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Autore: Cathy Earnshaw    04/05/2016    1 recensioni
La Terra dei Tuoni è un luogo popolato da creature magiche ed immortali, e una convivenza pacifica non è facile. L'equilibrio è fragile, la pace è labile e soggetta alle brame di potere. E quando i Draghi attaccano la capitale del Regno dei nani, questi reagiscono con violenza, ponendo i presupposti di una nuova guerra.
Nota: Tecnicamente "La guerra dei Draghi" è il prequel di "La Cascata del Potere", anche se la scrivo ora, a "Cascata" conclusa. Le trame non hanno grossi punti in comune, perciò l'ordine di lettura non deve essere necessariamente quello temporale.
Buona lettura!
Cat
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Di guerre e cascate - La Terra dei Tuoni'
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Capitolo 8
Disertore
 
 
Oliandro era furioso. Se era riuscito a mantenere la calma quando suo padre e suo zio erano partiti per Spleen lasciandolo a Cyanor in attesa di notizie su sua madre e sua sorella, il pensiero che Horlon avesse coinvolto Meowin in quell’indagine lo mandava fuori di testa.
C’erano un’infinità di motivi per cui avrebbe dovuto evitarlo: Mei era la sorellina di Frunn, anche se solamente da parte di padre; era l’unica persona che Oliandro desiderasse avere accanto, pur con la tragica consapevolezza che la segretezza imposta dal lavoro di spionaggio non avrebbe mai consentito loro di legarsi in via ufficiale; servirsi del capo dei servizi segreti per una banale defezione era segno di debolezza; per non parlare del fatto che costituiva una palese mancanza di fede in lui.
Guardò Frunn, che gli cavalcava accanto, e si incupì ulteriormente. Come faceva ad essere così tranquillo?
«Che c’è?» domandò questi.
«Niente.»
Frunn non commentò, si limitò ad alzare un sopraciglio, abitudine irritante che gli aveva attaccato Horlon e che non fece che infastidire Oliandro ancora di più.
Nonostante fossero ormai in viaggio da qualche ora, ancora non si vedeva la fine della Piana di Thann.
«Tutto bene, Dodo?» domandò Mark dell’Aria, davanti a lui.
«Sì, perché?»
Mark si gettò un’occhiata alle spalle.
«Sei silenzioso.»
«Silenzioso?»
«Credo che Mark ti stia dando del chiacchierone» intervenne Frunn con un sorriso.
Mark e Impialla risero, e anche Oliandro, suo malgrado, dovette cedere.
«Godetevi un po’ di silenzio, allora, visto che ne avete l’opportunità!» disse.
Il modo in cui Frunn scaricava la tensione per lui restava un mistero. In mezza giornata aveva fatto frontino al suo Re, frignato per il senso di colpa, subito l’ennesima decisione infelice del suddetto, fatto la pace, ed ora era lì con quell’aria da studentello in gita. Seicento e passa anni buttati nel cesso. A volte non poteva fare a meno di pensare che Frunn avesse le foglie secche nel cervello.
«Senti, Dodo» disse ancora Mark. «Tua sorella ce l’ha un fidanzato?»
L’elfo sentì una fitta di gelosia pungergli lo stomaco.
«Anche Frunn una volta aveva una cotta per lei!» disse.
Frunn arrossì fino alla punta delle orecchie.
«Questo è un colpo basso! Saranno passati almeno quattrocentocinquant’anni!» sbottò Frunn.
«Comunque non mi risulta, ma non credo sia facile sopportare Nana per più di qualche ora.»
«Peccato, perché è davvero molto bella.»
Impialla ridacchiò.
«Anch’io ho una sorella nana, se ti interessa» disse.
Tutti scoppiarono a ridere e Oliandro sentì la testa farsi più leggera.
«Senti, Impialla… Dei, che nome difficile! Posso chiamarti Pimpi, vero?»
«Assolutamente no! Nel modo più totale!»
«A Dodo piace dare soprannomi imbarazzanti» intervenne Frunn, tra le risate.
«Pimpi, tu sei di Altapietra, vero?»
Impialla sospirò, sconfortato.
«Esatto. Ci sei mai stato?»
«Una volta sola, un sacco di anni fa. Ero ancora un ragazzino e accompagnavo mio padre in un’ambasciata. Non è che ricordi molto, per la verità… ricordo cascate altissime che precipitano a ridosso di spesse mura di pietra, con rune incise.»
«Ricordi parecchio» Impialla gli lanciò un’occhiata e i suoi occhi chiari brillarono sotto alle sopraciglia folte. «Io non sono mai stato a Lumia, invece» aggiunse.
«In verità, a Lumia non ci ho passato molto tempo. Mia madre non ha mai amato la capitale e l’etichetta, quindi abbiamo sempre vissuto sul Lago di Nebbia, tra Riva e Spleen. È Frunn che abita a Lumia.»
Frunn annuì, arrossendo sotto agli sguardi curiosi dei compagni di viaggio.
«Non ci racconti niente?» incalzò Mark.
«Di Lumia?» mormorò Frunn. «Immaginate di attraversare un folto bosco, a tratti deserto, a tratti fittamente popolato. Immaginate di trovarvi improvvisamente su una scogliera che si affaccia su una baia. Il ruggire delle onde accompagna il vostro sguardo e lo convoglia sull’isola che si trova al centro del golfo. Da quella posizione non potete vederla, ma ha la forma di una stella. Sull’isola, si intravedono gli edifici della capitale, e le luci che ne illuminano i sentieri lastricati. Lontano, dalla foschia, emerge la torre del Palazzo Reale…»
Calò il silenzio.
«Accidenti» balbettò Mark. «Sei un poeta, Frunn!»
Oliandro scosse il capo per cancellare l’immagine troppo nitida che le parole di Frunn avevano evocato.
«Prima di lavorare per il Re che cosa facevi?» domandò Impialla.
«Studiavo.»
«Abitavi già là?»
«Sì, mia madre ci ha sempre vissuto, mentre mio padre ha viaggiato un po’ per lavoro, ma alla fine è sempre tornato a casa.»
«Il padre di Frunn era un musicista eccezionale, ma purtroppo ha cambiato attività» intervenne Oliandro.
«E ora di che si occupa?» domandò Mark.
«È convinto di dipingere. In realtà produce scarabocchi incomprensibili» rispose Frunn.
«Ha un suo stile» commentò Oliandro.
«Sarà…»
«E tu, Mark? Da dove vieni?» domandò Impialla.
Il mago indicò il ciondolo che portava al collo: all’estremità del cordone pendeva una pietra nera e lucida. Oliandro aggrottò la fronte senza capire, ma Impialla proruppe in un’esclamazione incomprensibile nella sua lingua madre.
«Non sapevo ci fossero maghi tra i popoli dell’Est!»
«Di che si tratta?» domandò Frunn.
Oliandro trattenne il sorriso suscitato dal risveglio improvviso della curiosità accademica dell’altro elfo. Era pronto a scommettere che avesse anche le pupille dilatate.
«Questa è una pietra tipica dei territori dell’estremo Est. Si chiama Buio» spiegò Mark.
«Quelle zone sono popolate principalmente da tribù di esseri umani con la pelle scura come le notti senza luna. È gente maldisposta verso ciò che non conosce» disse il nano. «Tu non assomigli affatto ad uno di loro.»
Mark si rabbuiò.
«Mia madre è originaria di Torat. Una testa calda… Un giorno è scappata di casa ed è finita nei territori delle tribù, dove ha conosciuto mio padre. Poi sono nato io, e sono cresciuto con loro fino a quando non mi si è risvegliata la magia. A quel punto non ho potuto restare là, la gerarchia della tribù è molto rigida, la presenza di un mago avrebbe compromesso tutti gli equilibri. Così mia madre mi ha portato a Cyanor, dove mi ha affidato all’Accademia di magia. Là ho studiato, e ora…»
Mark si interruppe e fermò il cavallo. Davanti a loro si estendeva un’ampia zona di terreno bruciato. I resti di un centro abitato svettavano, anneriti, nel mezzo di quella devastazione.
«Dei…» mormorò Frunn.
Oliandro scosse il capo per scacciare la nausea.
«Muoviamoci» disse «o ci toccherà passare parecchie notti sulla strada.»
 
Horlon scoccò una freccia, mancando clamorosamente il bersaglio. Qualche arciere, ogni tanto, gli lanciava occhiate allarmate senza osare proferire verbo. Horlon sapeva che non stava facendo una bella figura davanti ai suoi sudditi e agli uomini di Storr, ma non riusciva a disperarsene. Tutto ciò che desiderava era sentire i muscoli bruciare per lo sforzo.
Mentre aveva osservato da una finestra del palazzo il piccolo gruppo che si accingeva a lasciare Cyanor, la vecchia ferita al fianco aveva ricominciato a farsi sentire. Era da anni che non doleva in quel modo, e come ogni volta che succedeva si era sentito catapultato indietro di seicento anni, ai tempi della rivolta degli orchi. Era tornato faticosamente nella sua stanza e si era buttato sul letto con la ferma intenzione di lasciarsi trascinare nella deriva dei ricordi. Aveva l’agrodolce convinzione che senza Frunn nei paraggi nessuno si sarebbe preoccupato di cercarlo… così aveva finito per addormentarsi, e le immagini di quei giorni erano riemerse, fin troppo vivide.
                                                                                                
Aveva la febbre alta da giorni, ormai. La ferita al fianco si era infettata, e pur nella semicoscienza sapeva che il suo esercito stava ancora combattendo, e che di quel passo lui sarebbe morto prima di poter vedere l’esito del conflitto. La rivolta degli orchi andava placata, e il Re se ne stava lì a farfugliare follie in preda alla febbre. Aveva la percezione di porte che si aprivano e si chiudevano, tende che venivano tirate e luce che inondava la stanza, un cuscino morbido sotto il suo capo. C’erano persone che gli si affaccendavano intorno, altre che vegliavano. Ma alzare le palpebre costituiva uno sforzo inaffrontabile.
Un giorno, però, qualcosa cambiò.
I sussurri attorno a lui cessarono, i passi si allontanarono fino a scomparire. Eppure non era solo. La nebbia nella sua testa si diradò gradualmente, come se qualcuno avesse spannato un vetro e gli consentisse finalmente di vedere. E ciò che vide lo spinse a spalancare gli occhi.
«Lon…»
Ailyn lo guardava con gli occhi sgranati. Accanto a lei stava un cavallo candido con un corno d’oro grezzo in mezzo alla fronte. Una voce risuonò adamantina nella sua mente, dandogli la sgradevole sensazione di essere nudo davanti a degli sconosciuti.
«Salute, Sire Horlon.»
«C-chi…?» balbettò.
«Non affaticarti» mormorò l’elfa accostandoglisi. «Va tutto bene. Si occuperà lui di te. Vedrai, tornerai come nuovo!»
Horlon sentì gli occhi chiudersi, e sprofondò in un sonno innaturale. L’ultima immagine di Ailyn che si asciugava le lacrime, però, rimase a fluttuargli davanti ancora a lungo.
 
Quando si svegliò, l’aria era satura del profumo di fiori. Horlon sbatté le palpebre e tentò di mettersi seduto, ma una mano gli si posò sul petto, bloccandolo. Era la mano di Ailyn.
«Capisco che gli Unicorni abbiano fatto un lavoro eccellente e che tu ora ti senta bene, ma è ancora troppo presto.»
L’elfo sussultò. La ferita non gli faceva più male, non sentiva nulla più di un vago pizzicore. Portò meccanicamente una mano al fianco: che cosa c’era sotto alle bende? Era troppo intorpidito per capire.
«Che cosa mi hai fatto?» domandò con la voce impastata.
Da quanto tempo non parlava? Da quanto dormiva?
«Dove sono? E da quanto sono qui?»
«Una cosa alla volta, se non ti dispiace» disse Ailyn.
La sua voce era più dolce del solito. Forse era morto.
L’elfa lo aiutò a raddrizzarsi un po’ sistemandogli un cuscino dietro alla schiena, poi gli avvicinò una tazza alle labbra.
«Bevi adagio. Sono passati venti giorni da quando sei stato ferito, e da allora non hai mandato giù quasi nulla.»
Horlon deglutì e il liquido caldo gli bruciò la gola.
«Sapevi che mi sarei svegliato ora?» disse.
«Il sonno che ti avvolgeva era opera loro.»
«Dove siamo?»
«Nel cuore di Bosco Lossar, nel territorio degli Unicorni.»
Horlon si irrigidì.
«È sicuro?» mormorò.
Ailyn sorrise.
«Saresti morto se non fosse stato per Pace e Speranza.»
«Li hai chiamati tu?»
L’elfa esitò.
«Sono amici di Glenn da molto tempo.»
«Amici di Glenn?» sussurrò.
Horlon non ne aveva idea. Non sapeva che suo fratello avesse stretto amicizia con creature ataviche e potenti come gli Unicorni, e il solo pensiero di trovarsi nel loro territorio gli faceva venire la pelle d’oca.
«Cosa accidenti è successo, Lyn?» balbettò lasciando che le palpebre si richiudessero.
Sentì il suono della tazza che veniva posata sul comodino e sentì le mani di Ailyn sfiorargli il viso.
«Ti rinfresco la memoria. Stavi combattendo lungo la sponda del Lago di Nebbia. Gli orchi avevano organizzato un attacco alla città di Riva Scoscesa, tu e il tuo esercito siete intervenuti. Ma gli orchi erano ben organizzati, avevano preso degli ostaggi. Impossibilitati ad attaccare frontalmente, avete impostato una manovra diversiva, per attirare la loro attenzione mentre alcuni di voi li aggiravano. Durante l’azione tu eri in testa al tuo esercito e sei stato ferito. Una lancia ti ha colpito al fianco. Ricordi qualcosa di tutto questo?»
Horlon annuì.
«Ricordo tutto» gemette, cercando di scacciare l’immagine del dardo che pioveva su di lui.
«Che ne è stato dei miei uomini? E degli ostaggi?»
«La sortita è andata a buon fine e gli ostaggi sono stati liberati. Tu sei stato portato all’accampamento e Glenn ha preso il comando. Ma la tua ferita era grave. Tuo fratello mi ha fatta chiamare, e quando sono arrivata avevi già la febbre… per giorni non ha fatto che salire, mentre l’infezione peggiorava. Poi sono arrivati loro. Ti hanno addormentato e portato qui. I loro poteri hanno guarito la tua ferita… Accidenti, Lon, mi sembra ancora impossibile che tu sia vivo!»
Horlon prese un respiro profondo, ricacciando indietro le lacrime e la paura.
«La battaglia?» domandò riaprendo gli occhi.
«Si combatte ancora, qua e là, ma dopo Riva Scoscesa gli orchi hanno perso gran parte della loro baldanza.»
Ailyn tacque e Horlon tentò di concentrarsi sul proprio battito cardiaco per svuotare la mente.
«E tu mi sei rimasta accanto?»
L’elfa annuì.
«Glenn non ha avuto nulla da obiettare, se è questo che ti preoccupa.»
Horlon sorrise.
«Non avrei sopportato di trovarmi accanto nessun altro.»
«Lo so. Riposa, ora. Qui sei al sicuro, e finché tu sarai al sicuro anche il tuo regno lo sarà…»
 
Nessuno aveva osato addentrarsi nel territorio degli Unicorni, nemmeno per fare visita al Re convalescente. Neppure Glenndois l’aveva fatto, anche se per lui era normale evitare di guardare sua moglie quando stava accanto a suo fratello. Ma quando gli Unicorni e Ailyn si erano decisi a lasciare che Horlon tornasse a Lumia, la prima persona che questi aveva trovato ad accoglierlo era stata suo cugino Lantor.
 
Una volta risvegliatosi nel presente, Horlon aveva constatato che il dolore era scomparso. Non altrettanto la frustrazione. Così era sceso sul campo di addestramento, e i risultati rispecchiavano la sua situazione emotiva: un disgraziato altalenare tra rabbia, impotenza e preoccupazione.
Scoccò l’ennesima freccia, che si infilzò sul limite esterno del bersaglio. Poi la sua attenzione fu catturata dal corvo che planava verso di lui. Alla zampa portava uno rotolino di pergamena legato da un nastro bianco.
L’elfo recuperò velocemente il messaggio e lo srotolò. Una grafia precisa e pulita aveva scritto solo poche parole:
“Che cosa fa una colomba nel nido dell’aquila?”
 
Nastomer sapeva che non era il caso di prendere iniziative in momenti come quello, anche se l’idea di restare a Cyanor a girarsi i pollici lo infastidiva. Dopo la riunione di quella mattina anche Storr si era ritirato nei suoi appartamenti e non ne era più riemerso. Così lo stregone aveva gironzolato per un po’ nel palazzo prima di uscire per fare una passeggiata tra le vie della città. Il vento aveva spazzato via tutte le nubi e il sole splendeva limpido. Cyanor non doveva essere una brutta città in cui vivere. Aveva palazzi dalle mura intonacate di bianco e dalle finestre di strane forme. Aveva belle fontane da cui sgorgava acqua fresca, e giardini rigogliosi pieni di piante provenienti da ogni angolo della Terra dei Tuoni. Gli abitanti erano per la maggior parte maghi, liberi dai condizionamenti delle superstizioni. Nonostante ciò, se fosse dipeso da lui, Nastomer non vi si sarebbe fermato a lungo: pur nella sua bellezza esotica, quella era una città isolata, lontana dal mare, dai monti e dalle altre città. Se fosse dipeso da lui, avrebbe preferito fermarsi in una città come Effort, meno appariscente ma anche meno remota.
Selene aveva detto che la sua famiglia proveniva da Effort. Chissà se le era dispiaciuto doversene andare… non aveva osato chiederglielo. Selene si era mostrata così socievole e vivace da avergli inibito ogni istinto di fuga. Quei suoi occhi pallidi avevano l’insolito potere di metterlo a proprio agio, nonostante l’irritante abitudine di seguirlo. Da quando era diventato stregone, Nastomer aveva iniziato a riscuotere un discreto successo con le ragazze. A posteriori era facile spiegarselo: la posizione prestigiosa attirava gli adulatori come i fiori le api, ma sul momento si era fatto cogliere impreparato. Si augurava di non peccare di ingenuità ancora una volta, ma Selene gli sembrava diversa. Vera. Così come i grandi Re, come aveva iniziato a chiamarli nei suoi lunghi e solitari ragionamenti. Kirik si era sempre mostrato ostile nel suoi confronti, e la sua brutale onestà era confortante. Horlon aveva maldestramente cercato di essergli di sostegno, e nonostante la follia del metodo ci era riuscito. Storr… beh, Storr era Storr. Si era fatto in quattro per lui, gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva. Non altrettanta fiducia incondizionata nutriva per gli altri membri del Consiglio, ma non aveva grande importanza. I grandi Re possedevano un carisma impareggiabile, e nessuno avrebbe mai osato discutere una loro decisione. Forse.
 
Tra le nubi sparse si poteva intravedere il cielo punteggiato di stelle. Mark e il nano si erano addormentati vicino al loro piccolo falò, consapevoli che la sosta non sarebbe stata lunga.  Frunn prendeva appunti sui suoi diari, pericolosamente vicino alle fiamme. Sentendosi osservato, alzò lo sguardo. Oliandro rispose con un sospiro alla sua espressione interrogativa. Frunn aggrottò la fronte, si cacciò su gli occhiali e ripose i suoi strumenti da scrittura, poi si allontanò dal fuoco facendogli cenno di seguirlo. Oliandro non se lo fece ripetere.
Si sedettero nell’erba umida.
«Quando hai visto mia sorella l’ultima volta?» domandò Frunn a bruciapelo.
Oliandro esitò. Si sarebbe mai abituato a quella franchezza improvvisa?
«Alla serata sociale della Regina Erina» rispose. «Era in incognito, ovviamente, ma siamo riusciti a vederci prima della festa.»
Frunn si lasciò scappare un sorrisino scontento.
«Lo immaginavo. Horlon non sa che c’era anche lei.»
«E tu lo sapevi?»
«Mi aveva inviato un messaggio. Non era firmato, era uno dei suoi soliti messaggi cifrati. Diceva che stava bene e che sarebbe stata a Cyanor.»
«E tu non sei comunque venuto alla festa» mormorò Oliandro. «Credo che tu abbia qualche problema di affettività, amico.»
Frunn rise.
«Non si aspettava certo di vedermi, e comunque a me basta sapere che sta bene.»
«Beato te che ti accontenti di così poco…» disse.
Per una frazione di secondo accarezzò l’idea di domandargli se avesse deciso di vivere in eterno con quella filosofia, accontentandosi semplicemente.
“L’eternità di uno spettatore è lunga, amico mio”, si disse, ma non esternò i suoi pensieri. Era inutile discutere con una testa dura come quella. L’unico capace di imporgli la propria volontà era il Re.
«Beh, forse a Lenada riuscirai a salutarla» concluse.
Frunn annuì, ma i suoi occhi non mostravano alcuna aspettativa.
 
Horlon camminava avanti e indietro da talmente tanto tempo che all’ingresso di Glenndois la notte era calata.
«Lon! Che succede? Non ho fatto in tempo a rimettere piede in città che mi hanno detto di raggiungerti.»
Horlon gli si avvicinò.
«Lyn e Nana stanno bene?» domandò.
«Che accidenti hai fatto a quel labbro? Sanguina?»
Il Re si sfiorò il labbro inferiore. In effetti era gonfio.
«L’ho morso troppo» mormorò.
«Dei onnipotenti…» sospirò Glenndois.
«Ho inviato i servizi segreti a Lenada. Guarda che cosa mi hanno mandato» disse mettendogli tra le mani la pergamena.
«Cosa hai fatto?! Perché?»
«Perché avevo un brutto presentimento, e avevo ragione! Leggi.»
Glenndois srotolò la pergamena, esitante.
«”Che cosa fa una colomba nel nido dell’aquila?” Che significa?»
Horlon si sfregò il viso con le mani.
«Riflettici: io li ho mandati ad indagare su Lantor, e loro mi hanno risposto così.»
Glenndois rilesse il biglietto, poi si irrigidì e lo guardò di sottecchi.
«Credi che la colomba sia Lantor?»
«Credo che la colomba sia Lantor, e l’aquila Bearkin. E se è così, la domanda diventa “che cosa ci fa Lantor nel nido di Bearkin?»
Il Governatore gli restituì il messaggio.
«Aspettiamo l’esito delle indagini. Trarre conclusioni affrettate è pericoloso.»
Glenndois se ne andò, e Horlon si concesse un lungo sospiro.
Le colombe non arrivano vive nei nidi delle aquile. Le vere colombe, per lo meno.


 
 
   
 
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