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Autore: balboa    03/05/2016    3 recensioni
Importante: quello che ho scritto è frutto della fantasia, deliberatamente ispirato a dei fatti reali. Ho deciso di cominciare proprio dall'inizio dell'avventura di Axl Rose, anche da prima che nascesse. Scriverò su come secondo me potrebbe essere andata la sua vita, cercherò di catapultarvi dentro di essa, andando oltre alle solite informazioni che si trovano in Internet. Con ''personaggi-quasi tutti'' non intendo che saranno presenti già Slash, Duff o Steven. Li aggiungerò più in là o in un'altra storia. Intendo invece la famiglia e gli amici. Ok grazie per l'attenzione e buona lettura :D.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Axl Rose, Izzy Stradlin, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Dicembre 1976, Lafayette
''quello lì ha il quoziente intellettivo di un acino d'uva. Non ho intenzione di starlo a sentire'' pensava il ragazzo. Odiava suo padre. Aveva cominciato a tartassarlo per la lunghezza dei suoi capelli. Adesso arrivavano più o meno a metà collo e ogni ciocca era per cavoli suoi. Che c'era di male? A lui piacevano.
Stava tornando a casa dopo le lezioni di piano, a piedi, al freddo, con le dita gelate.
''mi stanno andando in cancrena porca miseria''. E poi c'era la neve. A Lafayette nevica pochissime volte l'anno ma quando succede è davvero impossibile stare all'aperto senza trasformarsi in un polaretto gigante. Aveva il naso un po' arrossato e gli occhi gli lacrimavano, il che gli faceva saltare i nervi. Il muso lo teneva coperto dalla giacca. Guardava il marciapiede coperto da strati di neve e gli scarponi che ci affondavano dentro. Guardava con invidia le famigliole felici nelle macchine che gli passavano accanto. Con rabbia strinse i pugni nelle tasche. Perché non poteva avere una famiglia come quelle? Sembravano come preconfezionate, tutti quanti sorridevano tra di loro e non facevano che aiutarsi o sostenersi. Erano perfette, ridevano e scherzavano felici come quelle delle pubblicità dei ceriali.
Suo padre era andato a prenderlo dalle lezioni di piano e poi invece di tornare a casa aveva accostato davanti allo studio di un barbiere.
-o ti tagli i capelli o torni a casa a piedi- gli aveva detto senza neanche guardarlo in faccia. Bill non aveva battuto ciglio ed era sceso dall'auto. Poi si era allontanato senza voltarsi indietro. Ora era al freddo, con la neve che il vento gli sparava in faccia. Erano le sei e trentacinque. Entrò in un edicola per comprarsi un giornalino. In tasca aveva qualche soldo.
-ciao-.
-ciao ti posso aiutare?- chiese il commesso alzando gli occhi da una rivista.
-no- rispose il ragazzo -faccio da solo-. Quasi subito trovò il nuovo numero del fumetto di Topolino e decise che sarebbe uscito con quello. La cassa traboccava di ogni genere di schifezze da far cadere i denti di botto e da arricchire il portafoglio dei dentisti. Liquirizie, gomme (quelle adatte per fare le bolle), bastoncini di zucchero, altre gomme dure come il cemento, mini distributori di caramelle colorate gigantesche, ancora gomme tutti i gusti, cioccolati al latte, fondente o bianco, con le nocciole, caramelle da succhiare al limone, fragola, anguria e via di questo passo. E poi c'era anche la macchina per fare i frullati, dietro il bancone. Quando uscì da quel posto aveva le tasche gonfie di dolci, il fumetto sotto braccio e un frullato alla ciliegia in mano. Suo padre non gliele aveva mai comprate le caramelle da bambino, neanche quando faceva scenate al negozio per avere almeno un lecca-lecca.
Nevicava ancora. Doveva strizzare gli occhi per vedere davanti a sé, i fiocchi cadevano così fitti che faticava a vedere a un palmo dal suo naso. Non gli passava neanche per l'anticamera del cervello di tornare a casa. Sapeva che suo padre l'avrebbe pestato.
''sei un effeminato, guardati. Con quei capelli lunghi sembri una puttana''. Oppure lo chiamava feccia, checca. A volte giusto per stuzzicarlo e guai se rispondeva. Bill ovviamente, per come era fatto, tra orgoglio e testardaggine, si difendeva sempre e si beccava qualche sberla. E poi, in ogni caso, una ragione per pestarlo c'era sempre. Decise che sarebbe stato giusto prendersi i pugni e le cinghiate sul culo per un motivo che non fosse invisibile. Invece di andare dritto verso casa sua andò a destra, verso casa di Jeff.
Le mani erano ancora fredde e bianche. Gli facevano un po' male. Era sembra stato così fin da bambino, quando pensava di poter ghiacciare il sole con un mignolo. Ormai chi ci faceva caso al dolore.
Agilmente sfilava una striscia di liquirizia dopo l'altra dalla tasca. Doveva strapparle coi denti, come si fa con il bacon, perché erano durissime.
Arrivò davanti a casa di Jeff. Lo conosceva da alcuni mesi. Sembrava un tipo apposto, con la sua stessa mentalità e i suoi stessi interessi.
Suonò il citofono e poco dopo dalla finestra del condominio vide affacciarsi l'amico. Jeff gli disse di salire. L'appartamento era al quinto piano e Bill ci arrivò stremato dopo rampe e rampe di scale infinite. Bussò e Jeff aprì poco dopo con uno di quei maglioni con le renne rossi, blu e bianchi e sopra ricamate le iniziali del suo nome. Bill scoppiò a ridere.
-zitto, per favore. È stata quella mia nonna che abita in Florida a farmelo e se non lo metto si offende-. Jeff abitava con sua nonna paterna, una signora che da giovane faceva una vita spericolata e all'insegna del ''chissene frega''. Suonava pure in una band jazz e aveva regalato a Jeff una batteria, anni addietro. Ora aveva i capelli bianchi e tante storie da raccontare. L'altra nonna, quella materna, viveva in Florida e la sua vita era ora incentrata sull'uncinetto e sulle serie televisive spagnole.
-ci vieni a fare un giro?-.
-come no- disse e poi si girò verso il salotto. -no' io esco-. La nonna accorse all'ingresso.
-con questo freddo? Ti ammalerai e tua madre non vuole questo-. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Sua madre era a miglia di distanza che faceva carriera, gli mandava le cartoline eccetera. Non c'era mai a casa e forse non si ricordava neanche il suo nome però non voleva che si ammalasse.
-perché non restate qui a casa? William se vuole potrà rimanere a cena. Stasera spaghetti all'italiana-. Poi si voltò verso Bill.
-santo cielo William sei bianco come un lenzuolo!- esclamò osservando il ragazzo. -ti va qualcosa di caldo, come un tè o una cioccolata?-. Il ragazzo accettò e si tolse la giacca. Poi Jeff lo guidò nella sua camera. Bill non era mai stato lì. In quella stanza sembrava ci fosse passato un uragano, visto tutti i vestiti sparsi in giro. L'armadio aveva le ante spalancate e si vedeva che era quasi vuoto.
Misero la musica a tutto volume.
-ti va una sigaretta?-. Bill non aveva mai fumato. Accettò. Non gli sembrava una cosa così brutta.
-tua nonna non ti dice niente riguardo al fumo?-.
-be' non se ne accorge. Ma nutre qualche sospetto-. Passarono un bel po' di tempo ascoltando vecchi vinili di sua nonna. Jeff stava seduto sul davanzale della finestra e Bill buttato sul letto con la testa che ciondolava su una testata laterale del letto e capelli che sfioravano la moquette. Mangiarono il resto delle caramelle di cui il comodino era ricoperto.
Molte di quelle band che stavano ascoltando Bill non le conosceva. Altro che E.L.O. Quella era roba tosta sul serio. Furono chiamati per cena giusto quando partivano le note di una canzone di Elvis Presley.

-sicuro che non vuoi altro William? Non ti far pregare, è un piacere per me!-.
-no, grazie signora. Sono pieno-. Il bottone dei jeans stava per schizzare in aria. Aveva mangiato di tutto.
S'incamminò verso casa che era ormai buio. La neve era meno fitta ora. Prima di aprire la porta di casa sua fece un bel respiro.
''dai avanti, non potrà mica strozzarmi. O forse sì?'' pensava ironicamente.
-sono a casa- gridò verso il salotto, poi corse in camera a nascondere il fumetto prima che suo padre ne facesse coriandoli. Lui, appunto, lo chiamò poco dopo.
-guarda- disse quando gli fu davanti. Aveva allungato un braccio verso di lui. -leggi che ore sono-. Aveva un orologio dorato al polso sinistro.
-sono le 9-.
-le 9, sì. E le lezioni di piano sono finite alle sei e mezza-. Non si alzò dalla poltrona su cui era seduto. Sul divano lì vicino stava sua moglie, con la testa chinata verso il basso. Sicuramente avrebbe avuto un torci collo allucinante il giorno dopo. Dormiva grazie all'ausilio di anti depressivi. Alcuni indicati dal medico, altri no. Vicino a lei stava Amy. Inginocchiato sul tappeto davanti al tavolo basso c'era Stuart. Giocava felice con i suoi tanti soldatini, che un tempo erano stati di Bill, cercando di riprodurre con la bocca gli spari e le esplosioni.
-dove diavolo eri finito eh? Eravamo tutti in pensiero-.
-a casa di un amico-.
-ah si? Chi?-.
-Jeff-.
-ancora quello? È un miscredente! Ti ho detto che gli devi stare alla larga!-.
-a me sta simpatico-.
-non mi frega un accidenti di quello che pensi tu. Ti ho detto che non devi frequentare quello lì. È solo un drogato di strada-.
-pa' la devi finire di farti certe seghe mentali. Non è un drogato-. Uno schiaffo gli arrivò in piena faccia. Adesso Stephen era ritto in piedi con il viso rosso. Bill invece aveva l'impronta della sua mano stampata sulla guancia.
-come osi parlarmi in questo modo? Chi diavolo ti credi di essere? Si parla come persone civili qui!- sbraitò e poi aggiunse -avanti, ripeti quello che hai detto se ne hai il coraggio-. Il ragazzo strinse i denti.
-cosa? Ti dà fastidio la parola sega?-. Era il limite. Un altro ceffone gli arrivò sulla guancia, più forte stavolta. Il ragazzo provava una sorta di divertimento nel farlo incazzare. Era buffo quando perdeva la testa e faceva espressioni da scompisciare.
E poi lui faceva quello che gli pareva, se voleva uscire con Jeff ci usciva, se voleva dire sega lo diceva. Non gli importava poi granché della reazione del padre ma era sempre divertente mettergli il pepe in culo e vederlo strillare.
-te la stai cercando William, te la stai cercando! Un' altra parola così e, quant'è vero Iddio, ti giuro che non ti potrai sedere per i prossimi cinque anni!-.
-...-.
-e quei capelli Cristo... sembri proprio una sgualdrina, una poco di buono!-. Il ragazzo lo stava guardando sprezzante, con gli occhi gelidi e un ghigno strafottente. Aspettava annoiato che quella messa in scena finisse. Sua sorella neanche se lo sognava di sfidare il padre. Aveva una fifa fottuta di lui, delle sue braccia, della sua voce. Ammirava Bill che, maledizione, stava riuscendo a tenersi un briciolo di dignità. Allo stesso tempo però sentiva come un gusto amaro alla faccenda. Sapeva che le avrebbe prese, e questo la faceva stare male. Desiderava che la piantasse di avere quest'atteggiamento da sborone, da invincibile, perché non lo era. Non era di acciaio. Tutti questi pensieri le vorticavano confusamente in testa mentre lo osservava. Indossava vestiti vecchi e larghi, una camicia a quadri sformata e dei jeans blu scuro che gli cadevano sulle Asics bianche un po' rotte e usurate. I pantaloni erano consumati all'orlo e sfilacciati, visto che spesso strisciavano a terra. Le mani naturalmente le teneva nelle tasche, come sempre. La schiena era un po' curva ed era cresciuto in altezza in pochissimo tempo. I lineamenti erano fini e un po' femminili. E poi c'erano quei capelli un po' mossi, assolutamente troppo lunghi per gli standard del padre. Assolutamente troppo trasgressivi e fuori dagli schemi. Quei capelli così dannatamente lunghi erano peccato, così come la musica che ascoltava ultimamente. Amy l'aveva sentito, una notte, mettere dei vinili nel giradischi in salotto, al buio, a volume bassissimo. Se il padre avesse scoperto che ora ascoltava anche il rock n' roll avrebbe dato di matto. Quella notte Amy gli si era avvicinata piano e si era seduta a terra accanto a lui. Bill aveva sussultato, pensando inizialmente che quei passi fossero del padre.
-cosa ci fai in piedi? Mi farai scoprire. Torna a letto-.
-no voglio restare qui. Ti giuro che non farò alcun rumore-.
-porca troia Amy! Se mi scopre papà mi finisce la faccia a forza di cazzotti. Vattene via-.
-ti prego Bill, non ho sonno. Che gruppo è questo che ascolti?-. Il ragazzo insistette un altro po' ma visto che Amy non si schiodava si arrese, sospirando.
-si chiamano Led Zeppelin. È un vinile che mi hanno prestato. Se ci scoprono sono cazzi amari per entrambi, ti avverto-. In tutta la conversazione avevano sussurrato. Poi entrambi si erano appoggiati al muro, accovacciati per terra, ed erano stati zitti per un bel po'.
Ora suo padre continuava a sgridare Bill e lui continuava a rispondere a tono, prendendosi qualche altra sberla.
-va' a mangiare ora. Il tuo piatto è in tavola-. Il ragazzo si allontanò, con quell'aria sminchionata. Stephen era fermamente convinto che l'unico modo per guarire il ragazzo fossero le cinghiate. Così colse l'occasione e al primo passo falso che il ragazzo fece lo pestò. William si era portato il piatto con i piselli, la carne e altri cibi che detestava sul divano e aveva poggiato i piedi sul bracciolo della poltrona che aveva davanti. Sapeva che suo padre non voleva ma lo fece ugualmente. Così come le altre cento volte prima di quella Stephen lo strattonò fino al bagno e gli diede la dose di quel che secondo lui meritava, raddrizzandolo a forza di cinghiate sul fondoschiena. Bill fu costretto a ripetere dieci Ave Maria e cinque Padre nostro.
Di nuovo, come quasi ogni notte della sua vita che ricordava, andò a dormire incazzato. Restò sveglio fino a tardi, a fissare il soffitto, con le braccia piegate sotto la testa. Stuart nel letto sotto di lui dormiva beato circondato da un esercito di pupazzi.
Si rigirò nel letto diverse volte, sbuffando, imprecando silenziosamente, cercando di dormire. Provò una miriade di posizioni diverse, senza successo. Si arrese e rimase disteso sulla pancia tentando con la sua ultima spiaggia, una cosa che faceva da piccolo quando non riusciva a riaddormentarsi dopo aver fatto un incubo. Si mise a contare le pecorelle.





Ciao a tutti, ho qualcosa da dirvi. La batteria di Izzy in realtà non fu un regalo della nonna paterna ma dei suoi genitori. E poi niente, c'era solo questo da precisare.
   
 
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