stato un folle, Dean Winchester? O con follia di un uomo che è esistito nel passato intendevi qualcosa che sembra follia ma ha un altro nome? –

Dean è senza parole e Castiel sembra quasi in colpa quando si volta verso di lui.

– Ho apprezzato il tuo libro. Ho amato il modo in cui scrivi. Ma ho trovato egocentrico come il personaggio assorba tutto ciò che lo circonda e lo traduca come una grande, soggettiva e inconsistente metafora. E non perché il tuo modo di raccontare mi abbia fatto pensare a te come Keith Fell. Ma perché è così azzeccato che hai lasciato trapelare tanto e troppo di tuo e sembra quasi averti svuotato.

Dean si siede sui gradini che conducono al palcoscenico e lo fissa spudoratamente, sempre senza trovare nulla di intelligente da dire.

Passano alcuni minuti.

Detto da Castiel, con la sua voce baritonale, la cadenza liscia di chi ha studiato dizione, sembra perfino più poetico di quanto Dean l'avesse scritto in realtà.

– Chi è Castiel? Mi somiglia?

– Non voglio rispondere a questa domanda.

Altro silenzio. – Allora c'è davvero qualcuno che si chiama come me e mi somiglia. – ora suona fastidiosamente malizioso, Dean non lo fulmina con lo sguardo perché non significa nulla fulminare qualcuno che non ti sta guardando.

– Te lo dirò, forse. Un giorno.

– Questo implica che tu debba smettere di evitarmi.

– E che Sammy non ti racconti tutto al posto mio.

 

 

– Dean?

– Mh?

– Se vuoi, puoi chiamarmi Castiel.

– Davvero?

– Sembra molto importante, per te. Qualsiasi cosa sia. Quindi per me è okay.

Quindi ora sono amici e compongono insieme e Dean non ha più paura di lui. E forse ha trovato una buona idea per un nuovo racconto, ma ride bene chi ride ultimo e non si lascia entusiasmare.

Butta giù una scaletta e attende che la prima frase si sbrogli dall'intrico di parole e colori che ha in testa.

La sua bolla sta scoppiando.

 

 

Parlano poco e tanto, in realtà dipende dai giorni. Castiel sembra aver mangiato dizionari ad ogni aggiornamento di vocabolario e Dean ogni tanto sbocconcella qualche parolaccia perché è più leggero se ogni tanto non discutono di cose troppo profonde.

Ma va bene comunque perché ora che non ha più paura di lui, è tutto naturale.

Ora non c'è solo il suo dolore, quando lo guarda e pensa al vecchio Castiel.

C'è anche il dolore di quello nuovo ed è okay se non ne parlano perché nessuno ha bisogno di dolore, non adesso.

 

 

– Castiel?

– Mh.

– Cazzo, Castiel, mi hai quasi ficcato quel diamine di archetto in un occhio.

– Dean?

– Cosa?

– Smettila di lanciare aeroplanini di carta con le tue idee scritte sopra e magari non mi lascerò distrarre e magari arriverai a domani con entrambi gli occhi.

– Vaffanculo.

– Sempre con affetto.

 

 

Altri due mesi dopo, a trentotto giorno dalla scadenza.

Amare Castiel è spaventoso perché sembra scoppiare di tutte quelle cose che non dice.

Dean sa poche cose di lui. Conosce, in brevi settimane, brevi tratti del suo quadro e altri sono troppo rovinati perché possa distinguerli.

– Non sono un pittore.

È seduto sotto alla tela e con un pennello sta tirando le ultime macchie umide di colore.

Dean ride pianissimo. È bello amare quella parte di Castiel perché sembra invitarti a studiarlo, ma subito dopo si scansa dalla lente d'ingrandimento e ti resta solo una sfocata fugace immagine di ciò che ti stava offrendo di analizzare.

– Sicuro? Questo capolavoro non mi prova che il contrario.

– Lo ero. Ora sono un violinista che legge libri di scrittori vuoti e ha citazioni del Simposio scritte in piccoli biglietti in giro per casa. E che si prende cura di un gatto obeso.

– Sono allergico ai gatti.

– Si chiama Zorba.

– Luis Sépulveda. Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare.

Lo vede scuotere impercettibilmente il capo.

Luis Sépulveda non è uno scrittore vuoto quanto Dean, per il momento, ma lui tace questa sua considerazione perché non vuole lasciargli sviare l'argomento di conversazione.

– Perchè hai smesso di esserlo? Un pittore, dico.
Castiel lascia cadere il pennello sporco sul lenzuolo e si allontana dalla tela per contemplare il lavoro finito. Sembra soddisfatto, pensa Dean, di come il distaccato impressionismo (di cui ormai è ossessionato) si leghi bene al pezzo ed alla storia di Keith Fell.

– Perchè i pittori sono troppo spesso tristi. Avevo un novanta per cento di rischio di essere triste anche io e sarei stato negletto fin quando a cent'anni dalla mia morte, presumibilmente per suicidio, qualcuno non avrebbe trovato le mie opere e le avrebbe trovate innovative.

– Ti offendi se dico che non ti credo?

– No.

Dean muore dalla voglia di chiederlo, e passato alcuni secondi non si trattiene più. – Centra tua mamma?

Castiel sospira, più piano di quanto Dean abbia riso poco prima.

– Forse un giorno te lo dirò.

Continuano a fissa re lo sfondo della sceneggiatura per alcuni istanti, finché in un moto inaspettatamente impulsivo, Dean decide che James Castiel Novak dovrà essere ricordato e, con il tubetto del blu in mano si accosta all'angolo in basso a destra. Con un dito, sullo spessore della cornice, dove gli altri colori sono sbavati e mezzi bagnati, lascia tre lettere: C A S.

 

James Castiel Novak si gira velocemente verso di lui: proprio non se l'aspettava.

Rilegge nella sua mente l'anima di Dean nelle pagine di Allegorie di Keith Fell e quelle cose brevi e piene che si erano detti fra di loro componendo e pensa  agli aeroplanini di carta, allo stridore delle sue note malinconiche e ad  altre allegorie. E si chiede cosa siano diventati.

Poi non pensa più nulla, perché lo sta baciando.

 

 

 

Note d'autore:

Ho deciso che l'angst non è finito, gioite discepoli!

Blu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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