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Autore: shamrock13    03/05/2016    1 recensioni
Ho letto Life and Death, e diciamolo… Meh.
Ho iniziato a pensare a tutte le cose che non mi erano piaciute, a come quei personaggi erano poco convincenti, a come sarebbe dovuta andare la storia se lui fosse stato un umano e lei una vampira, ed ecco qui.
Non sono Bella ed Edward (o Beau ed Edythe), volevo provare ad inserire delle dinamiche nuove.
E' la mia "alternativa", spero vi piaccia!
Dal cap. 1:
Anche lei alzò il viso e voltò la testa verso di me, lanciandomi un’occhiataccia. Mi voltai, con un’immagine piuttosto confusa in mente. Lo sguardo che mi aveva lanciato non era solo infastidito, era ostile, minaccioso. Proveniva da un volto molto bello, da due occhi… castani? Molto chiari?
Evidentemente avevo visto male perché sembravano addirittura gialli, o ambrati. E quello non è un colore “giusto” per gli occhi, no?
E poi, era proprio così bella? Mentre l’impressione di bellezza sbiadiva già, a causa della brevità del momento in cui l’avevo guardata, l’altra sensazione che avevo avuto, quella di minaccia, permaneva nella mia mente. Un brivido mi percorse la schiena, come se il mio corpo mi dicesse "Per un pelo…"
Che cosa stupida...
Genere: Avventura, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clan Cullen, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Scrivere è e deve essere un piacere, altrimenti quello che salta fuori è una schifezza.
 Nonostante questo mi sento in dovere di scusarmi ogni volta per l’attesa a cui vi sottopongo; mi scuso con voi per scusarmi anche con me stesso (e con Keelin e Francis), perché quando mi risiedo al PC per scrivere è sempre una gioia, e le parole scorrono come un fiume. Il momento in cui questo accade però va trovato, e mi capita di dover aspettare un bel po’ ogni volta perché si faccia vedere.
 Non vi tedio oltre con queste idiozie, ci sentiamo in fondo al capitolo.
 
Buona lettura!
 
 

Alternativa
 
Confidenza

 
 
Era stranamente intimo camminare a fianco a lei nella nebbia.
 
I suoni giungevano ovattati alle nostre orecchie, i colori erano meno brillanti, la luce appena soffusa. L’odore di erba umida permeava l’aria. Nonostante il campus attorno a noi fosse vivo e gli studenti si muovessero per recarsi a lezione, sembrava non esserci nulla oltre me, Keelin e la bolla di nebbia in cui ci trovavamo.
 
Stavamo entrambi in silenzio, non avevamo scambiato altre parole oltre al saluto di poco prima. Semplicemente mi ero affiancato a lei e avevamo accordato il nostro passo, dirigendoci dalla stessa parte; nonostante questo mi sentivo elettrizzato.
 
Solitamente, stare in silenzio con qualcuno che conosco da tempo è una cosa che mi mette completamente a mio agio, denota il livello di confidenza raggiunto con quella persona. Il fatto era che io questa ragazza non la conoscevo per niente, eppure il silenzio non era imbarazzato, sembrava la cosa più naturale del mondo. Come se prima di iniziare a parlare dovessimo abituarci alla presenza reciproca.
 
Ero in parte grato a quel silenzio: nonostante non provassi l’ansia devastante che mi aveva colpito la prima volta che l’avevo vista, trovarmela davanti quella mattina mi aveva comunque colpito. Su una cosa i miei ricordi erano corretti: era una ragazza di una bellezza inverosimile. Nonostante la giornata dal clima ormai palesemente autunnale, lei era vestita in maniera quasi primaverile: una corta giacca in pelle color sabbia, aperta, che mostrava una semplice t-shirt grigia; un paio di blue jeans e delle normalissime sneakers. La maglietta, con uno scollo a V molto discreto, lasciava scoperto il collo e la gola di lei. Sulla spalla destra portava una tracolla, anch’essa in pelle e di un colore indefinito, dovuto probabilmente all’età dell’oggetto.
 
Le linee del suo viso, che fino a poco prima facevo fatica a riportare alla mente, mi parvero note e familiari quando me le trovai davanti, così come la tinta pazzesca dei suoi occhi. Mi forzai per non lasciarmi andare a qualche commento a sproposito: non volevo essere troppo invadente.
 
O sembrare strano.
 
Mi ricordavo perfettamente della mia fuga l’ultima volta che l’avevo vista, quindi preferii volare basso e aspettare che fosse lei a definire il tono di una eventuale conversazione.
 
In ogni caso, non avrei saputo come scambiare due parole in quel momento. Mi persi in una contemplazione che mi rapì completamente. Stavamo camminando e lei, nonostante le sue gambe fossero notevolmente più corte delle mie, mi affiancava senza sforzo. Non solo, si muoveva con una grazia che non avevo ancora notato. Io mi ero avviato quasi col pilota automatico, non stavo tenendo un passo lento, e da una persona di quella statura mi sarei aspettato una camminata quasi affannata; invece era fluida, distesa, apparentemente spontanea.
 
Mentre osservavo il suo modo di muoversi -che era talmente perfetto da sembrare quasi fasullo, privo di un difetto o una mossa involontaria- senza riuscire ad impedirmelo studiai la sua figura con quello che speravo potesse passare per uno sguardo casuale e normalissimo. Certo, in mia difesa lei sembrava fatta apposta per essere guardata: camminava alla mia destra, con la tracolla e i capelli buttati entrambi sulla spalla destra, come a volermi offrire completamente il fianco sinistro.
 
Ovviamente iniziai dai suoi capelli, che anche in quell’umida giornata uggiosa parevano risplendere di luce propria, e seguire armoniosamente i movimenti di Keelin mentre camminava. Osservai il suo viso, rilassato e disteso, con le labbra come incurvate in un accenno di sorriso, lo sguardo fisso davanti a sé.
 
Scesi poi sul suo collo scoperto, le clavicole appena visibili dallo scollo della maglietta, che tendevano quella sua pelle pallida e liscia. Subito sotto, la curva del seno modellava i lembi della giacca in pelle in una forma difficile da ignorare. Continuai a scendere, fino a rimanere ipnotizzato per un secondo dal movimento dei suoi fianchi, all’unisono col passo di lei.
 
Se inizialmente avevo cercato di sbirciarla con la coda dell’occhio, mi resi conto che, in quel momento, la mia testa era completamente voltata (e abbassata!) verso di lei. Mi affrettai a rialzarla ma, sentendomi colto in flagrante, la trovai già intenta a guardarmi con un sorrisetto sornione ed un sopracciglio leggermente alzato. A disagio mi strinsi nella giacca che indossavo e tentai di dissimulare.
 
“Non hai freddo?” le chiesi, buttando lì la prima cosa che mi passava per la mente e sentendomi mortalmente stupido. Quasi che pensasse di me allo stesso modo, voltò di nuovo la testa in avanti, sbuffando una risatina. Non mi rispose, e io mi sentii arrossire.
 
Nascosta dietro il banco di nebbia, l’aula si stava avvicinando, e io mi sentivo spinto a tentare di rimediare al passo falso che avevo appena fatto; d’altro canto mi sembrava un’impresa titanica riuscire a parlarle senza fare la figura dell’imbecille. Ci provai comunque, era come se avessi rotto la magia iniziale e quel silenzio adesso iniziasse a pesarmi addosso.
 
Mi schiarii la voce. “Stai… bene?” chiesi, incerto. Avrei voluto chiederle dove fosse stata nei giorni passati, ma mi sembrava una domanda troppo diretta, così il mio cervello mi aveva passato l’ipotesi per me più plausibile di quell’assenza, ossia una leggera influenza. Solo che, quando avevo iniziato a parlare, lei si era di nuovo voltata a guardarmi, azzoppando per un momento le mie capacitò di espressione.
 
Il suo viso era rilassato e sereno, mi guardava come un vecchio amico invece che come uno sconosciuto. In fondo ai suoi occhi potevo scorgere una curiosità, un interesse vivo e presente.
 
Sorrise. “Sto molto bene, grazie.” Mi rispose, inspirando poi l’aria fresca della mattina, socchiudendo gli occhi. Pareva un gesto talmente intimo da mettermi a disagio per un momento, ma tentai comunque di spiegarmi meglio.
 
“E’ solo che non ti ho vista in giro nei giorni scorsi.”
 
Lei parve capire. “Oh. No, non è stato un problema di salute, o almeno, non del tutto…” La sua risposta mi parve confusa, ma non volevo ficcare il naso; lei se ne accorse comunque. “Sono stata a trovare degli amici.” Specificò.
 
Annuii in silenzio, non trovando altro da aggiungere mentre l’edificio dell’aula si materializzava davanti a noi. Le luci all’interno proiettavano un alone giallastro attorno alle finestre. Accelerai, precedendola alla porta di mezzo passo, per tenergliela aperta.
 
Avevo già fatto la figura della schiappa come conversatore, non sarei passato anche per un bifolco.
 
 
***
 
 
“Grazie.” Sorrisi a quella sua piccola galanteria, meravigliata da quanto stesse andando tutto bene. Ero serena, in pace, a mio agio. Camminando al suo fianco mi sentivo al mio posto. La sete si fece sentire appena; grata del silenzio che inizialmente ci accompagnava, riuscii a relegarla in un angolo remoto della mente.
 
Vedere che osservava la mia figura, e sapere che aveva notato la mia assenza furono due cose che mi regalarono un piccolo piacere inaspettato, proprio come il suo gesto di aprirmi la porta. Non erano nulla, solo comportamenti normali e chiacchere futili, ma erano un inizio. Cullai quel pensiero, quasi con la paura che potesse sparire, mentre entravo nell’aula.
 
Un movimento attirò la mia attenzione. Matt, il compagno di stanza di Francis, con un’espressione piuttosto interdetta, cercava di farsi vedere da quest’ultimo, anche se i suoi occhi indugiavano su di me. Notai che aveva tenuto un posto, uno soltanto. Mi sentii improvvisamente sulla difensiva, e mi voltai verso il mio accompagnatore, indicando i banchi verso il fondo dell’aula, che era già piena per una buona metà.
 
“Prendiamo posto?” Chiesi. “Certo.” Mi rispose senza notare il suo amico, avviandosi per primo. Mi cedette il passo, facendomi entrare per prima nella bancata che contava una decina di posti, tutti ancora liberi. Quando mi accomodai, lui si sedette alla mia sinistra. Sentivo il calore che emanava dal suo corpo infrangersi su di me.
 
Per distrarmi frugai nella tracolla, estraendo un blocco a fogli bianchi e una penna nera. Vidi che lui stava facendo la stessa cosa; notai che indossava ancora la giacca, allacciata fino al collo. Lo guardai con una punta di divertimento. “Non hai caldo?” gli domandai con tono leggermente ironico, facendo il verso alla sua domanda di poco prima. Lui se ne accorse e mi sorrise, divertito.
 
“Ci metto sempre un po’ al mattino, prima di scaldarmi…” spiegò paziente, come se non gli costasse alcuna fatica condividere con me, con sincerità, un particolare piccolo della sua esistenza. La cosa mi fece piacere, anche se già sentivo un pizzico di amarezza al pensiero di non poter fare altrettanto. Sovrappensiero presi la penna con la mano sinistra, dal momento che il professore in cattedra si apprestava ad iniziare la lezione, pronta a prendere appunti.
 
Poiché Francis aveva impugnato la penna con la destra, i nostri gomiti si urtarono, ed entrambi ci voltammo prima a fissare quel punto di contatto, poi per guardarci in viso, leggermente imbarazzati. Lui stemperò un po’ la situazione, alzando gli occhi al cielo e fingendosi esasperato. “Sarà così per tutta la lezione?”
 
Io sorrisi, e spostai la penna nella destra. “Posso scrivere con l’altra, nessun problema.” Dissi, con tono leggero. Lui mi guardò inarcando un sopracciglio con sfida, e io non potei fare a meno di assecondarlo.
 
Riportai la penna nella sinistra, allungai la mano verso il suo blocco e, in centro alla pagina intonsa, iniziai a scrivere, con la mia grafia tanto ordinata e svolazzante da sembrare un carattere adatto per un invito di nozze.
 
Ciao Francis, mi chiamo Keelin…
 
Dopodiché spostai la penna nell’altra mano, sporgendomi un poco e avvicinandomi a lui per poter proseguire a scrivere, questa volta con un carattere ugualmente ordinato, ma meno formale o elaborato.
 
… e sono perfettamente ambidestra. ;P
 
Notai il suo sorriso, divertito e interessato, mentre la seconda metà della frase prendeva forma sul foglio, come se fosse un piccolo gioco di prestigio. Poi si ricompose un po’. “Dovevi proprio farlo in mezzo alla mia pagina?” Mi chiese, senza rimprovero nella voce.
 
“Mi hai sfidata tu.” Risposi sussurrando, dato che la lezione era ormai iniziata.
 
“Perfettamente ambidestra, eh?” Mi domandò curioso.
 
In realtà tutti i vampiri sono ugualmente abili in qualsiasi cosa con entrambe le mani, ma avevo imparato negli anni che, con gli umani, una delle cose più facili per farli sentire a loro agio è minimizzare. Bastava trattare le stranezze come se fossero piccole cose assolutamente normali e loro, pur di non sentirsi “strani” a loro volta, accettano la spiegazione di buon grado. Inoltre questo mi diede l’occasione di condividere con sincerità qualcosa di mio.
 
“No, in realtà no. Sono mancina. Ho fatto le elementari in un collegio di monache in Irlanda. A loro la cosa non andava troppo a genio, e così…”
 
Lui sembrò sorpreso. “Davvero? Ma è medievale!” Esclamò.
 
“Era un collegio un po’ all’antica.” Feci spallucce, tralasciando il fatto che avevo frequentato le elementari una settantina di anni prima, più o meno. Poi impugnai la penna con la destra, e mi girai verso il professore, come a far intendere di voler seguire. In realtà stavo cullando le sensazioni che provavo.
 
Mi stavo divertendo. Eravamo rilassati e riuscivamo a scambiare qualche parola spontanea. Era bello.
 
Lo sentii cambiare posizione sulla sedia, accanto a me. Girai appena la testa, mentre lui si slacciava la zip della giacca sportiva impermeabile che indossava. Se la sfilò, mostrando un semplice maglioncino navy blue dallo scollo a V, da cui spuntava il colletto di una altrettanto semplice t-shirt bianca.
 
Fu come un’onda.
 
Come essere sdraiata sul bagnasciuga, a farmi cullare dalla risacca, che si ripete docile e sempre uguale fino a quando, a causa del vento, o del passaggio chissà dove di una grossa barca, fossi sorpresa e sopraffatta dalla forza di un’onda in grado di spostarmi e trascinarmi sul fondale sabbioso, facendomi finire con la testa sott’acqua e perdere completamente il senso dell’orientamento.
 
Fino a quel momento avevo avuto a che fare con una certa intensità del suo calore, del suo profumo, ma quando si fu liberato della giacca fu come se la magnitudo aumentasse in maniera spropositata. Fu tutto quello che percepii. Non vidi, non udii più nulla per un istante. C’era solo il suo odore, e il suo calore ad avvolgermi. Mi pietrificai per il terrore perché, in quell’istante, sentii distintamente di poter perdere il controllo. O meglio, di poter gettare tutto all’aria se avessi deciso di perdere il controllo.
 
Se non altro il cambiamento avvenuto in me mi faceva arrivare fino a lì. Mi faceva provare tutto quell’inarrestabile desiderio che mi aveva colto alla sprovvista, mi inondava la bocca di veleno, mi incendiava la gola con la sete ormai familiare e poi mi chiedeva: Che vogliamo fare?
 
E io, quello che volevo fare l’avevo ormai deciso, e non sarei indietreggiata sui miei passi.
 
Tornò la vista, e con essa il viso di Francis, che mi fissava teso. “Tutto bene?” Mi domandò, preoccupato ed inquieto, ma non spaventato. Aveva colto qualcosa comunque, era molto percettivo, ma il fatto che non fosse impaurito servì a tranquillizzarmi. Mi confermò ciò che già sapevo, ossia che non avevo intenzione di attaccarlo.
 
Ancora scossa da quanto successo annuii in risposta alla sua domanda, poi mi voltai guardando ancora di fronte a me. Dovevo cercare una pausa, un rifugio da quelle emozioni. Accavallai le gambe, incrociai le braccia dopo essermi spostata una ciocca di capelli a coprire la parte sinistra del mio viso, così da darmi un minimo di protezione dallo sguardo indagatore del ragazzo seduto accanto a me, e poi mi calai nell’immobilismo pietrificato in cui la mia specie poteva rifugiarsi. Smisi persino di respirare, per darmi un po’ di tregua e prepararmi al momento in cui avrei dovuto affrontare tutto di nuovo.
 
Passarono in minuti.
 
Come qualche giorno prima fu il suo respiro a calmarmi. Uno dopo l’altro, fu come tornare a farsi cullare dalla calma della risacca. Quasi non mi accorsi di ricominciare a respirare a mia volta, col suo stesso ritmo, assaporando quella sua fragranza quasi irresistibile con molta più tranquillità. Mi lasciai trasportare da quel ritmo per qualche tempo, poi un altro strano fenomeno richiamò la mia attenzione.
 
Noi vampiri percepiamo la temperatura. Si potrebbe dire che, dopo un certo numero di anni di esercizio, diventiamo come dei termometri. Sappiamo quando la temperatura è abbastanza bassa per la neve, o abbastanza calda perché mostrarsi in giro con un maglione troppo pesante attiri attenzione. Quello che non siamo in grado di percepire sono le sensazioni corporee dovute a caldo e freddo. Capiamo quando l’aria attorno a noi si riscalda o si raffredda, ma questo non ha su di noi alcun effetto, non provoca alcun disagio né alcun sollievo. Coprirci di più o di meno non modifica questa nostra percezione, siamo semplicemente in grado di sperimentare qualsiasi temperatura, senza conseguenze.
 
Io però, in quel momento, bruciavo.
 
Non era il calore della sete, quell’arsura insopportabile localizzata solo nella mia gola. Era qualcos’altro, qualcosa di nuovo. Come essere immersi in un bagno caldo, estremamente caldo e piacevole. O come essere seduti un po’ troppo vicino al fuoco in una fredda sera invernale, sotto le stelle. Sapevo esattamente dove si collocava la fonte di quel calore. Era a fianco a me, e lo elargiva, con generosità, ad ogni battito del suo cuore, ad ogni respiro che esalava. Io vi affondavo, mi scioglievo, sempre più rilassata e quasi sonnolenta. Mi ci crogiolavo come una lucertola al sole, come se quella vicinanza potesse in qualche modo scacciare per sempre il buio e il freddo della mia esistenza immortale.
 
Quasi senza averne coscienza, avevo sciolto il nodo che mi serrava gambe e braccia, ed iniziato a muovermi con lui.
 
Come ogni umano, Francis non teneva mai a lungo la stessa posizione: sedeva retto sul bordo della sedia, e poi vi affondava, caricando tutto il suo peso sullo schienale. Poggiava i gomiti sul tavolo, oppure incrociava le braccia sul petto. Ruotava appena sulla sedia, dando ora il fianco sinistro e ora il destro alla cattedra, qualunque cosa lo facesse sentire più comodo. In sua difesa, per un ragazzo della sua statura, quei piccoli banchi dovevano essere piuttosto scomodi.
 
Io lo seguivo, mentre il mio corpo cercava di mantenere costante la distanza tra me e lui, per non staccarsi da quella fonte di calore, così piacevole ed inarrestabile. Forse ai suoi occhi pareva buffo, forse pareva preoccupante, non avrei saputo dirlo. I miei capelli ancora mi impedivano una linea di visuale diretta sul suo viso.
 
All’ennesimo passo di danza, mentre entrambi distendevamo le spalle all’indietro tornando ad appoggiare la schiena alla sedia, con le nostre braccia distanti l’una dall’altra solamente un centimetro o poco meno, iniziai a fantasticare su come sarebbe stato, per un momento, sfilarmi la giacca e colmare quell’ultimo divario, appoggiandomi a lui con indosso solo la maglietta a maniche corte.
 
Era una fantasia stupida, stupida e pericolosa. Senza contare che non avrei saputo immaginare la reazione di lui al contatto con la mia pelle fredda. Non potei però impedire alla mia mente di cercare risposta a quella fantasia, di figurarsi quel meraviglioso bruciore sul mio braccio.
 
Sospirai profondamente.
 
 
***
 
 
Mentre, invano, tentavo di seguire almeno un minimo del discorso del professore, mi consolava il fatto di aver conosciuto Keelin nella prima settimana di lezioni. Se fosse successo a fine corso, o durante gli esami di fine semestre, sarebbe stato un enorme problema a giudicare dal modo che avevo di reagire alla sua presenza.
 
C’era stato un breve momento di tensione, così intensa da farmi ripensare alle sensazioni del primo giorno, ma era passata tanto in fretta da impedirmi di rifletterci su. Poi lei aveva spostato i capelli, a coprirle il lato del viso che potevo vedere, e il profumo che portava mi aveva raggiunto. Era pazzesco, e mi dissi che a questo punto avrei dovuto aspettarmelo.
 
Dolce, speziato e al contempo fresco, come menta. Non avevo mai sentito nulla di simile. Mi persi poi per diversi secondi ad osservare i riflessi della luce sui suoi splendidi capelli rossi, tanto che ignorai completamente le parole del professore alla cattedra, così che quando tentai nuovamente di ascoltarlo dovetti faticare non poco per capire di cosa stesse parlando.
 
Presi appunti, mi rilassai un poco, ma ero conscio della presenza di lei poco distante da me, e della sua completa immobilità. Era strana, forzata. Non avrei nemmeno saputo dire se respirasse o meno e non capivo il perché del suo comportamento. C’era qualcosa che non comprendevo in quella ragazza così attraente che, per qualche motivo, aveva deciso di passare del tempo con me. Era come essere cascati nel vagoncino di una strana giostra: in quel momento cercavo di capire che genere di attrazione fosse, ma l’esperienza era talmente intensa da non riuscire a concentrarmici appieno.
 
Poi avevo ricominciato a sentire il suo respiro, e con esso di nuovo, più forte, il suo profumo. Era come qualcosa di vivo, che mi chiamava e mi attirava. Per la prima volta quel giorno il mio sistema di allarme riprese a suonare. Nulla che non riuscissi a tenere sotto controllo, ma era come una insistente voce ai margini del mio pensiero cosciente, che mi diceva di fare attenzione.
 
Fui nuovamente distratto da lei, strappato da questi pensieri, quando uscì da quel suo immobilismo e, come una calamita, prese a seguire col suo corpo ogni mio movimento. Sembrava una marionetta, e io il suo burattinaio; o forse era l’opposto, tanto all’unisono capitava.
 
Il suo corpo, così vicino al mio, si imponeva, presente. Mi sentivo come un dodicenne che si ritrova seduto fianco a fianco con la più carina della classe; non la guarda, non può, sembrerebbe uno stupido, ma sa esattamente dov’è. Si sente la persona più fortunata della terra, ma è spaventato perché potrebbe rovinare tutto in un secondo. Come a quel preadolescente, il mio cervello mi inondava di sensazioni ed emozioni strane e nuove, a cui facevo fatica a dare un nome.
 
Era mai successo che solo lo stare così vicino ad una ragazza mi provocasse questo effetto? Abbassai lo sguardo sulla sua spalla, così vicina alla mia, e mi chiesi per un momento come sarebbe stato colmare quello spazio vuoto ed appoggiarmi a lei, in un contatto apparentemente casuale…
 
La lezione finì col professore che diceva qualcosa a proposito di un saggio da consegnare la settimana seguente, e maledizione io mi ero perso praticamente tutto quello che era stato detto. Mi alzai con un sospiro, stiracchiando le spalle, mentre lei rimaneva seduta ancora per qualche istante.
 
Abbassai il capo e la trovai che mi scrutava con uno sguardo estremamente serio poi, quasi temesse di essere fuori luogo, sorrise allegra. “Caffè?”
 
-
 
Ci avvicinammo ad una delle caffetterie del piccolo isolato commerciale presente all’interno del campus. Durante la lezione la nebbia si era alzata e ora una bassa coltre di nuvole sovrastava tutto. L’aria era umida e fredda.
 
“Ci sediamo fuori?” Chiese Keelin, adocchiando i tavolini in metallo all’esterno dal locale, nessuno dei quali era occupato.
 
“Certo.” Risposi assecondandola, per quanto la giornata non invogliasse a stare all’aperto. “Scegline pure uno, io intanto vado a ordinare. Cosa prendi?”
 
“Un caffè, niente latte e niente zucchero.” Rispose mentre da una delle tasche del giubbino estraeva un piccolo fermaglio per banconote in argento, che sembrava vecchio e non molto femminile. Io la fermai con un cenno della mano. “Mi offendo.” Dissi semplicemente, e lei sorrise, come avevo sperato. Ogni volta che la facevo sorridere era una piccola vittoria per me, mi faceva sentire bene.
 
Quando tornai con i due bicchieri in cartone dei caffè, coperti dal loro coperchio in plastica dal quale scappava un filo di fumo, la vidi seduta ad un tavolino un po’ defilato, intenta ad osservare i ragazzi che camminavano per strada. Presi posto di fronte a lei e le porsi la bevanda, che lei prese fra le sue piccole mani bianche. Ancora una volta, ora che mi ci concentravo, notai che la sua carnagione era estremamente pallida.
 
“Carino il tuo fermasoldi.” Commentai tanto per dire qualcosa, dato che avevo iniziato di nuovo a fissarla.
 
“Era di mio padre, così come la borsa.” Disse, con aria quasi malinconica. All’inizio pensai che il padre di lei fosse morto, ma poi ricordai di una cosa che mi aveva detto al nostro primo incontro. “Lavora qui in città, giusto?” Lei sembra riscuotersi.
 
“Certo, certo. Lavora giù a Bangor. Questi oggetti erano suoi, e ora sono miei. Ho rubacchiato qualche suo cimelio.” Rispose cercando di sembrare più leggera, intenzionata a chiudere lì il discorso. A me scappò un’altra domanda.
 
“Quindi, se lui è a Bangor, stai anche tu in un dormitorio qui al campus?”
 
“No, ho un posto mio fuori dal campus, in città.” Disse, sbrigativa. Non sembrava scocciata, ma il suo sguardo mi scoraggiò dal porle altre domande.
 
Non potei però fare a meno di studiarla, e finalmente trovai, sul suo viso, un piccolo difetto. Aveva, sotto gli occhi, delle occhiaie scure e profonde. Certo, se si guardava quel bellissimo volto nel suo insieme era difficile notarle, ma erano lì. Mi chiesi come mai non le nascondesse, dal momento che spendeva del tempo a truccarsi per rendere il resto della sua pelle così omogenea, per rendere quelle labbra così rosee e piene, e quelle ciglia così lunghe e incurvate… A meno che- No, non era possibile che rotolasse fuori dal letto in quello stato, al mattino. La mia era ingenuità maschile.
 
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, io mi sentivo vagamente a disagio. Lei portò la tazza alle labbra, inclinando appena il bicchiere, dopodiché, senza una parola si alzò sotto il mio sguardo e venne ad accomodarsi sulla sedia accanto a me.
 
“Già, forse è meglio.” Commentai. Il suo sguardo interrogativo pretese chiarimenti. “Beh, se dobbiamo rimanere in silenzio tutto il resto del tempo, tanto vale evitarci l’imbarazzo di guardarci in faccia.” Mi sorpresi a spiegare, esprimendo il mio pensiero in maniera forse un po’ troppo tagliente.
 
Lei sorrise come se la sapesse lunga, continuando a guardare la strada, oltre i tavolini. “Sei un osservatore piuttosto acuto.”
 
“E tu riesci a sembrare criptica nonostante ti esprima in modo molto diretto.” Risposi con un sorriso.
 
Nonostante non avessi ben chiaro il rapporto che si era instaurato tra noi, mi stavo divertendo. Pareva che lei la pensasse allo stesso modo, perché scoppiò in una breve risata argentina, socchiudendo gli occhi. Come la prima volta, quella risata mi prese allo stomaco, con una strana sensazione di calore.
 
Risi con lei, poi continuai. “Scusa, non mi disturbano né il silenzio né il tuo essere qui, è solo che... Non so. Sono sulle spine. Ogni volta che apro bocca mi sembra di fare una figuraccia, e non capisco come mai.” Mentre parlavo mi accorsi di essermi forse scoperto un po’ troppo, quindi abbassai gli occhi sul mio caffè, per poi portarlo alle labbra e berne una copiosa sorsata. Scottava ancora parecchio.
 
“Non preoccuparti, Francis. Stiamo andando molto bene.” Commentò lei, guardandomi di sottecchi prima di distogliere lo sguardo dal mio viso.
 
Stiamo...
 
Non avrebbe dovuto, ma il plurale usato in quella frase mi fece correre un brivido lungo la schiena. Com’era possibile che fossimo un noi? Cosa voleva dire? Probabilmente vedevo cose dove non c’erano, solo che sembrava quasi parlare tra sé e sé piuttosto che rispondermi. Riusciva a mandarmi in confusione anche con la più semplice delle frasi.
 
Continuai a sorseggiare il mio caffè in silenzio, scaldandomi le mani attraverso il cartone del bicchiere, aspettando che fosse lei a parlare. Di minuto in minuto, ripensando al tempo passato assieme e alle parole che avevamo scambiato, non riuscivo proprio a capire se fossimo lì per una ragione, se ci fosse uno scopo o se fosse casuale, e la cosa mi lasciava sempre più confuso. Ogni tanto la sbirciavo, anche lei sorseggiava appena il suo caffè, con lentezza, quasi senza inclinare il bicchiere, per poi riportare le mani sulla superficie in metallo del tavolino. Ad un certo punto non riuscii più a sopportare quel silenzio.
 
“Keelin, perché siamo qui?”
 
Lei si voltò a guardarmi, seria per un istante, poi sorrise con aria ironica. “Non sono l’unica ad essere molto diretta, vero Francis?” Mi inchiodò dov’ero, con quelle sue iridi ambrate. Rimase in silenzio per un paio di secondi, senza sbattere le palpebre, e io sentii il calore inondarmi il viso mentre arrossivo in imbarazzo, forzandomi però a sostenere il suo sguardo.
 
Fu lei la prima a distoglierlo, sbirciando oltre la mia spalla. La sua espressione si fece più leggera. “Salvata dalla campanella.” Sussurrò con aria complice. Prima di capire a cosa si riferisse una mano calò sulla mia spalla, mentre la sedia accanto alla mia veniva spostata.
 
“Eccoti qua! E’ da un’ora che ti cerco! Non mi presenti la tua amica?” Domandò Matt allegro, lasciandovisi cadere.
 
“Ehi Matt…” Lo salutai, non senza un certo disappunto nella voce. “Lei è Keelin. Keelin, Matt, il mio compagno di stanza.”
 
Lui allungò la mano verso di lei, per stringergliela al di sopra del tavolino. Proprio in quel momento lei alzò ancora il bicchiere del caffè, portandolo al viso con entrambe le mani. I suoi occhi si strinsero in un sorriso amichevole mentre li fissava in quelli del mio amico, e dovetti ammettere che l’effetto di quegli occhi visto su un’altra persona era decisamente comico. Matt, a bocca leggermente aperta, si schiarì la voce mentre le sue orecchie si tingevano di scarlatto. Ritirò lentamente la mano, come in trance, poi voltò il viso verso di me, ma i suoi occhi rimanevano saldamente in quelli di lei. Non potei trattenermi dal sorridere.
 
Finalmente lei lo lasciò andare, portando lo sguardo sul tavolino mentre abbassava il caffè. Libero dall’incantesimo Matt ritrovò la parola. “Allora…” iniziò, mentre mi lanciò un’occhiata decisamente stupita. “… pranziamo? Venite a mangiare un boccone?”
 
Stupito abbassai lo sguardo sull’orologio che portavo al polso, incredulo che fosse passato tutto quel tempo. Stavo per rispondere, ma Keelin mi precedette. “Grazie Matt, ma torno a casa a mangiare. Magari ci vediamo nei prossimo giorni…” Lasciò la frase in sospeso, mentre il suo sguardo si spostava ancora su di me.
 
“Certo, come no. C’è una festicciola domani sera al nostro dormitorio, magari ti va di fare un salto. Si beve qualcosa, un po’ di musica. Nella norma insomma…” Sentii rispondere Matt. Keelin, appoggiando una mano al tavolino, si alzò in piedi. Non capii il perché, ma continuai a fissare per qualche secondo il punto da cui la sua mano si era staccata. “Sembra carino, ci penso su.” Disse, con tono leggero. “Alla prossima ragazzi.” Con movimenti aggraziati, passando dietro alla mia sedia, si allontanò da noi lasciando cadere il bicchiere che ancora aveva in mano in un cestino. Il tonfo che produsse mi fece capire che era praticamente pieno.
 
“Alla prossima!” Salutò allegramente Matt, strappando il mio sguardo dal tavolino. Mentre lei si girava per un’ultima occhiata, la salutai con la mano. Mi voltai quindi verso Matt. “Una festa?”
 
“Sì. Sì una festa. Non lo sa nessuno perché l’ho deciso adesso, ma la organizzo in due minuti e lo faccio per quella lì. E per te amico mio. Quindi vedi di sfruttare l’occasione, oppure mi intrometto io. Cosa cavolo state combinando, comunque?” Mi chiese d’un fiato, chinandosi verso di me.
 
Bella domanda… “Sto ancora cercando di capirlo.” Risposi sinceramente. “Dai, andiamo a mangiare qualcosa.”
 
 
***
 
 
Mi sentivo su di giri mentre, a piedi, tornavo verso il mio magazzino. Certo, avevo commesso un paio di sviste, come quella di parlare di mio padre al passato (e maledizione, non si era fatto scappare neppure quella), ma nel complesso mi pareva che la mattinata fosse andata molto bene.
 
Stargli accanto era stato via via più semplice, ed ero certa che lo sarebbe stato ancora di più la prossima volta. Addirittura, sentivo già l’aspettativa per la festa di sabato sera. Come una ragazzina. Sorrisi tra me, svoltando l’ultimo angolo, e poi mi fermai.
 
Davanti all’ingresso del magazzino c’erano due grossi furgoni neri ed una bassa macchina sportiva verde brillante, tutti coi vetri oscurati. Un refolo d’aria portò alle mie narici l’odore di vampiro.
 
Mi avvicinai con circospezione, la traccia era confusa, ma quando fui alla porta quella si spalancò, rivelando una sagoma mostruosamente grande. Mi rilassai. “Ciao Emmet.”
 
“Ehi Kay. Entra, ti stavamo aspettando. Io vi raggiungo subito!” Ammicò mentre mi passava a fianco, diretto ad uno dei furgoni. Io entrai nel mio magazzino con un pessimo presentimento, che non fu disatteso.
 
Tutta la mia roba era impilata in uno degli angoli più lontani, inscatolata ed imballata con ordine, in un quasi perfetto parallelepipedo alto fino al soffitto, in modo tale da occupare meno superficie possibile sul pavimento. La cosa mi innervosì non poco, sono sempre stata gelosa delle mie cose, ma dovevo ammettere che, così, lo spazio di quell’unico locale sembrava davvero molto grande. Era stato anche ripulito a fondo, pavimento e pareti, persino i vetri delle finestre alte e strette, che erano incrostati da anni di sporcizia, e le travi in acciaio a sostegno del tetto, che attraversavano il locale a quattro metri dal pavimento.
 
Su una di quelle travi stava appollaiata Alice, intenta a guardarsi attorno, gesticolando con le mani come se stesse disegnando nell’aria. Appoggiato ad una parerete con le mani in tasca c’era il suo compagno, Jasper. Mi sorrise ironico, salutandomi con un cenno del capo, che io ricambiai. L’altra vampira presente mi si avvicinò a braccia conserte, con passo elegante ed aggraziato, sorridendomi come se volesse scusarsi. “Non siamo riusciti a fermarla.”
 
“Non fa niente Bella, non preoccuparti.” Sorrisi, cercando di nascondere il fastidio che provavo per quell’invasione inaspettata. “Di cosa si tratta, comunque?”
 
Alice atterrò con un fruscio di fronte a me, guardandomi con rimprovero. “La colpa è tutta tua, signorina. Gli hai detto tu di avere un posto tuo, fuori dal campus. Fidati, non riuscirai a tenerlo lontano da qui troppo a lungo.”
 
Io aggrottai le sopracciglia a quella sua spiegazione, scocciata soprattutto dalla confidenza con cui parlava di un argomento che per me era ancora acerbo, ossia il mio rapporto con Francis. Dovevo ancora capire di cosa si trattasse, e lei vi si intrometteva con leggerezza. Aprii la bocca per ribattere ma lei, ovviamente, mi anticipò “- sì, sì, hai ragione. Sono insopportabile ed invadente. Resta comunque il fatto che sarà meglio che questo posto non sembri un’autofficina dismessa se per caso qualche umano venisse a metterci il naso, non ti pare?” Chiese, calcando salacemente la parola umano.
 
Riconoscendomi sconfitta sospirai. “Immagino che tu abbia ragione...” Per tutta risposta lei mi gettò le braccia al collo, e io non potei fare altro che sorridere.
 
“Non te ne pentirai, te lo prometto!” Strillò eccitata, per poi girarsi verso gli altri due. “Jasper, vai fuori ad aiutare Emmet a scaricare! Bella, prendi gli schizzi, ho bisogno che Keelin decida quale preferisce!” Comandò con cipiglio.
 
Prima di muoversi Bella mi poggiò una mano sulla spalla. “Non preoccuparti troppo, io sono qui apposta per contenerla.” Mi disse sorridendo.
 
Per tutta risposta si beccò una linguaccia da Alice.
 
 
***
 
 
Ero entrato in bagno dopo che Matt si era fatto la doccia, ed il locale era invaso dal vapore. Presi il mio spazzolino con una mano, mentre passai l’altra sullo specchio, per potermi guardare in faccia.
 
Fu come se il pezzo di un puzzle prendesse posto nella mia mente. Non fu una rivelazione, fu piuttosto come quando si ha in testa un motivetto e, dopo ore passate a canticchiarlo, il cervello finalmente decide di collaborare e rivelarne autore e titolo.
 
Le mie mani, appoggiate per poco tempo sul piano in metallo del tavolino del bar. La sensazione di freddo. La sagoma delle mie mani tracciata dalla condensa quando le sollevo, perché il freddo è troppo pungente.
 
Le sue mani, poggiate per tutto il tempo su quella superficie. Lei che si alza, aiutandosi con la destra, sostenendosi al metallo freddo. Nessuna impronta di condensa.
 
Bizzarro.
 
 
 
 
 
Eccomi con un capitolo non esattamente di transizione, anche se lo sembra. Si instaura una dinamica nuova tra i due protagonisti e, questa volta, non richiede azione e sensazioni spasmodiche, ma una semplice chiacchierata. Che ve ne pare?
 Capitolo come dicevo dal ritmo decisamente più lento rispetto al precedente, inizia la partita a scacchi tra Francis e Keelin. Spero di riuscire a renderla interessante, di non far sembrare Keelin una sprovveduta quando si lascerà scappare qualcosa di troppo, e di non far apparire Francis come una sorta di Sherlock Holmes se e quando metterà insieme i pezzi.
Come vedete parlo al futuro, e con una certa sicurezza, ed è perché ho una traccia abbastanza dettagliata per i prossimi capitoli. Si tratta solo di trovare il tempo è il momento per scriverli, per cui siate fiduciose e soprattutto, pazienti.
 Nel frattempo, due parole per indirizzarmi e farmi capire come sto andando sono sempre benaccette e utilissime, grazie in anticipo a chiunque mi sostiene interagendo con questa storia.
 
A presto!
 
N.
  
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