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Autore: Adeia Di Elferas    19/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il 3 maggio Caterina invitò a pranzo nella rocca di Ravaldino tutti i generali dell'esercito milanese.
 Durante il pasto, a cui, per parte della famiglia Riario, partecipò solo la Contessa, vennero discussi i dettagli della ritirata delle truppe sforzesche, che, dal giorno in cui Caterina aveva tenuto il suo discorso all'accampamento, sembravano desiderose di tornare a casa, non avendo più motivo di stare in Romagna.
 Nel pomeriggio, poi, la Contessa fece radunare tutti i capifamiglia delle famiglie nobili di Forlì, per leggere loro una serie di editti che aveva stilato nel corso della mattina.
 Col primo editto Caterina riconfermava tutte le pene e tutti gli esili che erano stato decisi da Girolamo Riario prima della sua morte. Lo fece soprattutto perchè quasi tutte quelle misure erano state prese da lei e solo sulla carta erano state idee del marito.
 Con il secondo editto vietava categoricamente a qualunque religioso, di qualunque fede, di tenere nascosti ribelli, rivoltosi e congiurati. La legge non si sarebbe fermata nemmeno davanti al velo di una suora.
 Con il terzo editto ritirò ogni favore verso il Duomo di Forlì e i suoi responsabili, confermando una decisione di cui già tutti erano a conoscenza.
 Dopodiché mise tutti a conoscenza del fatto che Giampietro Carminati di Brambilla, detto il Bergamino, sarebbe divenuto non solo il nuovo Governatore di Forlì, ma anche il tutore legale dei suoi figli.
 “Se dovesse accadermi qualcosa – aveva detto al Bergamino, quando lo aveva informato privatamente della sua scelta – preferisco che vi sia un uomo di cui tutti hanno paura a difenderli.”
 Inoltre, Caterina era certa che suo zio avrebbe preso come un buon segno la presenza di un milanese come Bergamino in Romagna.
 Sciolse ufficialmente il Consiglio degli Otto e promise un'ingentissima ricompensa a chiunque fosse riuscito a catturare o dare informazioni circa i congiurati sfuggiti alla giustizia.
 Per finire, Caterina decretò che Savelli e i suoi venissero tenuto in cella ancora qualche giorno, mentre le famiglie degli Orsi potevano liberamente andarsene dove preferivano, a patto che non provassero mai a rovesciare il suo regno. 
 
 Francesca Bentivoglio aveva appena ricevuto una lettera da parte di suo padre, Giovanni, che si trovava proprio in quel momento a Forlì, con l'esercito inviato da Ludovico Sforza in soccorso alla Contessa Riario.
 In quelle poche righe c'erano molti convenevoli, ma poche parole. Francesca aveva sperato di trovare almeno nella chiusura una più o meno esplicita richiesta di poterla incontrare, invece non c'era nulla di simile.
 “Bene, bene, se siamo sicuri, a questo punto, che Firenze non c'entra proprio nulla con la morte del povero Conte Riario...” stava dicendo Galeotto Manfredi, entrando nella stanza assieme al suo cancelliere.
 Nel momento in cui vide la moglie, Galeotto si bloccò di colpo e smise di parlare.
 Francesca ripiegò la lettera di suo padre e lanciò un'occhiata di sufficienza al marito. Quell'uomo andava in giro, da giorni, a dire che era sempre stato sicuro che alla fine la Contessa Riario avrebbe riottenuto Forlì. Proprio lui, che in aprile era pronto a schierarsi senza indugio in favore del governo di Savelli – a patto di saper d'accordo anche Lorenzo Medici – e degli Orsi, in maggio era con tutti prodigo di motti e lungaggini sulla fermezza e sulle capacità di Caterina Sforza.
 Galeotto non aveva mai capito nulla, né di politica, né dell'animo umano. In quanto alla sua convinzione sulla totale estraneità di Lorenzo Medici, anzi, di Lorenzo il Magnifico, come qualcuno aveva cominciato a chiamarlo in quei mesi... Francesca era certa che si trattasse della sua ennesima cantonata.
 Galeotto distolse lo sguardo da Francesca e ricominciò a parlare con il suo cancelliere, facendogli però segno di spostarsi in un'altra stanza.
 Di nuovo sola, Francesca Bentivoglio cominciò a pensare. Quella che stava vivendo a Faenza non era una vita.
 Caterina Sforza era rimasta sola eppure tutti quei signori che tanto la prendevano sottogamba alla morte del marito, ora la riverivano e la temevano.
 Perchè non cercare di emularla?
 Francesca si massaggiò un momento la fronte, pensando a suo figlio, Astorre, un bambinetto ingenuo e ancora troppo piccolo...
 Ma poi nella sua mente tornarono prepotentemente le parole che aveva sentito dire sulla Sforza. La chiamavano Tigre, Leonessa. Nessuno metteva più in dubbio la sua forza.
 Francesca si conosceva bene. Sapeva di non essere altrettanto capace e intraprendente. Però conosceva due uomini che avrebbero potuto aiutarla. E se non approfittava della vicinanza di suo padre che, per quanto restio, sarebbe di certo accorso in suo aiuto, non avrebbe mai più trovato un momento tanto favorevole.
 Mordendosi il pollice della mano sinistra, prese con la destra un nuovo pezzo di carta e cominciò a scrivere una delle due missive che l'avrebbero liberata.
 
 L'esercito milanese era ripartito quella mattina, lasciandosi alle spalle una certa confusione e qualche incomodo. Un campo, per quanto organizzato e pacifico, portava con sé sempre una certa quantità di danni, soprattutto alle campagne, rovinate dal passaggio di tanti uomini e bestie.
 Rodolfo Gonzaga guidava i soldati, mentre sia Giovanni Bentivoglio sia il Bergamino erano rimasti in Romagna, l'uno per motivi personali, l'altro in veste di Governatore di Forlì.
 I forlivesi stavano cominciando a restituire tutto quello che era stato rubato dal palazzo dei Riario la notte dell'omicidio del Conte e tutto sembrava quasi risolto.
 Caterina stava guardando fuori dalla rocca, affacciata a una delle finestre. C'era profumo d'estate, nell'aria e quell'aroma la metteva di buon umore.
 Aspettava ancora notizie da sua madre, ma non aveva motivo di pensare che le fosse accaduto qualcosa.
 Si sentiva libera. Era una sensazione che le era divenuta tanto estranea, negli anni, che quasi non riusciva a riconoscerla.
 Aveva consegnato a Rodolfo Gonzaga una lettera per suo zio Ludovico in cui lo ringraziava per quello che aveva fatto, proclamandosi riconoscente e disposta ad appoggiarlo in qualsiasi sua scelta futura. Ovviamente quelle erano parole vincolanti fino a un certo punto, visto che lei era solo la reggente e, prima o poi, sarebbe stato Ottaviano a decidere come muoversi.
 Di certo a Ludovico non sarebbero bastate quelle vanesie parole, Caterina lo sapeva, ma non se ne curava troppo. Forlì, rispetto a Milano, aveva una sola qualità: la sua posizione strategica. In assenza di grandi guerre – e in quel momento non c'erano avvisaglie in quel senso – da Forlì non ci si poteva aspettare granché se non, appunto, qualche vuota dichiarazione di lealtà.
 Nella lettera, poi, spiegava anche perchè aveva deciso di punire solo i congiurati in prima persona, a parte Orsi, che aveva preso il posto dei figli al supplizio.
 Infine, tanto per alleggerire un po' la cosa, Caterina non aveva resistito a elencare una serie di presagi che secondo il suo defunto marito rivelavano proprio l'imminente morte del superstizioso Conte. Anche se alla fine era davvero caduto vittima di una congiura, anche mentre scriveva un rapido riassunto di tutte le profezie e i segni che suo marito prendeva come inequivocabili, a Caterina scappò una breve risata.
 Era semplicemente assurdo fidarsi così tanto di cose tanto assurde.
 Sapeva che anche suo zio era abbastanza superstizioso, tanto da non prendere mai decisioni importanti senza aver prima consultato l'astrologo di corte. Ebbene, forse il suo resoconto sui timori di Girolamo avrebbero rafforzato in lui quell'abitudine.
 Con un ultimo sospiro, Caterina si ritirò dalla finestra e si diresse verso il cortile d'addestramento, tanto per controllare che tutto fosse in ordine prima di ritirarsi nelle sue stanze.
 In quei giorni aveva passato poco tempo coi suoi figli, che erano rimasti quasi tutto il tempo con la loro zia Bianca. Era rassicurante sapere che, oltre alle balie, c'era qualcun altro a cui poteva affidare i suoi bambini senza temere nulla.
 Il cortile era silenzioso e deserto. Il venticello sottile che si stava alzando portando con sé la frescura della sera sollevava un po' di polvere qua e là. 
 Proprio mentre stava per ritirarsi, vide un'ombra dalla parte opposta rispetto alla finestra spalancata a cui stava affacciata.
 Guardò meglio, spinta da una curiosità che non si spiegava.
 Benché non volesse ammetterlo nemmeno con se stessa, sperava che fosse quel giovane stalliere...
 Strinse gli occhi e, appena l'uomo cominciò ad attraversare il cortile, lo riconobbe. Era proprio lui.
 Camminava a passi ampi e rapidi e i capelli, lunghi fino alle spalle, erano smossi dalla brezza serale.
 Indossava ancora quegli abiti un po' rovinati da stalliere e Caterina riuscì anche a scorgere il velo di barba che gli copriva le guance e il mento.
 A un certo punto, come se si sentisse osservato, il giovane sollevò lo sguardo, più o meno proprio in direzione di Caterina. La Contessa si allontanò subito dalla finestra, con una strana paura in corpo.
 L'aveva vista? Oppure no? Perchè aveva sollevato lo sguardo?
 Caterina attese un momento, sperando che il suo cuore tornasse a battere alla solita velocità e che il collo e le guance venissero abbandonate dal rossore che le aveva catturate.
 Lentamente, con circospezione, si riavvicinò alla finestra aperta e guardò di nuovo giù.
 Quel ragazzo era nel mezzo del cortile e stava parlando con qualcuno. Caterina, così presa dall'osservare il giovane, ci mise un po' a riconoscere il suo interlocutore: il castellano Tommaso Feo.
 Non riusciva a sentire quello che si stavano dicendo, ma sembrava che si conoscessero bene. Tommaso parlava rapidamente e faceva di quando in quando qualche gesto con la mano. Forse si trattava di rimproveri, difficile capirlo.
 Alla fine lo stalliere annuì un paio di volte e Tommaso lo lasciò andare con una pacca sulla spalla.
 Caterina, ancora al davanzale, non fece in tempo, questa volta, a sottrarsi allo sguardo del giovane che, appena lasciato Tommaso, era subito corso verso l'alto per cercarla.
 “Caterina...” disse piano Bianca, arrivando alle spalle della sorella proprio mentre questa si stava allontanando dalla finestra con uno scatto.
 “Sì?” chiese Caterina, rendendosi subito conto di essere ancora accaldata e di certo con il viso imporporato come il collo.
 Bianca avrebbe voluto chiedere il perchè di tanta agitazione da parte della sorella, ma non ebbe la prontezza di guardare fuori per capire chi fosse la causa del suo rossore.
 In fondo poi, si disse, non erano fatti suoi.
 “I bambini chiedono di te – fece Bianca, con un sorriso un po' tirato – dicono che avevi promesso loro che avreste passato la sera insieme per giocare un po' e raccontare qualche storia.”
 Caterina si ricordò solo in quel momento di quella promessa. Ringraziò Bianca e le assicurò che sarebbe arrivata il prima possibile.
 “Certo...” sussurrò Bianca e, mentre si allontanava, lanciò uno sguardo con la coda dell'occhio alla sorella, giusto nell'istante in cui Caterina si riavvicinava alla finestra per controllare che lo stalliere se ne fosse davvero andato.

 “Santità, pensateci bene... Ci renderemmo ridicoli, a questo punto, se ci ostinassimo ad andare contro la Contessa Sforza Riario.” disse Rodrigo Borja, con il suo solito tono da incantatore di serpenti.
 Innocenzo VIII a volte si chiedeva se quello spagnolo in realtà non arrivasse dalla terra degli stregoni e dei domatori di vipere. Malgrado la sua figura distinta, sapeva irretire chiunque con la sua voce bassa e avvolgente. Qualunque fosse il significato delle sue parole, finiva per portare chiunque dalla sua parte.
 E il papa non era certo meno incline degli altri a seguire le note fatate di quell'uomo.
 “Certo, certo...” disse infatti, poi però cercò di darsi un tono: “Tuttavia, pur senza mettermi apertamente contro di lei, non posso fingere che Monsignor Savelli sia nelle segrete della sua rocca a Forlì.”
 “Su questo siamo d'accordo.” concesse Rodrigo, facendosi versare altro vino da una delle serve: “Anche se, Santità, Monsignor Savelli merita qualche giorno di prigionia. Non ci ha fatto per nulla un buon servizio.”
 Innocenzo VIII aprì gli occhi in una smorfia significativa: “Verissimo anche questo, mio caro Borja. Però... Speravo di dare Imola a mio figlio Franceschetto...” si lamentò il papa: “Sembrava proprio cosa fatta...”
 “Potreste dargli la carica di governatore di Roma.” propose Rodrigo, ben consapevole del fatto che quella carica valeva meno di un soldo bucato, ma che fruttava molto più di tanti altri lavori di maggior responsabilità e fatica.
 Innocenzo VIII strinse le labbra, come se trovasse la proposta di suo gusto, poi riprese: “Questa è una buona intuizione, mio caro Borja, davvero. Tuttavia, tuttavia... Io come faccio a emettere documenti ufficiali in cui riconosco a Ottaviano Riario due città come Imola e Forlì mentre sua madre ha ancora un sant'uomo come Savelli nelle sue carceri?”
 Rodrigo Borja fece un lungo respiro, bevve due sorsi di vino, fingendo di pensarci su parecchio e infine disse, giungendo le mani davanti al petto: “Aspettate un paio di mesi. Non prendete posizioni apertamente ostili, ma solo tiepidamente favorevoli al governo della reggente. A luglio di certo la Sforza avrà liberato Monsignor Savelli e nessuno avrà più nulla da ridire sulla legittimità del mio figlioccio Ottaviano.”
 “Oh, già, dimentico sempre che voi, Borja, siete il padrino di quel ragazzo.” sorrise il papa, battendosi un colpetto sulla fronte.
 Rodrigo sorrise in modo pacato e poi, utilizzando di nuovo il suo miglior tono da incantatore di serpenti, disse: “Lo so, lo so.”

 Quella mattina il cielo cominciava ad annuvolarsi, mentre il caldo restava estivo. Forse sarebbe scoppiato un temporale, prima di sera.
 Caterina era stata al palazzo, per controllare gli oggetti che ancora la popolazione stava restituendo e decidere quali portare alla rocca. Doveva ammettere che stava recuperando più cose del previsto e che quasi tutte erano ancora in buono stato.
 Quando tornò alla rocca, prima di tutto andò da Ottaviano che si era categoricamente rifiutato di recarsi con lei a palazzo. Gli riferì quello che era stato restituito fino a quel punto e lo rassicurò sul futuro.
 Ottaviano ascoltò il tutto con un certo distacco e non le diede la soddisfazione di una sorriso nemmeno quando Caterina gli propose di andare a cavalcare insieme.
 “Non ne ho voglia.” rispose il ragazzino, assumendo l'espressione melanconica che spesso aveva adombrato il viso di suo padre.
 “Un'altra volta allora.” fece Caterina, ben sapendo che difficilmente si sarebbe sentita dire di sì da suo figlio, benché fosse abbastanza evidente quanto lui desiderasse passare del tempo con lei.
 'L'animo umano ha così tante sfaccettature e complessità' pensò Caterina, mentre si congedava da Ottaviano con una rapida carezza sulla guancia che il ragazzino quasi scansò.
 La Contessa andò a cercare allora il castellano. Le premeva fare tre discorsi, con lui, di natura ben diversa tra loro.
 Lo trovò nel suo studiolo, mentre rivedeva i conti della rocca. Apprezzava il suo essere meticoloso coi documenti e con l'amministrazione di Ravaldino. Se la rocca era così ben organizzata, gran parte del merito era del castellano.
 Per prima cosa Caterina chiese a Tommaso di farle una panoramica circa le provviste che avevano a loro disposizione. Sentito e valutato il tutto, ordinò che non solo le dispense venissero riempite maggiormente, ma anche che le munizioni e i pezzi di artiglieria venissero aggiornati e potenziati.
 Aveva deciso di riorganizzare l'economia pubblica di Forlì focalizzandosi sulla difesa. Avrebbe tolto nel giro di un mese tutte le tasse inutili che suo marito aveva voluto reintrodurre, a partire da tutte le gabelle scomode che tanto avevano infastidito i forlivesi. Dopodiché avrebbe fatto fronte alle ridotte entrate diminuendo drasticamente le uscite.
 Approfittando della decisione di Savelli di snellire la macchina dello Stato, non avrebbe mai più rimpiazzato certe figure veramente inutili, optando per un governo più ristretto e meno dispendioso.
 Dato che suo marito era morto e visto che era lui quello che spendeva capitali in bei vestiti e cose inutili, Caterina avrebbe continuato con la sua linea spartana. Niente vestiti sfarzosi, niente gioielli, a meno che non fossero regali, e niente spese folli in nome della vanità.
 Tutti gli introiti statali avrebbero pagato gli stipendi delle guardie, dei soldati, dei pochi impiegati e per il resto sarebbero stati usati per la spesa militare. Bombarde, falconetti, spade, provviste, tutto quello che serviva a rendere Ravaldino e le altre rocche di Forlì delle rocche a prova di assedio.
 Anche se non c'erano grosse guerre in vista, Caterina sapeva che Forlì aveva solo quell'arma per farsi rispettare: essere imprendibile.
 Finito questo discorso, Caterina chiese a Tommaso di dare qualche lezione di spada a suo figlio Ottaviano.
 “Evidentemente con il suo vecchio maestro di spada non si è mai trovato a suo agio.” spiegò: “E nemmeno con il suo precettore. Vorreste provare voi a coinvolgerlo in qualche attività adatta al futuro signore di Forlì?”
 Tommaso Feo si aprì in un grande sorriso e rispose di cuore: “Sarà un onore poter insegnare qualcosa a vostro figlio, mia signora.”
 Risolto anche quel punto, Caterina non poté più tergiversare. Era il momento di sfiorare l'argomento che più le premeva e che pure più temeva.
 “Sentite...” cominciò, con una vaghezza che raramente Tommaso aveva notato nella sua voce: “Ieri sera vi ho visto con... Ecco...”
 Caterina si sentiva in imbarazzo e fare quella semplice domanda sembrava più difficile che non riprendersi Castel Sant'Angelo e Ravaldino tutte insieme.
 Tommaso non riusciva a capire nemmeno vagamente quale fosse l'oggetto della discussione, per cui restava lì immobile, in attesa di qualcosa di più preciso.
 Alla fine Caterina si morse il labbro, fece un respiro profondo e dichiarò, tutto d'un fiato: “Vorrei sapere il nome dello stalliere con cui vi ho visto parlare ieri sera nel cortile.”
 Tommaso parve perplesso, come se non ricordasse l'episodio. Si accigliò e corrugò la fronte e, solo quando Caterina stava per aggiungere qualcosa per rompere il silenzio, l'uomo finalmente si ricordò.
 “Ah! Quello!” esclamò, con una risata che stupì Caterina.
 Tommaso si scusò per non essersi ricordato subito e poi spiegò: “È che, vedete, quello non è uno stalliere...”
 Stavolta fu il turno di Caterina di accigliarsi e corrugare la fronte.
 “Quello di cui parlate è mio fratello, Giacomo.” proseguì Tommaso.
 “Vostro fratello...?” Caterina si sforzò di trovare tra loro una somiglianza, ma non era molto facile.
 Tanto uno era composto e massiccio, tanto l'altro era trascurato nell'aspetto ed esile nel fisico. Forse avevano qualcosa di simile nel taglio degli occhi, ma...
 “Mio fratello mi ha seguito fin da ragazzino come scudiero, ma adesso in realtà Giacomo è solo un garzone di stalla, anche se ha già diciassette anni.” continuò Tommaso, scuotendo benevolo il capo, come se la sola idea fosse ridicola: “Se alla sua età non è ancora riuscito a diventare almeno stalliere, mi chiedo cosa mai combinerà nella sua vita.”
 Caterina non commentava. Era ancora presa da una notizia, secondo lei, ben più importante rispetto alla deludente carriere del ragazzo.
 Diciassette anni. Otto meno di lei.
 Se prima le era sembrato tutto troppo azzardato, adesso le pareva decisamente folle.
 “Diciassette anni?” chiese Caterina, quasi sperando di aver capito male.
 “Diciassette. Abbiamo più o meno dieci anni di differenza.” rispose Tommaso, mentre la sua espressione si faceva più seria e gli occhi si stringeva, come a cercare un motivo più profondo per tutte quelle domande.
 Caterina si accorse di quel cambiamento, perciò ringraziò Tommaso per le informazioni e disse che avrebbe a breve fatto in modo di promuovere suo fratello a stalliere.
 “Non ne ha le capacità, per ora...” provò a opporsi Tommaso, una ruga sempre più profonda a scavare tra le sopracciglia.
 Caterina, però, era già troppo lontana per sentire quel debole tentativo.
 Tommaso guardò a lungo verso la porta da cui era appena uscita la sua signora. Non gli piaceva quella storia. Il modo in cui lei gli aveva chiesto di Giacomo, l'espressione che aveva fatto nel sentirne l'età e poi quella strana decisione di promuoverlo senza motivo...
 Rimettendosi le carte davanti, Tommaso cercò di tornare a concentrarsi sul lavoro, ma ormai un nella testa gli erano entrati un dubbio e una certezza e non ne sarebbero usciti più.
 Il dubbio era sulla natura dell'interesse della Contessa per Giacomo.
 La certezza era che alla fine, tra i due, sarebbe stata lei a farsi del male.

   
 
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