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Autore: LazySoul    23/04/2016    2 recensioni
Salve a tutti :)
In questa storia si alterneranno le vicende delle due coppie protagoniste: Luna/Blaise e Pansy/Theodore.
La vicenda è ambientato in un sesto anno alternativo, dove il Signore Oscuro e i suoi Mangiamorte sono riusciti a conquistare Hogwarts, Harry e Ron sono fuggiti, mentre Hermione, Luna e altri ragazzi sono trattati come servi nella loro stessa scuola. Malfoy e Zabini aiuteranno le due ragazze (se volete sapere il perchè vi consiglio di leggere "Mai scommettere col nemico" e "Mai fidarsi del nemico") e le nasconderanno all'interno della scuola. Ed è così che Blaise e Luna dovranno condividere la stessa stanza, finendo con l'avvicinarsi sempre di più l'uno all'altra. Riuscirà Blaise a confidarsi con lei? E Luna sarà in grado di farlo innamorare?
Nel frattempo Pansy e Theodore sono in missione con Greyback alla ricerca di alcuni professori che sono riusciti a fuggire da Hogwarts. Pansy vorrebbe rivelare al giovane i propri sentimenti, ma ha paura di rovinare l'amicizia tra loro così impone a se stessa di non dirgli niente. Cosa succederà quando Theodore le dirà di chi è innamorato? Sarà lei la fortunata?
Bene, detto ciò, non mi resta altro che augurarvi una buona lettura! ^^
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blaise Zabini, Luna Lovegood, Pansy Parkinson, Theodore Nott | Coppie: Draco/Hermione, Pansy/Theodore
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mai Scommettere col Nemico'
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Capitolo settimo

(Blaise's point of view)



«Te quiero, bésame, ahora».

Il respiro di Soledad contro la pelle sensibile del collo mi faceva il solletico, ma non abbastanza da farmi scostare. Non avrei aumentato la distanza che separava i nostri corpi per nulla al mondo. Aumentai la stretta del mio braccio intorno alla sua vita, facendo scontrare i suoi seni contro il mio petto. Sul momento notai che c'era qualcosa che non andava, Soledad non era mai stata così minuta e fragile, ma non ci prestai molta attenzione, troppo concentrato sulla morbida consistenza di quei piccoli seni sodi - che non vedevo l'ora di baciare - premuti contro di me.

«Blaìs», mi chiamò, appoggiando la sua mano, più piccola di quanto ricordassi, sulla mia spalla, per avvicinarmi maggiormente a sé. Non amavo particolarmente il modo in cui storpiava il mio nome, ma non avevo intenzione di lamentarmi; odiavo quando mi faceva il muso.

«Tócame, ahora, por favor».

Non me lo feci ripetere due volte e affondai le dita nella tenera carne dei suoi fianchi, che ricordavo essere più larghi e abbondanti, prima di lasciar scivolare le mani più in basso, stringendo le sode colline del suo fondoschiena e avvicinando il mio bacino al suo, per farle sentire la portata del mio desiderio.

Un gemito basso fuoriuscì dalle mie labbra, mentre mi rendevo conto di essere più eccitato di quanto avessi pensato. Probabilmente avrei finito col durare cinque miseri minuti se non mi fossi dato una calmata. E subito.

«Pensavo avresti lottato per me, pensavo che non mi avresti mai lasciata andare».

Ed ecco il momento in cui il sogno da erotico ed intrigante diventava un incubo colmo di rimpianti e dolore. Sapevo di aver sbagliato, sapevo perfettamente che mi ero comportato da codardo, sapevo che avevo commesso un tremendo errore quando l'avevo semplicemente guardata mentre se ne andava via con un altro. Non l'avevo seguita, non le avevo chiesto spiegazioni, non ero andato a riprendermela, anche se una piccola parte di me avrebbe voluto farlo e così, semplicemente, l'avevo persa.

«Tu non dovevi andartene», dissi, spostando le mani, in modo da poterle afferrare le braccia e costringerla a sdraiarsi sulla schiena e lasciarsi sovrastare dal mio corpo.

«Pensavo che non tenessi abbastanza a me. E, indovina un po', cabrón, avevo ragione».

L'astio che traspariva dalla sua voce, solitamente calda e sensuale, mi fece sentire una stretta di rammarico all'altezza del cuore. Io, con le mie azioni e le mie parole, l'avevo resa fredda e distaccata, allontanandola irrimediabilmente.

«Io ti amavo», sussurrai, sentendo le sue mani irrigidirsi ad un tratto contro il mio petto e un suono strozzato provenire dalle sue labbra dischiuse.

«Blaise», quella voce non era quella di Soledad, era più dolce e lieve, come una carezza sul viso, un bacio sulla fronte, un timido sorriso.

Perché la Lovegood era sotto di me? Perché mi sorrideva in quel modo? Come se... come se avesse voluto baciarmi?

«Lascerai che ti portino via anche lei, o questa l'amerai davvero?», chiese al mio orecchio la voce roca - a causa delle troppe sigarette - della mia nonna paterna.

Confuso, mi voltai, cercando di capire da dove fosse spuntata nonna Anna.

«Blaise», mi chiamò nuovamente la voce dolce di Luna, prima che le sue piccole e fredde mani cominciassero ad accarezzarmi le guance e la sua gamba destra si avvinghiasse intorno alla mia coscia, così da far scontrare le nostre intimità.

«Ci sono qua io», mi rassicurò, facendomi dimenticare ogni altra cosa al mondo.

Con una frenesia incontrollata afferrai i bordi della maglia che indossava e la sollevai, infastidito da quel leggero strato di stoffa che mi impediva di sentire il calore della sua pelle contro le mie dita.

Affondai poi il viso contro i suoi seni ed inspirai a fondo il suo odore di lavanda, sentendomi al sicuro e protetto dalle sue fragili braccia che mi circondavano le spalle, come se avessero voluto essere il mio scudo contro la tristezza e le brutture del mondo.

«Va tutto bene», continuò a sussurrare al mio orecchio, accarezzandomi lievemente i capelli, mi sentivo così bene e in pace che pensai, senza volerlo, alle braccia di mia madre e al modo in cui mi stringeva forte a sé prima di darmi il bacio della buona notte.

«Non mi lasciare», farfugliai nel dormiveglia, prima di abbandonare ogni resistenza e permettere al dolce profumo di lavanda e camomilla della Lovegood di cullarmi in un profondo sonno.

Sognai mia zia Lucilla e la sua inquietante collezione di bambole, dove quand'ero piccolo giocavo a nascondino con i miei cugini e la balia, e il gatto persiano di mio zio Flavio che era morto ormai da anni, ma che quando ero un bambino mi divertivo a torturare tirandogli la coda ad ogni occasione. Ogni volta che quel gatto mi vedeva correva a rifugiarsi tra le fronde dell'albero più vicino, se invece ci trovavamo in casa si gettava a capofitto sotto alla stufa, che era rialzata otto centimetri da terra. Zeus, il gatto persiano, era il preferito di zio Flavio, per questo - quando il felino era morto - lo zio gli aveva organizzato un vero e proprio funerale; con fiori, bara, rinfresco e rosario. Zio Flavio era stato lo zimbello del paese per mesi, prima che la sua vicina di casa, la Signora Domenica, organizzasse un evento molto simile per il decesso del suo barboncino; da quel giorno iniziò ad andare di moda organizzare il funerale per gli animali da compagnia e lo zio Flavio venne acclamato come un eroe per mesi.

Nel sogno la Lovegood giocava con me a nascondino ed era impossibile scovarla tra le bambole disposte su scaffali e ripiani, riusciva chissà come a scomparire letteralmente tra i visi pallidi dagli occhi in vetro, forse perché anche Luna assomigliava ad una bambola di porcellana, tanto che - alla fine del sogno - era diventata lei stessa un semplice viso bianco con occhi in vetro e labbra rosse a cuore.

Mi svegliai con un sussulto e rimasi, disorientato, a fissare il viso rilassato della Lovegood - dove spiccavano i grossi occhi azzurri - a pochi centimetri dal mio.

«Buongiorno», sussurrò, sorridendomi.

«'Giorno», bofonchiai, mentre trattenevo a stento uno sbadiglio.

In quel momento mi resi conto di avere il braccio sinistro sotto la nuca della Corvonero, ecco che si spiegava il solletico che sentivo sulla pelle, mentre l'altra mano era...

Mi scostai di scatto, con gli occhi sbarrati, se la mia pelle fosse stata chiara si sarebbe potuto vedere chiaramente il mio imbarazzo sulle mie guance colorate di rosa.

«Scusa», sussurrai con voce strozzata, prima di riprovarci una volta schiarita la voce: «Scusa, non mi sono reso conto che...».

"... che la mia mano destra era stretta - anzi, forse sarebbe meglio dire aggrappata - intorno al tuo seno sinistro?"

Mi andò di traverso la saliva e iniziai a tossire, facendo la figura dell'imbranato patentato, mentre Luna mi sorrideva dolcemente, le guance soffuse da un tenue rossore e gli occhi accesi da una punta di... delusione?

"No, impossibile, ti stai immaginando tutto", pensai, infatti due istanti dopo nei suoi occhi potevo leggere solo un dolce imbarazzo.

«Non preoccuparti», disse, semplicemente.

"Non preoccuparti"? Come facevo a non preoccuparmi quando avevo un'erezione da primato e la mano che mi bruciava al ricordo della forma del suo seno morbido e sodo premuto contro la mia pelle?

Domanda da un milione di dollari: perché la Lovegood era senza maglietta?

«Avevi caldo?», le chiesi, senza utilizzare il filtro cervello-bocca di cui solitamente facevo buon uso e lasciando che quelle parole creassero ulteriore imbarazzo tra noi.

Ora le guance della Corvonero erano incandescenti.

«Non so perché sono senza m-maglietta», balbettò, coprendosi il petto esposto - del quale riuscii a scorgere l'areola più scura del capezzolo sinistro - con le coperte, mentre mi scrutava il viso con i suoi timidi occhi azzurri: «Ricordo che hai fatto un brutto sogno, che continuavi ad agitarti, così ho provato a svegliarti, e mi hai abbracciato, borbottando cose senza senso per un po', poi sei tornato a dormire e anche io... non riesco a ricordare altro...», distolse lo sguardo e lo lasciò vagare per la stanza, quasi alla ricerca di una via di fuga.

"Non puoi toglierle la coperta e toccarla, no, anche se il suo odore non ti permette di pensare ad altro! Quel capezzolo, non ho mai visto nulla di può sensuale ed innocente allo stesso tempo. Devo stringerlo tra le dita, sentire la sua consistenza tra le mie labbra. Ora!"

«Vado in bagno», sussurrò la Lovegood, prima di alzarsi, afferrare da terra la sua maglietta e stringersela sul seno.

Nel giro di due secondi era scomparsa oltre la porta, lasciandomi solo, perso nei miei pensieri nient'affatto casti.

La fuga della Corvonero era stata un bene, se fosse rimasta una manciata di secondi in più accanto a me, avrei finito per fare qualcosa di cui molto probabilmente poi mi sarei pentito. Come per esempio fare sesso con lei.

Chiusi gli occhi, feci un profondo respiro e mi portai le mani a coprirmi il viso, mentre cercavo di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa che potesse sedare l'eccitazione ben visibile che avevo tra le gambe. Inizialmente provai a pensare a mia cugina Sofia, unica figlia di zio Flavio, che aveva un problema di linea e pesava il triplo di quanto avrebbe dovuto, quando non funzionò provai ad immaginarmi la McGranitt e la Sprite nude. Un brivido di raccapriccio mi attraversò il corpo e la mia evidente erezione si afflosciò in pochi secondi. La McGranitt e la Sprite non deludevano mai.

Mi sollevai a sedere e un ricordo inaspettato mi fece gemere e sbarrare gli occhi dalla sorpresa: all'improvviso ricordai di aver sognato, tra un incubo e l'altro, di togliere la maglietta alla Lovegood per poter sentire la morbidezza della sue pelle contro il mio viso.

Quello che avevo pensato essere frutto della mia immaginazione si era rivelato essere la realtà; avevo davvero sentito i caldi seni di Luna contro le mie guance e baciato quella pelle lattea.

L'erezione che ero riuscito a debellare era tornata più potente che mai e, stretta nei miei boxer, pulsava in modo terribilmente doloroso.

Afferrai i primi vestiti che mi capitarono a tiro e li strinsi all'altezza della mia intimità cosicché, quando la Lovegood uscì dal bagno pochi secondi dopo, potei entrare nella stanza e chiudermici dentro senza che lei vedesse quanto la nottata trascorsa con lei mi avesse colpito e non in un modo del tutto positivo.

«Ti senti meglio?», chiese lei, prima che chiudessi la porta tra noi.

Non avevo la più pallida idea di cosa interessa dire, ma al momento non avevo tempo da perdere.

«Sì», dissi con voce strozzata e tono frettoloso, prima di sbarrare il legno alle mie spalle e lasciar cadere a terra i vestiti.

Con la mano sinistra aprii il getto della doccia, mentre con la destra sfiorai la mia povera erezione, rabbrividendo dalla testa ai piedi all'improvvisa scarica di piacere che m'invase mentre cominciavo a toccarmi.

Era da tempo che non ricorrevo alla masturbazione, quando si ha un fisico come il mio e il mio fascino da 'latin lover' si tende a sfruttarli i più possibile, in modo da non ritrovarsi da soli a dover scaldare il letto la notte. Era da quando era iniziata l'occupazione di Hogwarts che mi ero reso conto di quanto scarseggiassero esseri di sesso femminile decenti - e con decenti intendevo scopabili - dettaglio che mi aveva allarmato all'istante.

C'era da dire che Luna Lovegood era molto più che scopabile e, in questi due giorni a stretto contatto, mi ero reso conto di quanto fossi attratto da lei in un modo totalmente inaspettato. Volevo conoscerla meglio, sfiorare la sua pelle di porcellana ed immergermi nel suo odore di lavanda. Volevo proteggerla, lei era così piccola e fragile...

Mi bastò pensare ai suoi seni piccoli e sodi e alla sensazione di caldo benessere che mi aveva trasmesso svegliarmi con la mano destra stretta al suo seno sinistro, per venire nelle mutande come un ragazzino privo di esperienza.

Cosa mi stava succedendo?

Misi nel cesto della biancheria sporca - quello che ritiravano una volta a settimana gli elfi domestici per fare il bucato - le mutande e il pigiama, prima di entrare nella doccia e lasciare che l'acqua ghiacciata raffreddasse i miei bollenti spiriti.

Solo dopo essermi asciugato, evitando come ogni volta di guardare più a lungo del dovuto il Marchio Nero impresso sul mio avambraccio sinistro, fissai il mio riflesso allo specchio e realizzai che i sentimenti che provavo nei confronti di Luna Lovegood erano più semplici e innocui di quanto pensassi. Era solo attrazione fisica, nient'altro... certo, era una ragazza particolare, quindi mi incuriosiva il suo strano modo di pensare, ma questo non significava nulla. Tutto quello che dovevo fare era sedurla, portarmela a letto e dimenticarmi della sua esistenza. Nient'altro.

Sorrisi al mio riflesso nello specchio ed ignorai categoricamente quella piccola parte della mia mente che voleva soffermarsi ad analizzare l'infinita tenerezza che provavo nei confronti della Corvonero che si trovava in camera mia; mi imposi di lasciare ad un altro momento considerazione più approfondite sulla situazione.

Ora dovevo prepararmi per andare a svolgere le mie mansioni da Mangiamorte, poi avrei accompagnato la Lovegood dalla Granger e dopo avrei raggiunto Draco per parlare, avevo bisogno del consiglio di un amico.

Misi gli abiti che mi ero portato in bagno e ringraziai Merlino che erano puliti.

In pochi istanti ero pronto e avevo lasciato aperta sulla camicia solo la cravatta, accessorio che odiavo profondamente. Non ero mai riuscito a farmi al primo colpo il nodo e mai sarei riuscito a farmelo: la cravatta apparteneva semplicemente ad un altro universo, del quale non facevo parte e che mai avrei capito. Un po' come il genere femminile, solo che per quanto riguardava le donne ero affascinato e attratto da loro, e ciò non valeva per l'arcano mondo delle cravatte.

Una volta uscito dal bagno, ringraziai Breedy che aveva appena appoggiato la colazione sulla scrivania della stanza e studiai l'aspetto della Lovegood; aveva indossato il paio di pantaloni color della pece di Pansy e il maglioncino celeste che avevo trafugato dall'armadio di Daphne, aveva i piedi scalzi e i capelli raccolti in una treccia, fermata all'estremità da quello che sembrava il laccio di una scarpa.

«Chiederò a Daphne un paio di elastici per i capelli, così potrai legarteli più facilmente», le dissi, sedendomi a tavola davanti a lei: «Dove hai trovato quel laccio?»

Un tenue rossore si diffuse sulle sue guance: «Scusa, avrei dovuto chiederti il permesso prima di prenderlo, non ci ho proprio pensato. Comunque grazie, un codino farebbe comodo».

Annuii e iniziai a sorseggiare una tazzina di caffè nero, apprezzandone il sapore amaro, totalmente in contrasto rispetto all'odore di lavanda della Lovegood nel quale mi ero ritrovato immerso per tutta la notte.

"Basta", m'imposi mentalmente, distogliendo lo sguardo dalla lieve scollatura del maglioncino celeste: "Smettila di fare il maniaco, il fatto che tu voglia scopartela non vuol dire che lo farai. Ci devi convivere almeno fino a quando torna Pansy e poi..."

Chissà perché ma l'idea di dovermi separare dalla dolce compagnia della bionda Corvonero non mi faceva piacere, ma mi lasciava una pungente sensazione di fastidio al petto.

Improbabile che il dispiacere fosse causato solo dal fatto che avrei voluto portarmela a letto, molto probabilmente ne era responsabile anche la tranquilla routine con lei a cui ormai mi ero abituato e al costante e totalizzante desiderio di stringerla.

Era così piccola, magra e fragile che volevo proteggerla ad ogni costo, anche da me stesso.

«Sei sicuro di stare meglio?», chiese con un filo di voce la Lovegood, lanciandomi una veloce occhiata da dietro la sua tazza di tè caldo con latte.

Aggrottai le sopracciglia all'istante, non capendo a cosa si riferisse: «Sì, perché?», chiesi, forse con un tono un po' troppo freddo e scostante rispetto al solito. Involontariamente avevo cominciato ad allontanarla da me per non rischiare di ferirla.

«Ieri sera avevi mal di testa, volevo solo accertarmi che...»

Non le lasciai finire la frase, sentendomi all'istante uno stupido coglione. Come avevo potuto dimenticare la sua infinita dolcezza nell'aiutarmi anche se non ne avevo avuto veramente bisogno, dato che il mio male era marginale?

"Sei proprio uno stupido coglione e non meriti di respirare la sua stessa aria".

Le sorrisi appena, per cercare di rassicurarla ulteriormente: «Sì, sto benissimo, il mal di testa per fortuna è passato ed ora mi sento come rinato. Grazie per a-avermi aiutato», mi sentii il viso in fiamme per il tono balbettante con cui avevo detto l'ultima frase.

"Cosa c'è che non va in me, accidenti?", mi chiesi, sistemandomi nervosamente il colletto della camicia bianca che indossavo.

Ringraziai la mia pelle scura e il fatto che lei non potesse vedere le mie guance tingersi di porpora per l'imbarazzo, prima di posizionarmi davanti ad uno specchio ed iniziare l'usuale litigio con la cravatta.

Con le dita che mi tremavano appena per il nervoso provai e riprovai a legarmi la cravatta al collo; tirai prima un'estremità poi l'altra e ancora una volta sbagliai qualcosa.

Sbuffai infastidito e riprovai.

«Hai bisogno di una mano?», chiese Luna Lovegood, facendomi perdere la concentrazione per due miseri secondi che furono fatali e dovetti ricominciare da capo la mia impresa.

«No, grazie», risposi, con un sorriso trionfale quando riuscii a fare il nodo: «Ce l'ho fatta da solo».

Mi voltai e rimasi per pochi secondi a sistemarmi i vestiti, prima di afferrare la bacchetta, il mantello e la maschera da Mangiamorte, pronto ad andare a dare il cambio a Tiger.

«Torno tra un'oretta, ti accompagno poi io dalla Granger», dissi alla Lovegood, sorridendole e -ignorando la sensazione di pace che scrutare i suoi grandi occhi azzurri mi trasmetteva - uscii dalla stanza a passo veloce, per non cedere ai miei istinti e baciare le sue labbra color pesca.

  
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