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Autore: Stray_Ashes    28/04/2016    3 recensioni
“Gerard correva, da tutta la vita, e l’inchiostro se lo sentiva scorrere nelle vene, nero, intenso, dall’odore chimico e pungente, intriso di immagini e parole, bisognoso di carta su cui essere steso.
Gerard amava pensare che la sua arte gli entrasse dentro, abbastanza nel profondo da oltrepassare la pelle e strisciargli nel cuore, assecondare la forza dei battiti e correre su fino al cervello, per nutrire i suoi pensieri.
Frank voleva essere libero, libero dall’obbligo di sentire tutti giorni quelle voci, quelle grida, che lo accusavano, lo assillavano, spietate...
Frank era da solo. Aveva pensato così di poter essere al sicuro, protetto dalle lingue taglienti degli altri, ma non era vero.
La verità, era che Frank aveva un disperato bisogno di qualcuno, per ritrovare sé stesso.
E Gerard, invece, non aveva bisogno di nessuno, non finché qualcuno non avrebbe avuto bisogno di lui.”
______________________________________________
«Perché non mi hai lasciato morire...?»
«Perché non c'era abbastanza tristezza nei tuoi occhi, Frank.
Perché, dietro le tue iridi, c’era ancora della luce.
E non mi piacciono, gli sprechi.»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Eh voilà il capitolo 2... e già sto cominciando ad avere problemi con le narrazioni. Chiedo scusa in partenza, se rimane tutto un gran casino... spero di risolverlo.
Uh, non credo che lo farò per tutti i capitoli, ma.... il capitolo è in parte ispirato a Set The World On Fire, dei Black Veil Brides.

Ha, dicemnticavo... molti concetti in questo capitolo sono ripresi da due delle mie One Shot, quindi, se non le avete ancora lette, vi converrebbe... 
Vi lascio il link: 


-   "The Ghosts of Everyone That Tried To Fly"

- Blasphemy


Buona lettura!







 
2.  Break Free, Sinner

 
Allo scoccare impreciso dell’ora, qualcuno volse gli occhi all’alba, nulla più che un chiarore accennato, rosato e verde-acqua, dipinto a Est sopra l’orizzonte... e segnando così la fine della notte.
Incurante di tutto il mondo e tutti i problemi umani, la mattina il sole abbandonava l’altro viso del mondo e allungava le dita luminose, calde, per scaldare il petto al cielo dell’America.
Da lontano, dal punto oltre l’Universo in cui la mente di Gerard sfoltiva e diradava nebule, quel treno vecchio era invisibile, si fondeva al resto del paesaggio e diventava una macchia in penombra, che pigro e lento il sole provvedeva a colorare, in un meccanismo schematico, costante eppure irregolare. Era invisibile, certo, ma sulle rotaie sballottò e stridette lo stesso, sinistro, e Gerard dovette tornare alla realtà, drizzando la schiena e trattenendo per un attimo il respiro.
Non si era addormentato, non si addormentava mai quando era in viaggio, si era solo semplicemente perso in sé stesso; tuttavia, quella re-immersione nel mondo degli uomini e delle loro parole, lo scosse abbastanza da decidere che era il momento di scendere, in qualunque città si trovasse adesso... e fu lì che si rese conto del perché il treno avesse sballottato: era fermo, al capolinea.
Si sporse in avanti, sfiorando il finestrino con la fronte, e cercò con lo sguardo il cartello che gli avrebbe comunicato il nome della città; lo trovò in fretta, nonostante lo scarso chiarore dell’alba: Hershey, da qualche parte in Pennsylvania. Gerard storse le labbra: aveva un’idea vaga di dove si trovasse sulla cartina, e sapeva che non era troppo lontano dal Jersey e da casa sua, ma si accontentò. Sarebbe andato più lontano, la settimana successiva. E così le settimane a venire.
Per diversi istanti seguì con gli occhi e un’espressione annoiata la gente alzarsi dai loro posti, muoversi scomposta e svogliata, prendere bagagli e fardelli, respirare e scendere dal treno, spintonata da altri fantasmi. E questo, era più o meno il riassunto di ciò che facevano tutti, tutti i giorni. Con o senza treno, in quasi ogni angolo del mondo.
Ci si alzava, poi c’era da respirare, pensare un po’, recuperare i propri piccoli tormenti e allontanarsi dai volti sconosciuti, dai luoghi, gli odori, e tornare nella propria, sobrissima, routine.
A Gerard venne da sorridere, e decise di giocare: si alzò, barcollò un poco su sé stesso, respirò a fondo l’aria umida, da altri già respirata, si fece carico del proprio bagaglio che altro non era se non la sua testa e si avvicinò all’uscita: non c’è che dire, poteva quasi sembrare normale.
D’altronde, nessuno si accorgerebbe davvero troppo della figura slanciata di un ragazzo in una felpa grigia, dallo sguardo di pietra e i capelli neri, anfibi di pelle e pantaloni stretti e scuri: finché resta lontana dal tuo cellulare e il tuo portafogli, di una persona così non ti accorgi nemmeno l’esistenza.
Gerard, dal suo canto, amava essere così.
Nero, grigio, bianco. Colori piatti, passati inosservati.
Era un po’ per questo che Gerard nascondeva gli occhi verdi sotto i cappucci e sotto i capelli; era un colore sporco, magnetico, se lo riconosceva ogni volta allo specchio, ed era anche molto scomodo, perché quello, la gente, restava a guardarlo. E la gente non poteva.
L’anima di Gerard era intima, privata.
 
Si chiese come dovesse essere da fuori, la sua figura piuttosto esile, nella vastità di una stazione vuota, desolante, illuminata gialla a intermittenza dalla luce rotta e ronzante di un lampione. La sua ombra si gettava sfinita dietro le sue spalle, si attaccava alle scarpe e si insinuava tra i dislivelli dei mattoni, fino ad oltrepassare la linea e collassare nella zona buia delle rotaie, che da minuti avevano smesso di vibrare.
Gerard era sceso ed era rimasto fermo, ad assaporare il suono della stazione che di suono non ne aveva alcuno, ora, perché ogni persona era sparita; sembrava abbandonata, congelata nel tempo, malinconica e prossima a morire, se si tralasciava il fatto che viva non lo era mai stata.
Gerard amava quei pochi secondi di vuoto assoluto, a cui facevano da cornice, lontanissimi, lo sgocciolio lento di acqua, il rombo di motori stanchi, una sirena chissà dove nella coltre della notte, il rumore del proprio respiro sulle labbra e il battito regolare del suo cuore nel petto.
Il mondo era una cacofonica bellissima armonia.
Gerard inspirò, espirò, lanciò un’occhiata all’orologio da polso e socchiuse le palpebre: un minuto, e la vita umana sarebbe tornata a esplodere. Sentiva già le rotaie vibrare placidamente per un treno in arrivo, che portava chissà dove, e in meno di niente quel posto sarebbe di nuovo stato gremito e straripo di gente stanca che andava a lavorare.
Gerard si decise a spostarsi prima di vedersi venire addosso un’onda di quelle dimensioni, e allontanandosi ascoltò compiaciuto il battere degli anfibi sul cemento, in quel ritmo regolare che sembrava quasi musica, la cadenza marciante di una parata.
Nel giro di pochi istanti, uscì dalla stazione e si costituì, libero peccatore, alla città di Hershey, che avvolta da luci notturne sembrò quasi tendergli una mano, mostrandogli con l’altra i suoi piccoli segreti.
Hershey era una città senza troppe pretese, classica americana, pulita dove doveva esserlo, di notte viva lì dove serviva, con edifici monumentali alternati ad edifici tutti uguali: l’uomo, nelle sue creazioni, scriveva piccole autobiografie; nessuno più di un artista avrebbe potuto accogliere a braccia aperte quell’affermazione, e si dà il caso che, Gerard, l’inchiostro dell’artista l’avesse anche nelle vene, oltre che sulle dita.
 
Ci si definiva un artista non come ci si definiva idraulico, impiegato, o bidello; ci si definiva artista in alternativa a persona, a essere umano, perché era tutta un’altra cosa, un’altra categoria, e meritava sinonimi e contrari dello stesso calibro.
Se una persona aveva nella propria testa una piccola città, allora un artista aveva incastrato nel cervello un piccolo universo, e poteva essere vestito con i panni di un disegno, con i panni di un racconto, con i panni di una canzone.
Gerard scosse la testa e scacciò i pensieri, perché il tempo, per quanto un’illusione, scivolava via veloce: la notte era già finita, e l’alba aveva il vizio di durare anche meno di un istante.
Si chinò, afferrò una piccola pietra dal terreno e se la infilò nella tasca dei jeans.
 
Una sorpresa curiosa, fu adocchiare cartine della città e notare foto di un enorme parco divertimenti, tra piscine e metri e metri di montagne russe. Gerard storse il naso; non erano posti che amava, e non affatto adatti al mese di gennaio, senza contare il fatto che, comunque, d’estate, sarebbero stati troppo gremiti di gente.
Per il resto, Hershey era accogliente, anche troppo, e dovette girare a vuoto e a lungo per riuscire a trovare zone in grado di rompere quella diabetica armonia, che era stomachevole e, ai suoi occhi, finta... solo per questioni di abitudini, probabilmente. Era un po’ un’utopia pensare potessero esserci quei tipi di città: bei luoghi e belle immagini, come uscite da un film, un ritratto di serenità per un manifesto anni ’50, piene di verde, di regole, rispetto e sicurezza.
Era solo una facciata esterna, quest’armonia? Poteva essere solo un sorriso disegnato su un volto vuoto? Hershey stessa sembrava una pennellata colorata ed abusiva sopra al volto scarno dell’America, ma Gerard era sicuro che ogni città nascondesse qualcosa, di losco sotto la bellezza, o di bello sotto la sporcizia.
E alla fine li trovò, i quartieri un po’ più malfamati della città, che gli ricordarono un po’  il Jersey, o almeno, alcune delle sue zone più tranquille. Aveva visto luoghi e persone che, qui ad Hershey, non potevano neppure far finta di immaginare.
Più che malfamate, erano strade desolanti, vuote, dai muri consumati e qualche lattina abbandonata. Non era brutto, semplicemente, non era curato, e stonava con l’assoluta pulizia di tutto il resto... Era un po’ come dire ad una donna quanto fosse bella, per poi farle notare con disgusto che aveva le scarpe sporche e consumate.
Era un posto momentaneamente dimenticato, sprecato. A Gerard piacque. Che qualcosa nel suo petto si trovasse in sintonia?
***
Onestamente? Gerard non ricordava molto bene cosa l’avesse portato lì, seduto per terra sul cemento sporco, la schiena appoggiata al muro segnato dal tempo, le braccia abbandonate sulle ginocchia tirate al petto, il labbro inferiore fra i denti e la presenza tranquilla di uno sconosciuto al fianco.
Onestamente? Gerard si sentiva relativamente bene.
«...no, il punto è che le capisco. Se potessi anch’io volerei via al caldo, specie in questi mesi. Fa un bel freddo tra questi muri. Capisci ciò che intendo?» stava dicendo l’uomo.
Gerard annuì piano, alzando il volto verso il cielo grigio e malinconico di Hershey. A lui piaceva gennaio, tuttavia. «Oh sì, capisco»
Ricordava di star camminando per le strade vuote, quando l’uomo, già addossato al muro, gli aveva rivolto una domanda. Era stata una conversazione molto strana.
«Hai da accendere...?»
«No. Io non fumo» aveva risposto tranquillamente Gerard, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
«Già, nemmeno io»
Sì, era stata una conversazione strana.
«Hai qualcosa di forte da bere?»
Gerard aveva scosso la testa, pensando a quanto la gente fosse strana. «No. Non bevo. Ma qualcosa mi dice che “no, nemmeno tu”»
L’uomo aveva storto le labbra.  «Oh, purtroppo invece bevo sì.»
Gerard ricordava di aver sollevato le sopracciglia, pensando che forse avrebbe dovuto andarsene, ma quello che aveva davanti era uno dei soggetti più strani di sempre, probabilmente non avrebbe trovato niente di maggiormente interessante in tutta Hershey.
«Posso essere confuso da questa conversazione?», e Gerard era stato serio, confuso lo era davvero. Era una sensazione strana, a dirla tutta, essere confusi. In genere, teneva tutto quel che poteva sotto controllo, lasciandolo galleggiare nella sua nuvoletta di logica e di filosofia.
«Certamente che puoi, è una delle ultime cose gratis a questo mondo» aveva risposto l’uomo, spazzolandosi pigramente i pantaloni lerci. «Ho solo riconosciuto in te il mio sguardo di tanti anni fa...»
E Gerard aveva piegato di lato la testa.
«..quello di quando cominciai a correre»
E, questa volta, Gerard aveva permesso al cappuccio di scivolargli via dal capo; subito il vento leggero si era impadronito delle ciocche nei suoi capelli neri, muovendole svogliatamente, come fossero sott’acqua. Non aveva paura che quell’uomo lo guardasse negli occhi, perché quella frase che aveva detto sembrava una di quelle che lui stesso era solito pensare. Anche l’uomo aveva gli occhi verdi, e nella penombra dell’alba, Gerard lo notò.
«E adesso...? Non corri più?»
«Fuggire consuma tanta forza e tanta anima, e so che tu lo sai. Un giorno sono inciampato, e non sono più riuscito a correre, ma può succedere, capisci? O si è troppo vecchi, o si è troppo deboli, o si è troppo soli, o ancora troppo inseguiti dal fantasma di qualcuno; si incontra un dislivello e si cade»
E Gerard si era ritrovato seduto al suo fianco, nella posizione in cui era tutt’ora. «E’ per questo che bevi?»
«Bevo perché non so più correre, e ho consumato i gomiti strisciando» aveva detto, facendo spallucce e guardando dritto davanti a sé. «Ciò che mi resta, è aspettare di imparare a volare. Bere mi aiuta un po’»
Gerard aveva abbassato il capo, schermandosi dietro le ciocche scure. «Ma per volare, bisogna trovare un burrone e avere il fegato di gettarsi di sotto. E se non si aprono le ali, sei morto»
«E la cosa ti spaventa?»
«Forse»
«Cadendo persi molte delle mie paure. Le paure facevano ancora parte dell’innocenza infantile, sapevi? E’ quando smetti di avere paura che ti senti entrambi i piedi nella fossa»
Sì, Gerard lo sapeva già, era un ragionamento che aveva fatto, probabilmente in treno, diversi mesi fa. La paura è parte integrante dell’infantilità, per questo gli adulti, adulti non sono: hanno ancora paura e ancora sono infantili.
«Sai qual è il punto?» aveva detto poi Gerard, incrociando le braccia e inumidendosi le labbra seccate dal vento invernale. Aveva solo una felpa, ma non avrebbe mai ammesso a sé stesso di avere freddo. «Se cadi mentre stai correndo, puoi rialzarti, ignorare le ginocchia sbucciate o le caviglie slogate. Fatto sta, che puoi ancora fare qualcosa, puoi ancora spostarsi e respirare aria diversa.
Invece, se si cade tentando di volare, non ci si rialza più. Il mare è pieno di petrolio, e  non si stacca dalle piume.»
L’uomo, dal suo canto, aveva ridacchiato, senza gioia. «Ma ragazzo, volare è libertà. E’ persino la libertà di cadere nel petrolio e soffocare. Lo accetterai quando smetterai di correre»
Gerard aveva sorriso, con amarezza. Con quell’uomo si sentiva simile, e molto diverso. «Non smetterò di correre. E’ una sfida con cui ballo da tutta la vita. E non ho nessuna intenzione di perdere.»
«Non ami perdere?»
«Nemmeno un po’»
E da lì, Gerard ricordava poco, o almeno, non ricordava molto bene come fossero passati a parlare di rondini.
«Bene,» disse l’uomo. «Invidio molto le rondini. Beh, sai, hanno le ali. E loro chiamano casa il calore che sentono tra le piume, e non importa il nome del luogo, o il suo odore, o chi ci abita. Chiamano casa dove stanno bene.»
«Chiamare un posto casa è destabilizzante tanto quanto lo è non averne una»
«Credo che sia così,» annuì d’accordo, il tizio. «Perché il problema, è che gli uomini si legano al posto chiamato “casa” con le catene, e gettano la chiave. Casa dovrebbe essere un qualcosa che è possibile portarsi dietro; magari una persona»
«Le persone tendono a restare indietro» mormorò Gerard, piegando la testa da un lato.
«Può darsi. Ognuno corre a modo suo, ma magari basta decidere un ritmo, per non perdersi. Io la persi, la mia occasione»
Gerard aggrottò le sopracciglia, insicuro. Non aveva bisogno di nessuno da chiamare casa, ma sapeva che gli altri erano diversi da lui, per fortuna, e dalla vita avevano bisogno di cose differenti, rispetto a lui. Per un secondo si immaginò un mondo di tanti sé stesso.. ew. Rabbrividì, perché ce ne erano già troppi anche solo nella sua mente. Girò la testa e sollevò lo sguardo, incontrando quello verde dell’uomo accanto a lui: non doveva avere meno di quarant’anni, la barba era malfatta e con il segno di una cicatrice, gli occhi tristi e infossati, una ruga costante sulla fronte.
Gerard non sarebbe invecchiato così, se lo ripromise ancora. Piuttosto, sarebbe morto prima. Non aveva intenzione di restare accostato ad un muro ad aspettare di volare, o di veder comparire uno degli angeli in cui non credeva.
«Avevi una persona da chiamare casa...?» azzardò, senza spostare lo sguardo da quello dell’altro.
L’uomo sorrise, con nostalgia, malinconia, amarezza; quello era lo sguardo conseguenza di un ricordo che riaffiorava sul pelo dell’acqua, dell’oceano di un’esistenza intera, come un veliero fantasma che la luna richiama su dal fondale, perché interrompa la linea imperfetta dell’orizzonte ed increspi le acque. 
«Io... credo di sì, ma è stato molto tempo fa. Troppo.»
Gerard spostò lo sguardo verso il nulla della strada, stringendo le labbra. «E’ rimasta indietro?»
«La lasciai, indietro»
Gerard non chiese nient’altro, non voleva sapere. Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui entrambi ascoltarono i rumori sommessi della città, che, lontano, si svegliava. Il ragazzo ricordò la quiete immobile della stazione, il lampione rotto, lo sgocciolio dell’acqua... ora, mentre lui parlava nel freddo di un vicolo, la voce degli uomini doveva aver rotto l’impeccabile armonia di quell’attimo di stallo a cui aveva assistito.
«Tu che cosa chiami casa...?»
Gerard rimase immobile, a fissare il vuoto, vuoto che lui vedeva pieno di mille milioni di possibili, improbabili cose. Era sempre così: quando era in moto il suo cervello, lasciava che lo sguardo si perdesse altrove, tra le pieghe del reale e l’irreale.
«Forse, niente. O forse, per me casa è il piccolo Universo che si è preso il 10% del mio cervello quando nacqui» mormorò infine, come se stesse raccontando una battuta triste. Perché sì, la sua ragione era un piccolo Universo, ed era l’unica cosa che lo aiutava davvero a vivere, oltre che l’unica cosa con cui avrebbe dovuto convivere per il resto della sua esistenza: quando se n’era accorto, Gerard si era assicurato di andare abbastanza d’accordo con il proprio cervello, e per ora, non c’erano particolari dissidi.
Passare la vita con chi odi o con cui ti ritrovi a litigare, è un suicidio già in partenza.
Rimasero di nuovo in silenzio a lungo, e il sole sorse sempre più in alto nel cielo, illuminando Hershey in modo delicato, come se davvero gli importasse di non ferirle gli occhi; la luce improvvisa ferisce, il buio ti avvolge e ti fa sentire perso, ma tira solo giochi psicologici, mai davvero fisici.
La luce mette in risalto troppe perfezioni e imperfezioni, e pone troppi limiti alle cose.
Gerard ricordava ancora molto bene il pensiero di Leonardo da Vinci, ed era grato, quindi, alla penombra che il muro alle sue spalle gli offriva.
«Jason» disse improvvisamente la voce al suo fianco.
«Gerard» rispose il ragazzo, appoggiando la nuca al muro e socchiudendo gli occhi, osservando le nuvole spostarsi. «Resterai qua ad aspettare di volare, Jason?»
«Temo proprio di sì»
Gerard annuì piano, e lasciò che le palpebre gli cadessero sulle iridi verdastre.
«E tu continuerai a correre come un randagio?»
Sentì un sorriso increspargli un lato della bocca, con un’arresa allegria. «Temo proprio di sì».
 
 
 
 
 
«Sapete qual è il danno, però...?»            
Il suo era stato un sussurro a fior di labbra, tremolante e stremato.
«E’ che ancora mancate da far male...»
A quello, le lapidi di marmo, sfregiate da polvere e pioggia, risposero mute, e non si mosse nulla. Niente si sarebbe più mosso.
Non c’era nemmeno più il vento di gennaio.
Frank sorrise, con tutta l’amarezza che aveva, e si sentì le lacrime incastrate sulle guance, quelle che aveva pianto poco prima, scivolargli sul labbro e riempirgli di sale il palato. Chinò la testa, lasciando che i capelli neri scivolassero in avanti, coprendogli il volto fino al naso.
Era una scena desolante, quasi patetica, come rubata ad un film dalle pretese tragiche, fallite, messe in atto buttando in ginocchio un ragazzo distrutto, nell’anima e nel corpo, davanti a lapidi scure dai numeri insensati, a fissare foto ingrigite di sorrisi sbiaditi, di lineamenti, voci ed odori che al mondo non esistevano più. Restavano solo i ricordi, ma anche quelli sarebbero morti piano piano.
«Lo so, lo so... non ne potete neanche più di sentirmelo dire, ma è tutto ciò che... ho. Che mi resta. Una manciata di parole da buttare al vento, o in faccia ad un blocco di pietra. E non riesco a capire perché non – non riesco ad avere nient’altro, per cui vivere. I-io vorrei...» la voce gli si ruppe in gola, e Frank dovette deglutire. Ormai, tanto, non aveva più liquidi da sprecare in lacrime.
Ma il dolore era ancora lì, non era come l’acqua, e non evaporava con l’arrivo dell’estate.
Frank si sporse in avanti, e con le dita bianche e sottili sfiorò la foto di suo padre. «E’ ancora colpa mia» e non seppe neanche se lo disse o lo pensò, se lo confessò al vento, che gli portò via le parole, disseminandole altrove, o se lo confidò all’intimità tra sé stesso e il suo peccato. Guardò la foto di sua madre, poco più a fianco, e si morse le labbra in una smorfia tra un sorriso malinconico e un grido trattenuto di dolore.
Aveva già gridato, aveva già gridato tanto.
E non era stato il solo, a farlo. Le grida degli altri lo inseguivano ancor più che le proprie.
Come poteva lui, aver fatto tanto male...?
Ma nel mondo tutti quanti sono capaci a uccidere, e improvvisamente, basta un niente.
Frank lo sapeva.
E aveva voglia di morire.
Cosa ci sarebbe stato di sbagliato? Nulla.
Cosa ci sarebbe stato di tragico? Nulla.
Nessuno poteva più piangere per lui, perché Frank era morto dentro tanto tempo addietro, ed era da solo, adesso, in quel mondo spietato che aveva ancora fame delle lacrime e dei tormenti altrui.
 
Frank si sentì mancare il fiato e si spinse in piedi, allontanandosi dalle lapidi dei suoi genitori, o rischiava di svenire lì, sulla terra brulla, se sprecava le ultime forze che aveva in altra autocommiserazione.
Da quanto tempo non mangiava?
«Buonanotte mamma. Buonanotte, papà»
Cominciò ad camminare a ritroso, senza staccare gli occhi da quei fiori finti o secchi, portati da parenti sconosciuti, trasparenti, invisibili come fantasmi.
Lui non portava fiori. Non l’avrebbe fatto
Si sentiva male, male da poter vomitare fuori l’anima, abbastanza da perdere sangue dagli occhi e buttarsi a terra, racchiudersi su sé stesso, finché non sarebbe morto dissanguato, o per mano dell’inverno, o per carezza della fame.
Aveva ancora una lapide, da andare a trovare, su cui piangere altre scuse e altri distruttivi desideri, e solo allora si sarebbe concesso di tornare nella sua casa vuota... perché sì, sarebbe tornato.
A casa.
Aveva male, aveva male ovunque, ma non poteva abbandonarsi a stupidate, Frank, perché... perché aveva davvero voglia di lasciarsi andare e farle, le cretinate, e faceva bene ad avere paura di sé stesso. Frank si sentiva imprevedibile, oltre che impulsivo. E non voleva scoprire quanto effettivamente era spezzato.
Non puoi contare i centimetri alle crepe, quando queste si aprono all’interno.
 
La lapide di marmo di Julie, sembrava quasi lilla. Frank l’aveva notato subito, anche in mezzo ai pianti, anche mentre svuotava l’anima dalla propria umanità e dal proprio contegno.
Julie amava il lilla, Frank l’aveva sempre odiato. Ed ora era lì,  troneggiava su di lei, e appoggiato sulla terra sfoggiava pomposamente quei riflessi, fissando il ragazzo negli occhi. Nella vita e nella morte, vinceva sempre Julie. Lei, e il suo colore.
E sì, Frank l’aveva amata tanto da star male, anche se le piaceva il lilla, anche se voleva vincere sempre, anche se non stava mai ferma, anche se a volte sembrava bipolare, anche se sputava in faccia alle persone esattamente quello che pensava, del tutto incurante del resto.
L’aveva amata per questo, e per tanto altro.
L’aveva amata anche se l’aveva uccisa lui.
Vedere la sua lapide immobile gli strappava ogni volta le viscere, ma alla fine resisteva, riusciva a lasciare quel luogo e continuare a far finta di essere vivo... ma questa volta, Frank si bloccò: davanti alla lapide color glicine di Julie, riconobbe tre persone. Una alta, di un uomo; una bassa, di una donna; una slanciata, di un ragazzo.
Due piangevano, anime strappate da qualcosa di devastante come lo era la morte, e l’altra... l’altra lo guardava, con grandi occhi di ghiaccio, gli stessi di Julie, ma questa volta carichi di vendette mute, di rabbia, disgusto, disprezzo, odio, incredulità, astio, e tutto questo condensato nello stesso immobile sguardo, tutto questo sommato in un’espressione... vuota.
Il fratello di Julie, lo guardava con occhi vuoti.
Ma Frank ci lesse comunque quello che c’era bisogno di leggere.
“E’ colpa tua.”
Avrebbe mai smesso di soffrire? Di far soffrire?
“Dovevi morire, dovevi morire anche tu. Dovevi morire solo, tu.”
Le gambe tremarono, ed ebbe bisogno di correre.
Correre, per poi fermarsi, e non muoversi mai più.
Scavalcò sassi, attraversò il cemento, inciampò, cadde, perse altro sangue, tossì e sputò, riprese a correre, scompostamente, sentendo dolere le caviglie, ma non ci badò, non si fermò, non finché i polmoni quasi non  esplosero.
Voleva andare via
Voleva andare via
Voleva andare via,
ma non poteva. L’uomo aveva costruito il mondo cosicché quelli come lui non potessero fuggire. Non aveva i soldi, Frank, e non aveva coraggio, perché il mondo era immenso, e non aveva nessuno su cui fare davvero affidamento. Chi sarebbe venuto ad abbracciarlo in un vicolo, o davanti a una stazione, se mai avesse dovuto perdersi? Chi ci sarebbe stato a tergergli una lacrima quando le sue resistenze di carta crollavano, sotto il peso struggente della gravità e dell’atmosfera intera? Chi avrebbe travestito le sue debolezze in forze, in modo da nasconderlo dagli occhi indiscreti del mondo, per poi togliere la maschera, baciare i difetti e trasformarli in qualcosa di bellissimo, nel buio di una stanza?
Nessuno.
Se Frank avesse cominciato a correre davvero, sarebbe morto molto presto... oh, ma allora forse non era poi così male. D’altronde, non era tanto diverso da quello che voleva, ormai.
Frank, però, era stanco marcio di correre, e non ci riusciva più. Sarebbe fuggito anche strisciando, ma non ci riusciva più. Non riusciva più.
E allora, forse, non c’era bisogno di correre.
Forse, per essere liberi, bastava ascoltare il vento, e tentare di volare.
Niente più piedi, niente più gambe, niente più affanni. Forse, bastavano le ali.
 
Frank sentiva caldo, e assaporava già il sapore dolceamaro dell’Inferno, il sudore scorrere sulla pelle diafana dei suoi demoni, e sfrigolare cadendo fra le fiamme.
Gli angeli erano sempre tutti così seri. Il diavolo, invece, l’avrebbe accolto col sorriso.
Ehy, mamma, papà... fa freddo al cimitero? 





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Non ho molto da dire, in realtà, se non che anche il capitolo 3 ce l'ìho già, ma ho già una specie di blocco... solo perché non riesco a farmi piacere il mio metodo di narrazione. Non sapete che palle di sensazione sia.. oppure sì?
Beh, come al solito vi bacerei per un parere, una critica o un commento, ee.... beh, questo è quanto. 
Se riesco, spero di tenere un aggiornamento regolare di una settimana, massimo due.. se vado oltre le due, significa che ho un blocco con la storia, o che sono morta, o che mi hanno abbandonato da qualche parte senza internet. 

Comunque, per adesso Gee me lo immagino un po' così, e per spiegarvi il così, vi metto uno dei miei disegni (un po' vecchiotto ormai).. certo, nella storia ha quasi 18 anni, ma diciamo che ne dimostra qualcuno di più. Insomma, avete capito.. o almeno spero. 
Ed eccolo qua (non sapete che parto, la giacca): 






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_Stray Ashes_
  
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