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Autore: Adeia Di Elferas    21/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Dunque vi chiediamo di raggiungere la Contessa Sforza anche a nostro nome.” disse Ascanio Sforza, prendendo Raffaele Sansoni Riario per un braccio, stringendo quel tanto che bastava per sottintendere tutto il necessario: “E anche Giuliano Della Rovere, vostro cugino, tiene molto a sapervi presto nel forlivese a porgere le nostre condoglianze a Caterina.”
 Raffaele aveva capito che sia Giuliano sia Ascanio volevano che lui, una volta di fronte alla vedova di suo cugino Girolamo, spiegasse come quei cinquanta cavalieri papalini era stati mandati da tutti e tre in concerto.
 Per dirlo, lo avrebbe anche detto, se non altro per non incappare in eventuali ripicche di quei due sgradevoli personaggi, ma era stato lui a sborsare un sacco di soldi per quei soldati...
 “Porgerò le vostre condoglianze ed esprimerò alla Contessa Riario – fece Raffaele, riaggiustando il tono – la vostra vicinanza.”
 Ascanio Sforza sollevò l'angolo della bocca e finalmente liberò il Cardinale Sansoni Riario dalla sua presa: “Benissimo, caro Raffaele. Fateci sapere quando lascerete la corte romana. Vorremmo salutarvi.”
 Raffaele chinò appena il capo in segno di assenso e tirò un sospiro di sollievo quando Ascanio, finalmente, se ne andò.

 Da quando Caterina aveva scoperto l'identità del garzone di stalla – ora stalliere – che tanto l'aveva colpita, la rocca di Ravaldino sembrava essersi fatta improvvisamente troppo piccola.
 Per quanto Caterina cercasse di sfuggire ogni contatto con quel ragazzo, a ogni passo se lo trovava davanti, a ogni angolo vi ci si imbatteva, in ogni stanza in cui entrava, lui era lì per qualche motivo. Se non fosse stata un'idea campata per aria, Caterina avrebbe detto che Giacomo Feo la stava seguendo.
 Prima non l'aveva mai visto in giro, tanto meno nella rocca. Mentre ora lo incontrava di continuo e quasi sempre quando non c'era nei paraggi nessun altro.
 Scambiavano uno sguardo brevissimo – di solito era Caterina a guardare altrove per prima – e poi ognuno tirava dritto per la sua strada.
 Non avevano più scambiato una parola, dal loro primo incontro nelle stalle e nessuno dei due sembrava intenzionato a cambiare quella consuetudine.
 Caterina avrebbe preferito non trovarselo davanti a ogni pie' sospinto, perchè la sua vicinanza la confondeva e la innervosiva. Non aveva mai capito cosa intendessero i poeti e gli scrittori, quando parlavano di attrazione e desiderio, ma, più i giorni passavano, più si convinceva che era proprio quello che stava provando lei, il sentimento che tanto faceva sospirare quei letterati.
 Dover convivere con un uomo che detestava, dover subire la sua presenza e dover condividere con lui l'intimità le avevano tolto ogni tipo di aspettativa e curiosità, almeno fino a quel momento.
 Con la morte di Girolamo, Caterina aveva lentamente cominciato a farsi delle domande e a rivalutare la propria posizione. Era libera. Non si sarebbe mai più piegata al volere di un uomo, certo, ma non per questo le era vietato provare a scoprire qualcosa in più sull'amore. Se era quello, l'amore...
 Tormentata da questo nuovo tipo di tortura, Caterina vedeva la città di Forlì risorgere davanti ai suoi occhi come una fenice dalle sue ceneri.
 Da Imola arrivavano solo buone notizie e anche gli ultimi conti giunti dal borgo di Fortunago erano in positivo.
 Tommaso Feo aveva cominciato a dare lezioni di spada a Ottaviano e il ragazzino sembrava accettare di buon grado la guida del castellano. Si stavano abbastanza simpatici e inoltre Tommaso sapeva essere un maestro severo, ma mai intimidatorio. In caso di errore, incoraggiava il suo allievo, piuttosto che mortificarlo. Lo spronava, senza mai fargli pesare quelle mancanze che nessun esercizio avrebbe mai colmato.
 Di quando in quando, anche Giacomo partecipava a quegli allenamenti in cortile.
 Dopo essere stato nominato stalliere, il suo tempo libero era aumentato, perchè di stallieri ormai ce n'era anche troppi per quella rocca.
 Ottaviano andava molto d'accordo pure con lui, anzi, forse di più che con Tommaso. Se il castellano gli sembrava una figura quasi paterna, per via dell'età, Giacomo gli pareva più un fratello maggiore.
 Caterina li osservava spesso di nascosto, da una delle finestre, senza mai intromettersi, per paura che suo figlio si rifiutasse di continuare l'esercizio in sui presenza.
 Vedere suo figlio e lo stalliere ridere e chiacchierare insieme come due vecchi amici le dava una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Da un lato ne era felice, dall'altro temeva all'inverosimile che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui quell'equilibrio si sarebbe rotto.

 Il 21 maggio il Cardinale Sansoni Riario arrivò a Forlimpopoli e chiese di essere ospitato nella rocca.
 Avrebbe forse potuto accettare l'ospitalità di qualche famiglia nobile di Forlì, ma si sentiva più al sicuro  all'interno di una struttura fortificata, piuttosto che in una normale casa. Le rivolte erano state sedate, ma non si muore certo per un eccesso di prudenza.
 Saputo dell'arrivo di Raffaele, giunto a Forlimpopoli con una discreta schiera di prelati suoi amici, guardie personali e servitori, Caterina si affrettò a chiamare a sé il Bergamino e partire alla volta della rocca in cui si era sistemato il Cardinale.
 “Cara cugina!” salutò Raffaele, appena vide Caterina.
 La Contessa rispose al saluto con altrettanto entusiasmo, scoprendosi, in realtà, abbastanza felice di rivedere quell'uomo, per quanto lo trovasse sempre un essere dall'aspetto tremulo e incerto.
 Non poteva dimenticare come i suoi cinquanta cavalieri – benché quasi per certo mandati per paura, più che per vero affetto – le avevano permesso di dare una svolta decisiva alla sua strategia.
 “Sono qui per porgervi le mie più sentite condoglianze per la morte di vostro marito.” fece Raffaele, mentre i suoi occhi saettavano inquieti verso il Bergamino: “E porto le condoglianze anche di vostro zio Ascanio e di nostro cugino Giuliano.”
 Caterina ringraziò, sorvolando sul fatto che né Ascanio né Giuliano dovevano essere molto affranti dalla morte di Girolamo, visto che entrambi lo trovavano quanto meno irritante.
 La Contessa e il Cardinale si intrattennero per quasi un'ora. Raffaele lodò molto Caterina, usando i suoi più accesi accenti, mal celando la captatio benevolentiae nascosta tra quelle frasi.
 Caterina aveva capito che il Cardinale sperava di poter avere un ruolo nella vita dei figli del defunto cugino e che in cambio offriva tutto il suo appoggio politico in Roma e economico in Forlì.
 Malgrado le apparenze, Raffaele in quegli anni si era fatto un certo nome alla corte vaticana e aveva dalla sua ben più di un porporato.
 “Pensateci bene, cara cugina – diceva di tanto in tanto – se mai voleste far intraprendere la carriera ecclesiastica a uno dei vostri figli, Livio, magari, o Sforzino, quando sarà il momento, io potrei guidarli e permettere loro di raggiungere in fretta le cariche più alte della Chiesa.”
 Quello non era certo un parlare da religioso, ma Caterina preferiva quella franchezza ai mille giri di parole che molti prelati amavano usare.
 Non declinò né accetto le proposte del Cardinale Sansoni Riario, per quel giorno, ma si prese un po' di tempo per pensarci bene. Le implicazioni, sia in caso di rifiuto sia in caso di assenso, erano varie e difficili da cogliere senza un certo ragionamento.
 “Quanto posso restare?” chiese Raffaele, appena prima che Caterina lasciasse la rocca.
 Quella domanda tradiva più di ogni altra cosa la sua natura paurosa e insicura. Inoltre mostrava come, nel profondo, si sentisse subordinato alla Contessa.
 Caterina rimase molto soddisfatta da quella rivelazione involontaria e rispose: “Anche un un mese o due, se lo desiderate.”
 Raffaele ringraziò e baciò la mano della Contessa, senza pretendere che lei baciasse di rimando l'anello cardinalizio.
 Se ci fossero stati altri testimoni oltre al Bergamino, Raffaele non avrebbe permesso a una donna di non ottemperare a una simile formalità, ma in quel caso, non si fece problemi a chinare il capo dinnanzi alla Contessa Riario.
 Per poter alla fine comandare, alle volte bisogna saper essere al seguito e lasciare la corona a un altro.

 “Quel ragazzo non sa fare altro che andare a caccia e curare i suoi maledettissimi cani!” sbottò Ludovico, senza curarsi della presenza del maestro Leonardo.
 “Lo dite come se la cosa vi infastidisse...” fece Calco, alzando un sopracciglio con fare annoiato.
 Ludovico era di pessimo umore dal giorno in cui le truppe sforzesche erano tornate da Forlì. Non solo il Bergamino era rimasto al servizio di Caterina, ma nemmeno Giovanni Bentivoglio aveva fatto ritorno, perchè, forse, voleva prima visitare la figlia che viveva a Faenza col marito, Galeotto Manfredi.
 Così Ludovico si era dovuto accontentare di uno scarne resoconto fattogli dal Sanseverino, che aveva semplicemente detto che la Contessa aveva ordinato la ritirata, ringraziandolo molto e di cuore.
 “Che me ne faccio io dei suoi ringraziamenti di cuore...!” aveva esclamato il reggente del Duca, perdendo la pazienza fin da subito.
 Il Bergamino era l'uomo che meno si poteva controllare, tra tutti quelli che aveva spedito a Forlì. Se avesse sperato di ottenere da lui qualche informazione preferenziale o anche solo qualche notizia sul governo della nipote, ne sarebbe rimasto grandemente deluso.
 Inoltre aveva sentito dire che Oliva, l'ambasciatore su cui tanto aveva potuto contare, ora pendeva dalle labbra di Caterina. Era tornato alla sua corte, ma in veste di consigliere, e non faceva altro che proclamarsi suo fedelissimo servo. Non a caso, dalla cattura di Savelli, Oliva non aveva più nemmeno provato a scrivere mezza riga a Ludovico.
 L'unica speranza che il reggente del Duca aveva di pilotare il governo della nipote era mandando un nuovo ambasciatore, più fedele e più scaltro di Oliva.
 “Sentite – fece a un certo punto Leonardo – se avete del tempo da perdere, non coinvolgetemi in questo spreco. Ho del lavoro da fare, quindi se non avete intenzione di conferire con me, ditelo subito, così potrò tornare ai miei impegni, che sono di certo più importanti.”
 Calco si alzò dalla scrivania grattando il pavimento con la sedia: “Molto simpatico, il vostro genio!” disse tra i denti a Ludovico.
 Il reggente del Duca non badò a quello sfogo. Leonardo era davvero un genio, eclettico e visionario come aveva promesso nelle referenze che aveva spedito anni addietro per farsi ingaggiare. Peccato che non fosse proprio un campione di umiltà ed educazione...
 “Scusate, avete pienamente ragione.” fece Ludovico, sorridendo a Leonardo: “Cancelliere, potete scusarci?”
 A quelle parole, Calco raccolse le carte che aveva portato poco prima al suo signore e lasciò la stanza.
 “Quell'inetto di mio nipote Gian Galeazzo mi farà impazzire...” soffiò Ludovico, a mo' di scusa per il suo cattivo umore.
 “Io invece credo che sia vostra nipote, il motivo del vostro attuale stato.” notò Leonardo, senza alcuna inflessione.
 Ludovico aprì la bocca per ribattere, ma lasciò subito perdere. Si era già scontrato un paio di volte con il maestro circa Caterina e ogni volta l'artista lo aveva messo a tacere con argomentazioni che lo mettevano in estrema difficoltà.
 Non ultima, una volta Leonardo aveva lapidariamente chiuso la diatriba dicendo: “Voi siete solo invidioso del fatto che tra tutti i discendenti di Francesco Sforza, lo spirito guerriero sia a finito a vostra nipote, mentre a voi sia rimasto solo un cuore da ortolano.”
 Un po' il maestro aveva ragione, e così Ludovico non l'aveva nemmeno rimproverato, dandogliela vinta una volta di più.
 “Allora, vogliamo parlare del progetto per Vigevano?” chiese Ludovico, con un sospiro profondo.
 Leonardo srotolò i progetti che aveva appena buttato giù e prese a spiegare come avrebbe fatto in modo di rendere l'allevamento delle pecore redditizio e la coltivazione dei gelsi intensiva.
 “Sapete che certi cominciano a chiamarmi Moro?” fece Ludovico, quando Leonardo ebbe finito la sua presentazione: “Moro. Come i 'muron', i gelsi... Forse è vero, che ho un cuore da ortolano...”

 “Ottaviano è il Conte e il signore di Imola e Forlì, non voi, voi siete solo una reggente, questo dovete ricordarlo.” puntualizzò Raffaele, dopo che ebbe incontrato i figli del defunto cugino.
 Aveva notato una certa insofferenza nel bambino più grande e nemmeno Cesare gli era parso molto a suo agio. Il secondo, in particolare, aveva qualcosa da recriminare sul fatto che la madre era spesso assente e presa dagli affari dello Stato, perciò aveva ancor meno tempo da dedicare a lui e ai suoi fratelli. Ottaviano, invece, pareva in disaccordo sul fatto che Caterina non lo considerasse in alcun modo, agendo, di fatto, come se fosse stata lei a ereditare il titolo e le terre.
 “Ottaviano ha nove anni.” gli ricordò Caterina: “Voi mettereste una città tempestosa come Forlì, o anche solo una città come tranquilla come Imola nelle mani di un bambino di nove anni?”
 Raffaele si allacciò le mani sul ventre, appena sotto al crocifisso tempestato di pietre preziose e confessò: “No, certamente no.”
 Caterina allargò le braccia, come a dire che la sua tesi era dimostrata, ma il Cardinale aveva ancora qualcosa da aggiungere: “Ottaviano mi sembra un bambino complesso. E ha perso da poco suo padre. Dovreste stare molto attenta con lui.”
 “Faccio il possibile.” tagliò corto Caterina, punta nel vivo.
 Aveva scelto nuovi precettori e nuovi istruttori per suo figlio, aveva fatto in modo che Forlì si dichiarasse, per mezzo del Consiglio degli Anziani, a tutti gli effetti sottomessa a lui. Insomma, aveva cercato di fare tutto il necessario. Eppure non riusciva a fare la cosa più semplice: trovare cinque minuti per stare da sola con lui e consolarlo.
 Perchè Ottaviano aveva bisogno di qualcuno che lo consolasse. Anche se Caterina lo aveva sentito dire a Cesare: “Adesso sono io l'uomo di casa, le responsabilità sono tutte sulle mie spalle.” sapeva che la spavalderia che usava come una corazza era tutta una montatura.
 Se solo l'avesse incontrato da solo in una stanza e lo avesse abbracciato stretto a sé per qualche secondo, tutta quell'arroganza sarebbe svanita e un pianto dirotto avrebbe in parte sanato quel vuoto incolmabile che divorava il cuore di Ottaviano.
 La più grande difficoltà che Caterina stava incontrando, in quei giorni, coi suoi figli era proprio quella. Non capiva a fondo il loro dolore e la loro difficoltà nell'accettare la morte del loro padre.
 Per lei l'uccisione di Girolamo, inutile fingere il contrario, era stata una liberazione. Come poteva, quindi, riuscire a consolare i figli per un fatto che, invece, l'aveva sollevata da un peso?

 Mengaccio e Rigo da Bologna ascoltavano in silenzio le parole di Francesca Bentivoglio.
 A entrambi era parso strano che la moglie di Galeotto Manfredi volesse incontrarli di persona in un'osteria così malfamata e a quell'ora di notte.
 In un moto di insolenza, Rigo aveva anche chiesto: “Ma vostro marito non si domanda dove siate in una sera come questa?”
 Francesca aveva fatto una risata secca e aveva risposto: “Mio marito non si accorgerebbe nemmeno se gli morissi davanti agli occhi. Quando desidera la compagnia di qualche giovane donna del volgo, non sa nemmeno più di avere una moglie.”
 Così nessuno dei due uomini si era più azzardato a fare domande ed entrambi si erano limitati ad ascoltare.
 Il piano era semplice ed era anche escogitato bene. Francesca si sarebbe finta malata e avrebbe fatto in modo di piazzare Mengaccio e Rigo fuori dalla sua camera. Con un pretesto avrebbe fatto sì che Galeotto entrasse nella sua camera. Era uno dei pochissimi modi per trovarlo solo, disarmato e rilassato.
 “Lo ucciderete senza pietà, dandogli il tempo di capire che sta morendo.” concluse Francesca, il volto appena coperto dal cappuccio del mantello da viaggio che aveva indossato per rendersi meno riconoscibile agli avventori della locanda.
 Non che si aspettasse di trovare dei suoi conoscenti in quella stamberga, ma la prudenza non era mai troppa.
 “Dovete odiarlo molto, mia signora.” fece piano Mengaccio, già allungando la mano per ritirare il sacchetto che conteneva la prima parte della ricompensa.
 “Potete scommetterci, mio fedele amico.” annuì la donna, sorridendo amabilmente.

   
 
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