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Autore: Bakagheiyama    20/05/2016    4 recensioni
[Bar!AU] OikawaxIwaizumi
La vita di Hajime Iwaizumi poteva anche essere considerata noiosa, ma a lui non importava. Il ragazzo odiava i cambiamenti quasi come le persone popolari e spocchiose e-per quanto ne dicesse-amava la sua vita tranquilla e poco movimentata.
Fino a Tooru Oikawa e a quel maledettissimo bar.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lui
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
Catullo, Carme 5


 

Sai, Iwa-chan, da piccolo ero un bambino bellissimo. Però molti pensavano che oltre ad essere bello, fossi anche molto, molto debole. Tra quei ‘molti’ c’era anche  -e soprattutto- mia madre, che evitava sempre di farmi giocare con gli altri bambini, di farmi divertire e godere gli anni della mia prima infanzia. Con il tempo ho imparato a capire che quell’eccessiva protezione nei miei confronti era solo un modo per dimostrarmi il suo affetto, ma credo che ancora adesso provi risentimento verso di lei per avermi negato anni che avrei dovuto ricordare come ‘i bei tempi di quando ero bambino’. Di quel periodo ricordo solo le angherie delle mie sorelle più grandi, i castelli di sabbia costruiti da solo al parco giochi, e i regali sempre abbondanti di mia madre, con cui giocavo da solo nella mia cameretta. Ecco, ricordo bene il senso di solitudine che mi attanagliava nonostante avessi solo sei o sette anni, e ricordo ancora meglio il mio desiderio di trovare qualcuno con cui condividere tutto quello che facevo. Dopotutto, chi mai si sarebbe rifiutato di fare amicizia con un bel bambino come me? Domanda retorica, scusa, Iwa-chan. Se avessi avuto la possibilità di giocare e divertirmi come tutti i miei coetanei, probabilmente sarei diventato popolarissimo anche in seconda elementare.
Avevo appena cominciato la terza elementare quando dei bambini di quinta mi picchiarono fuori i cancelli della scuola. Oh, no! Non fare quella faccia spaventosa, Iwa-chan! Mi fecero solo qualche livido e un occhio nero, niente di serio. C’è da stupirsi solo del fatto che sfregiarono impudentemente il mio bel faccino, e perché? Non l’ho mai capito. Ancora oggi mi domando la causa di quell’aggressione, magari, ripensandoci, ero davvero un bambino fragile che poteva essere benissimo preda facile di bulletti mal cresciuti. Ah! Ma devo ringraziare quelle canaglie. Quando tornai a casa con la faccia gonfia e il corpo viola, mia madre si spaventò talmente tanto che arrivò a vietarmi di andare a scuola. Io mi opposi con la ferocia di un bambino di otto anni a cui togli l’unico contatto che ha con i suoi coetanei, così io e mia madre arrivammo ad un accordo: lei mi avrebbe lasciato andare a scuola e io avrei aderito ad un club scolastico sportivo per rafforzare il mio corpo e per farmi degli amici che mi avrebbero protetto. Non so perché scelsi la pallavolo, a dire il vero come sport non era granché popolare nella mia vecchia scuola elementare… probabilmente mi piaceva l’idea di uno sport in cui la palla volava, passava da giocatore in giocatore e cadeva dalla parte del meno forte. Durante quel periodo di ‘isolamento’ avevo sviluppato una passione sfrenata per il fantascientifico e -no, Iwa-chan, non sono rimasto bambino. Gli alieni non sono per bambini- probabilmente vedevo la pallavolo come uno sport magico, quasi mistico. Così, mi iscrissi al club e decisi che sarei diventato talmente bravo da poter battere perfino gli extraterrestri!
Okay, okay, sto romanzando parecchio. In realtà, i primi tempi furono terrificanti, un inferno in terra! Immagina un bellissimo e purissimo bambino di otto anni, appena stato picchiato da bulletti più grandi che si aggirano ancora per la scuola, prendere parte di un club sportivo all’inizio del terzo anno di scuola elementare. Il gruppo-squadra si era già formato e dovetti faticare tanto per farmi accettare dai mocciosetti -le bambine mi vollero subito bene, pft! I piccolini erano tutti gelosi- ma alla fine riuscii a diventare loro amico, e, sorprendentemente, la pallavolo fu la mia nuova passione. Neanche mia madre credeva ai suoi occhi: io, magrolino e troppo basso per la mia età, che non avevo mai fatto neanche 50 metri di corsa, mi ero appassionato ad uno sport in cui ci si muoveva e si sudava! Fino alla fine delle elementari non avevo un ruolo fisso, tutti gli allenatori lodavano il mio impegno e la mia bravura nel capire i compagni di squadra, ma nessuno mi aveva mai assegnato una posizione…
Io però avevo già i miei grandi progetti per il futuro: volevo alzare. Anche a undici anni compiuti, quando tutti pensavano solo a schiacciare perché ‘faceva figo’, io pensavo che il vero figo in mezzo al campo fosse chi passava la palla allo schiacciatore perfettamente anche con una ricezione pessima, perché per me era il palleggiatore a condurre la squadra alla vittoria. Quando racimolai il coraggio per dire agli allenatori quello che volevo, era arrivato l’ultimo anno delle elementari e l’ultimo torneo del mini volley. Non ricordo molto bene la reazione dei coach, del resto, i miei ricordi delle elementari sono piuttosto confusi. Quello che però mi è rimasto impresso nella mente è stata la mia ultima partita della sesta elementare*, la prima giocata come alzatore. Alla fine vincemmo, e intorno a me sentivo solo grida e urla dei genitori e una parola, ripetuta all’infinito sugli spalti: “Bravo! Bravo! Bravo!”. Fu in quel momento che pensai, ‘Accipicchia, questo ruolo fa veramente per me. Lo amo!’.
L’anno successivo, varie raccomandazioni e un buon impegno nello studio mi permisero di accedere ad una delle scuole medie più forti della prefettura, puoi immaginare la mia felicità quando arrivò la lettera di ammissione a casa! Nonostante avessi raggiunto il mio obiettivo, però, nella mia famiglia nessuno si preoccupava di me o dei miei sogni che stavo realizzando a passi incerti e decisi. È quasi un ossimoro, vero? Ma quella era la mia realtà ad undici anni: mio padre, che era sempre via per lavoro, aveva chiesto il divorzio da mia madre perché aveva trovato una bella russa in Europa e aveva perso la testa per lei,* e la mia genitrice aveva messo da parte il dolore per occuparsi della famiglia e trovarsi un nuovo lavoro. Inoltre, in quello stesso lasso di tempo la maggiore delle mie sorelle annunciò improvvisamente di essere incinta e che sarebbe andata a vivere con il suo compagno nei dintorni della prefettura, e sparì da un giorno all’altro. Quindi, ricapitolando, quando alle porte c’era l’inizio delle medie e la realizzazione del mio sogno pallavolistico, mio padre si mise con la prima sgualdrina di turno in Europa lasciando mia madre a badare a tre figli, di cui una si era volatilizzata nel nulla dopo aver ammesso di essere rimasta incinta del primo idiota di turno. Fantastico, no?
Per mia fortuna, sono sempre stato un bambino piuttosto deciso e tenace -tenace, non testardo, Iwa-chan- e riuscii a superare brillantemente i primi test scritti e orali della scuola media. Nel frattempo, mi ero iscritto al club di pallavolo e aspettavo impazientemente l’inizio degli allenamenti. Quando programmarono la prima riunione per i nuovi iscritti, quasi non impazzii dalla gioia. Erano settimane che non giocavo a pallavolo e l’idea di essere in una squadra forte, dove ognuno aveva il suo ruolo, mi eccitava da morire. Non mi preoccupavo neanche più di tanto di essere piccolo, di avere dei senpai più grandi e più forti di me che sicuramente avrebbero preso il mio posto da titolare. Pensavo di essere il migliore alzatore della prefettura della mia età, dopotutto, era quello che mi ripetevano tutti! Con queste convinzioni, arrivai alla prima riunione del club con 20 minuti d’anticipo. Credevo di essere l’unico, fuori la palestra, e invece ebbi la sfortuna di incontrare lui.
Perfino a quasi dodici anni,* lui aveva un volto privo di espressione, dei lineamenti regali e uno sguardo freddo come il ghiaccio. Lo iniziai ad odiare dal momento in cui mi guardò con aria di sufficienza, distogliendo gli occhi subito dopo, come se io non valessi la pena di essere squadrato da lui. Ricordo che mi avvicinai a lui quasi per ripicca verso quell’essere insensibile, volevo fargli male, o almeno farlo smuovere. Mi parai di fronte a lui -era già molto più alto di me, il bastardo- e gli dissi: “Buon pomeriggio, signor Ghiacciolo. Sono Oikawa Tooru, e sono venuto in questa squadra per diventare titolare e vincere. E tu?”. In risposta ebbi solo un lieve sospiro da quel pezzo di marmo, poi parole dette a spezzoni.
“In che ruolo giochi?”
“Ti ho chiesto il nome. Oppure vuoi che ti continui a chiamare signor Ghiacciolo? Guarda che io non avrei niente in contrario, è un nomignolo cos’ carin…”
“Wing Spiker? Middle Blocker? Non sei alto, potresti fare anche il libero.” Quel ragazzo così indifferente mi stava ignorando, e mi stava imponendo brutalmente il suo filo del discorso. Avevo quasi dodici anni, lui era un mio coetaneo, ma probabilmente la sapeva molto più lunga di me. Io avevo dalla mia parte solo un orgoglio smisurato e una grande passione, lui aveva dalla sua un mio nemico naturale: la capacità di ignorare una persona come il sottoscritto. Pensai -e penso- che quel bambino dovesse essere o troppo intelligente o troppo stupido per parlarmi così, inoltre, mi aveva offeso, dandomi del basso e dello schiacciatore qualunque. Ah! Gliel’avrei fatta pagare, eccome, se gliel’avrei fatta pagare! Decisi che gli avrei fatto ritirare tutto quello che aveva appena detto, anzi, mi fissai come nuovo obbiettivo quello di far provare un’emozione a quel viso regale e distaccato.
“Sono un alzatore” risposi, “E alzo la palla solo a chi giudico degno di fare punto. Se conquisterai la mia fiducia, io ti farò delle alzate talmente perfette che ogni tuo attacco andrà a segno.” Non so perché, ma avevo dato per scontato che quello spocchioso fosse uno schiacciatore laterale. Forse un asso. Emanava quel genere di aura.
Mi guardò come in trance per quelli che mi sembrarono secoli, poi posò lo sguardo su di me come se mi vedesse per la prima volta. Si avvicinò fino a sovrastarmi e, guardandomi dall’alto in basso, disse solo: “Allora alza per me, Oikawa. Sii mio e portami alla vittoria.”
Avevo quasi dodici anni e non capivo le sue parole, non capivo cosa significassero per lui. Non capivo cosa pensasse quel ragazzo dal nome sconosciuto, non capivo perché avessi paura di lui e non capivo neanche perché ne fossi completamente attratto allo stesso tempo. Riuscii solo ad annuire e a firmare l’inizio della fine della mia carriera pallavolistica.
*
All’inizio, se devo essere sincero, credevo che lui fosse sì bravo, ma, come dire, acerbo. Perfino a dodici anni avevo notato in lui lo sguardo orgoglioso e fiero di chi non ammette altre verità se non la propria, e se in questo potevamo essere uguali, divergevamo in una sola cosa: io avevo bisogno degli altri per essere sicuro della mia superiorità, lui no. Non ne aveva bisogno perché sapeva e basta di essere il migliore. E per quanto mi costi ammetterlo, era il migliore… lo è sempre stato, da quando lo conosco.
Iniziammo in panchina, tutti e due. Dopotutto, la squadra era una delle migliori della prefettura, imbattuta da anni, ed i titolari erano bravissimi. Nel periodo successivo all’apertura del club, decisi che sarei riuscito a diventare titolare entro un anno, ed iniziai ad allenarmi fino a tardo pomeriggio, rimanendo dopo gli allenamenti. A casa la situazione era migliorata, una volta al mese mia sorella maggiore ci scriveva per farci sapere che stava bene, e mia madre aveva trovato un lavoro fisso e ben pagato. Nonostante questo, però, nessuno si era ancora reso conto che stavo sacrificando molte ore di studio per allenarmi, così decisi di approfittarne e fare finta di niente. Continuai ad allenarmi continuamente fino alla fine dell’anno, facendo nottate assurde per recuperare le ore di studio perse, alterando così le mie abitudini. Quanto dovevo essere sciupato, in quel periodo! Che brutti tempi, solo al ricordo mi vengono i brividi… credo però che sia grazie a quel periodo che sono diventato quello che vedi ora, Iwa-chan. Gli allenamenti extra mi portarono avanti agli altri primini ed ero molto sicuro che l’anno successivo sarei diventato alzatore titolare. Insomma, i coach mi elogiavano sempre e quelli del secondo anno mi avevano già iniziato a guardare malissimo, così, nell’ultimo periodo dell’anno iniziai ad allenarmi ancora di più, ancora di più. C’erano solo tre cose che guastavano i miei allenamenti fuori dal club: il fatto che lui fosse già stato inserito tra i titolari, che lui non avesse bisogno delle mie alzate per fare punto, e che lui restasse ad allenarsi con me ogni giorno. Sopportai la sua presenza sgradevole per quasi un anno, senza fare domande, poi, alla vigilia dell’ultima partita dei senpai del terzo anno, lo snob decise di ignorare volutamente la barriera di silenzio che avevo eretto tra di noi. Forse mi sentivo inferiore, rispetto a lui… forse ho sempre avuto l’abitudine di sentirmi inferiore a chi è più bravo di me, Hajime… ma è logico, no? È normale sentirsi inferiore a chi è dotato per natura, rispetto a chi, come me, ha dovuto sudare e allenarsi e sacrificare molte cose per raggiungere il loro livello…
Ma torniamo al momento cruciale in cui lui mi rivolge la parola nei miei allenamenti extra. Mi si avvicinò mentre cercavo di battere a jump float*, e semplicemente disse: “Batteresti meglio a salto rotante*”, poi, senza che io gli chiedessi niente, mi mostrò i passi della battuta. “Scusa, la jump float è più efficace di una salto rotante, se fatta bene, o la Vostra Signoria afferma il contrario?” dissi piccato.
“La jump float non ti si addice” rispose semplicemente lui. Senza disprezzo né malizia, si era limitato ad esporre i fatti secondo il suo punto di vista. “La jump float è per i deboli che hanno bisogno di un movimento improvviso della palla e una svista dell’avversario per fare punto. Per riuscire a controllare la float rotante ci vuole forza, impegno e bravura.”
Non so perché, ma le sue parole mi lusingarono. Provai un improvviso moto di gioia nel costatare che quel prodigio della schiacciata, così impassibile e indifferente, mi avesse fatto quello che di più simile ci fosse ad un complimento. Forse per dimostrare qualcosa sia a me stesso che a lui, o forse per una perversa ostinazione a non deluderlo, iniziai ad esercitarmi anche sul nuovo tipo di battuta alla fine di ogni allenamento. I primi tempi non passava una palla dall’altro lato del campo, e io iniziai a credere che fosse impossibile per me andare oltre quel livello. Proprio alla fine dell’anno mi ritrovai a fronteggiare un numero assurdo di insufficienze da recuperare unite alla depressione per non riuscire ad eseguire la float rotante come si deve. Ad ogni mia battuta che non passava, inoltre, sentivo il suo sguardo severo ed impassibile su di me, come a ricalcare il fatto che no, non riuscivo a battere come lui sperava e che sì, lo stavo deludendo alla grande. Ma credo che fu proprio questo suo atteggiamento a spronarmi a non mollare: finii l’anno con tutte sufficienze, promettendo a mia madre -che, nel frattempo, si era trovata un nuovo compagno e aveva dimenticato del tutto di avere dei figli- che l’anno seguente avrei fatto di meglio, e chiesi di potermi iscrivere ad un campus sportivo durante le due settimane che mi separavano dal nuovo anno scolastico, per mettere a punto la mia battuta ed allenarmi ancora. Allo studio ci avrei pensato quando avrei ricominciato la scuola, decisi, e così passai le mie esigue vacanze a rincorrere l’approvazione di quello snob del cazzo. Bello, vero? Purtroppo non avevo ancora la percezione di quello che stavo facendo, cioè seguire letteralmente come un cagnolino il sogno di essere apprezzato da un prodigio come lui. Ho già detto che al tempo, e forse anche per parecchi anni da allora, mi servivano gli elogi delle persone attorno a me per sentirmi sicuro, e forse anche felice. Amavo essere elogiato. All’inizio del secondo anno iniziai però a capire che non sempre una persona ti fa i complimenti perché pensa davvero quello che dice, anzi, al contrario:  gli apprezzamenti e le belle considerazioni che tutti facevano su di me erano falsi, magari celati da uno spesso strato di invidia, di rabbia verso quel Tooru Oikawa che aveva appena iniziato il secondo anno ed era già titolare di una squadra fortissima. Già, all’inizio della scuola, quando avevo appena 12 anni, i coach mi permisero di giocare insieme a quel team e di non scaldare solo la panchina: mi trovai subito benissimo con i miei nuovi compagni di squadra e senpai, nonostante sapessi che altri ragazzi, aspiranti palleggiatori più grandi di me, mi odiavano cordialmente. Anche all’epoca presi la loro invidia come una ragione per andare sempre, sempre più avanti, nonostante questo significasse lasciare gli altri indietro: a quanto pare, gli insulti non mi hanno mai scalfito ed ho finito per considerarli normale amministrazione.
Se c’era un solo punto interrogativo nella mia vita, arrivato al secondo anno, era perché i senpai se la prendessero con me per avergli rubato il posto in squadra e non con lui, il ragazzo snob e indifferente che al primo anno si era guadagnato il titolo di ‘asso’. Lo compresi durante i mesi successivi all’inizio della scuola: io mi facevo notare, con la mia parlantina sciolta ed il mio desiderio palese di superare gli altri. Credo che anche allora il mio io interiore gridasse ‘Hey, voi, guardatemi! Guardatemi diventare sempre più bravo, fino a quando non vi supererò tutti!’ mentre il suo io interiore non lasciava trapelare i suoi sentimenti, mai. A me piaceva apparire -ma dai, Iwa-chan, con questo bel faccino faccio solo un favore alla gente!- mentre lui non aveva bisogno di farsi notare. La sua presenza bastava da sola: era di quasi un mese più piccolo di me, eppure il bastardo cresceva a occhio giorno dopo giorno, mentre io, che spiccavo più per il carattere che per altro, mi ero bloccato ad un misero metro e sessanta. Il mio piccolo problema d’altezza, unito all’insoddisfazione per non essere ancora riuscito a eseguire una salto rotante decente, mischiata a sua volta allo studio frenetico e alla pressione di essere titolare e di dover far schiacciare lui, rischiarono di farmi scoppiare il cervello poco prima delle vacanze estive. Poi venne il caldo, il mio compleanno, altri allenamenti estivi ed il ritorno a scuola: magicamente, a tredici anni appena compiuti iniziai a crescere a dismisura e a maturare. Non so esattamente cosa cambiò in me in sole sei settimane, sta di fatto che tornai alla mia routine scolastica deciso a migliorare ancora di più. Senza prestare molta attenzione ai miei cambiamenti fisici e psicologici, furono i compagni intorno a me a farmi notare di essere diventato una persona completamente diversa: mi ero allungato, e i miei continui allenamenti mi avevano ripagato con un fisico asciutto e da atleta, i miei lineamenti del volto avevano perso quella dolcezza che apparteneva ai bambini per diventare più adulti, più attraenti -sì, Iwa-chan, perché io sono attraente-  e le ragazze avevano cominciato a notarmi. Avevo finalmente attirato l’attenzione di tutti, quell’attenzione per cui solo due mesi prima scalpitavo e sgomitavo, per poi capire che non era tutto questo granché. Certo, era bello stare sotto i riflettori, e mi sentivo bene in mezzo a molta gente, ma sviluppai un forte senso di noia per le persone troppo adoranti, troppo attaccate alla figura che mi ero creato intorno. Quello che tutti ammiravano era solo un bel ragazzo, decisi, non ero io. Perciò, iniziai a fingere di provare dei sentimenti quando dei sentimenti li provavo davvero, solo, erano molto diversi da quelli che gli altri volevano vedere: imparai anche che ero davvero bravissimo a imitare sensazioni ed emozioni e soprattutto sorrisi, così, continuai con quella bellissima recita. Nessuno notò il mio cambiamento, dopotutto, non avevo amici degni di questo nome, e in quel periodo non mi preoccupavo di cose futili e stupide come le amicizie o gli amori adolescenziali. Cos’era, innanzitutto, l’amore? Era amore, quello delle ragazzine che sbavavano dietro di me? Era amore, quello che vedevo nei corridoi della scuola, mentre maniaci pervertiti facevano i dolci con le loro ragazze occasionali, solo per infilare le mani sotto le gonne e le maglie? No, non lo capivo proprio. Eppure in quell’anno riuscii a completare la mia salto rotante, riuscii a ricevere i complimenti dei coach quando vincemmo il torneo interscolastico, riuscii perfino a mantenere una buona media scolastica. E fu proprio alla fine di quell’anno, quando perdemmo sì alle nazionali, ma giocando benissimo, che lui mi iniziò a guardare diversamente. No, ‘diversamente’ è un eufemismo: lui prese a fissarmi ogni minuto che stavamo insieme, ogni allenamento extra che facevamo, ogni istante della sua esistenza sembrava volto alla mia contemplazione. Lo notarono tutti e, se da una parte lo capisco -come farebbe una persona a non guardarmi? Insomma, sono io!- dall’altra non l’ho mai capito e mai lo capirò. Ancora adesso vedo quei lineamenti freddi e distaccati che rimangono tali mentre mi guardano, solo, si tingono di una sfumatura più complessa di ammirazione e di possessione. Forse mi ammirava davvero, a modo suo, forse, in un angoletto recondito della sua perversa mente, voleva davvero possedermi, in tutti i sensi che questa parola potesse significare. Non l’ho mai capito e non lo capirò mai, forse è per questo che ho sempre avuto un po’ paura di lui: avevo il terrore di scoprire che sotto quei lineamenti duri e freddi non si celasse nessun interesse per me, niente di niente, solo vuoto. O forse, avevo paura del contrario.
Finì anche il secondo anno e intanto ero diventato zio di un bambino che aveva già compiuto tre anno. La maggiore delle mie sorelle era infatti ritornata a casa sana e salva con un bambino tra le braccia, una bella notte di gennaio, dicendo che il suo compagno era sparito chissà dove e lei non poteva badare ad un figlio da sola. Così, la mia famiglia si allargò di nuovo, e dovetti passare le vacanze di primavera dietro ad un mocciosetto iperattivo invece di allenarmi in vista del mio ultimo anno di scuole medie. L’aveva chiamato Takeru, mia sorella.
Il terzo anno si prospettava tutto rose e fiori, e infatti, cominciò alla grande: il fan club di Tooru Oikawa si era allargato ulteriormente, la mia battuta andava sempre meglio, lo studio era diventato il mio più grande amico e la scelta del liceo si faceva sempre più vicina. Passati i primi mesi, le vacanze estive arrivarono troppo velocemente, io compii quattordici anni e decisi che sarei entrato nel liceo dello stesso plesso della mia scuola media, considerato il più forte in assoluto nella prefettura. Naturalmente, anche lui si iscrisse nello stesso liceo, e insieme ci preparammo all’ultimo torneo delle medie. La parola ‘insieme’, in quel periodo, ci descriveva perfettamente: mangiavamo insieme a mensa, ci allenavamo insieme, ritornavamo insieme a casa. Non so quando né perché ma lui diventò la mia routine quotidiana, e mio malgrado, iniziai ad apprezzare i suoi silenzi, il suo orgoglio e il suo essere sempre se stesso. Lo ammiravo, sì, essendo lui il mio opposto, ma non avevo ancora capito che quando mi guardava, nei suoi occhi non c’ero io, ma lui stesso. Pensandoci ora, credo che mi vedesse più o meno come un trampolino di lancio, il mezzo che gli avrebbe permesso di diventare grande e potente più di quanto non lo fosse già. Niente più di un oggetto creato allo scopo di esaltarlo e glorificarlo. Il fatto che io provassi dei sentimenti, per lui non era altro che un ostacolo molto interessante.
No, non mi rendevo conto di quanto distorti fossero i suoi sentimenti. Non me ne sono mai reso conto, neanche adesso…
Oh, ma torniamo alle medie, le medie.
Il nostro ultimo torneo arrivò in fretta, insieme a marzo e ai miei progetti per il futuro. Anche se ricordo quel periodo con aggettivi come ‘stancante’, ‘inferno’ e ‘voglio morire qui in santa pace ora e subito’, riuscii a cavarmela negli esami di fine anno, alzando la mia media così da garantirmi l’entrata al liceo anche senza raccomandazione, e contemporaneamente triplicai i miei allenamenti extra. In squadra ormai ero il Senpai, e anche se non mi avevano eletto capitano -quel bastardo mi aveva rubato letteralmente il titolo-si vedeva che ero la colonna portante del team. Tooru è in giornata? Benissimo, anche il nostro Asso lo sarà. Oh, vorrei battere in salto come fa Tooru! Tooru riceverà il premio per il miglior alzatore della prefettura, ormai è certo! Chi mai potrebbe competere con Tooru? Tooru! Tooru! Tooru!
Più o meno erano questi i pensieri dei miei compagni di squadra. Non avevamo mai perso una partita prima d’ora e credevamo che saremmo andati alle nazionali e si, questa volta avremmo vinto! La prima partita del torneo fu di una facilità incredibile, la seconda anche: superammo il primo giorno con tranquillità ed io mi sentivo invincibile. Capisco solo ora quanto fossi stupido neanche tre anni fa: credevo che la squadra più forte fosse quella con l’alzatore e lo schiacciatore più forte, nient’altro importava, e io mi sentivo il più forte accanto a lui. Poi venne la prima partita della seconda giornata, venne un altro avversario e venne un’altra vittoria, così, diedi per scontato che anche l’ultima squadra del secondo giorno fosse abbastanza debole. ‘Kitagawa Daiichi’ recitava un cartellone, l’avevo già sentita, era la mia seconda opzione quando dovevo scegliere che scuola media prendere. Era un mio rifiuto, un mio scarto, e nonostante questo, durante la partita mi sentii addosso una pressione assurdamente alta. Mi rifiutavo di credere che fosse ansia, che fosse paura di sbagliare o di vedere un alzatore bravo quanto me dall’altra parte, no, dopotutto il palleggiatore avversario era un mediocre, come tutti gli altri. Proprio quando pensavo di non aver nulla da temere, l’alzatore dell’altra squadra fu sostituito da quello che sembrava essere una matricola alle prime armi, un ragazzetto che di pallavolo non sapeva nulla. Era già abbastanza alto, si, con dei lineamenti freddi e allo stesso tempo intensi, due occhi blu chiusi in un’espressione di disgusto e concentrazione.
No, quanto mi sbagliavo sul conto di Tobio.
All’inizio lui non notò il piccolo prodigio dall’altro lato del campo, preso com’era dalle mie alzate più incerte del solito. Quando, dopo due o tre azioni giocate, capì che c’era finalmente qualcuno in grado di superarmi per talento e per determinazione, non mi guardò più per il resto della partita.
I suoi occhi erano per Tobio. Tobio, che a soli undici anni sapeva creare legami, sapeva indirizzare la palla in un punto qualsiasi del campo, sapeva murare e sapeva difendere. Il suo potenziale era infinito, e dedussi che quel concentrato di genialità era partito in panchina solo per far onore al suo senpai mediocre. Nel momento esatto in cui realizzai che, se avessi scelto la Kitagawa Daiichi, mi sarei ritrovato a competere con il piccolo genio che era Tobio, capii che probabilmente in quel caso non sarei più riuscito a giocare a pallavolo. Non ce l’avrei fatta, senza qualcuno al mio fianco, senza una persona che mi spronasse ad andare avanti non per scopi personali ma per il semplice motivo di tenere a me come amico.
Nonostante i miei pensieri, le mie emozioni e il mio umore instabile, vidi chiaramente e fin da subito il più grande punto debole di Tobio. Aveva undici anni e giocava magnificamente, avrebbe avuto una carriera brillante, se solo non fosse stato per l’egoismo con cui gestiva il pallone. Probabilmente in quella partita non diede affatto il peggio di sé, perché a giocare con lui erano tutti senpai, ma intuii che il piccolo grande Tobio giocava da solo contro di noi. Non avrebbe mai trovato qualcuno talmente stupido da farlo ragionare, ah! Qualcuno che si sarebbe fidato di lui a tal punto da mettere in secondo piano l’egoismo delle sue alzate. O almeno, credevo che una persona del genere non potesse esistere.
Quando compresi che quello stesso egoismo di Tobio avrebbe solo rovinato gli equilibri della sua squadra, mettendo in ombra il suo talento, fui talmente felice che ripresi a giocare comce al mio solito, se non meglio. Giusto, pensai, chi se ne importa se ho un piccolo genio di tre anni più piccolo alle calcagna! Io ho Ushi… io ho lui, lui, che ha bisogno di me per vincere, per giocare! Nel momento esatto in cui formulai questi pensieri era appena finito il primo set, 1-0 per noi. Mi voltai verso di lui, certo che stesse ricambiando il mio sguardo, ma i suoi occhi vedevano solo Tobio, erano solo per Tobio. Lo guardai mangiare con lo sguardo il piccolo genio e ignorarmi completamente, come se fossi stato un telefono nuovo di un modello già superato da anni. Devi sapere, Iwa-chan, che sono molto orgoglioso, e ricordo benissimo il dolore che provai alla sensazione che lui mi avesse messo da parte in così poco tempo. Non si trattava del fatto che fosse proprio lui ad abbandonarmi così, moralmente, quanto più del fatto che mi fossi illuso per tre anni di essere il migliore, di poter superare tutti, quando già un bambino era molto più avanti di me…
Provai un’insensata voglio di gridare in faccia a quel bastardo di un asso che no, quel ragazzino non avrebbe mai potuto soddisfarlo, perché erano due egocentrici e non sarebbero mai andati d’accordo, ma fui frenato da un’emozione che, al tempo, non riconobbi. Ora lo so e lo posso dire con certezza: oltre alla rabbia, oltre all’amarezza e alla delusione, c’era della gelosia nel mio risentimento, e tanto tanto tanto odio. Il desiderio di farla pagare a quel ragazzo che per tre anni mi aveva spinto a distruggermi di allenamenti e a migliorare sempre di più, per stare al passo con il suo talento. Non volevo perdere contro di lui.
Lasciai correre il fatto che per tutto il set non mi avesse più guardato come al solito, ignorai il risentimento che bruciava nel mio petto e il disprezzo per il piccolo alzatore che, in una sola ora, era riuscito a far crollare parte delle mie certezze costruite con tanta fatica.
Vincemmo anche il secondo set, andando avanti nel girone. Finita la partita mi ritirai da solo negli spogliatoi, precedendo la squadra e tuffandomi sotto la doccia, uscendo solo quando non sentii più l’irritante chiacchiericcio dei miei compagni. Uscii grondante d’acqua e tutto infreddolito, ricordando solo in quel momento di aver dimenticato l’asciugamano ed il cambio nella stanza adiacente a quella delle docce. Convinto di essere solo, facendo attenzione a non fare rumor- Hey, Iwa-chan, non ridere! Ero completamente nudo in una palestra sconosciuta! Stavo dicendo, uscii dalla stanza fiondandomi a cercare il mio zaino, che trovai dopo attimi di agonia. Quando ero sul punto di rivestirmi, sentii uno sguardo freddo perforarmi la schiena e notai che lui era entrato negli spogliatoi chissà da quanto- e mi stava fissando. Probabilmente non avrei dovuto sentirmi bene, a sapere che l’oggetto delle sue attenzioni ero di nuovo io e non il piccolo genio, ma sì, mi sentii bene. Sentii anche crescere dentro di me, per la seconda volta, il bisogno di fare del male a quell’individuo, che aveva saputo abbattere le mie difese come nessuno era mai riuscito a fare. Finii di infilarmi i pantaloni con una lentezza che avrebbe dovuto infastidirlo, ma che ebbe il solo risultato di irritare me stesso. Non feci in tempo a mettere la maglia, però, che lui accorciò la distanza che ci separava con due grandi falcate, e si portò al mio fianco. “Oikawa” disse solo, guardandomi dall’alto della sua posizione privilegiata, gli occhi inespressivi come al solito, la mascella contratta.
“Mi sto cambiando, come vedi” riuscii solo a sillabare, mentre una folata di vento dalla porta aperta mi fece rabbrividire. Cercai di infilarmi la tuta, per sfuggire a quel freddo gelido di marzo così strano e così crudele. Nello stesso tempo lui mi bloccò i polsi, impedendomi qualsiasi movimento, e mi spinse a sé con un gesto brusco. Ancora una volta mi ritrovai a pensare alla nostra differenza di forza, che mi impediva di ribellarmi anche solo minimamente: lui mi sovrastava in tutto e per tutto, e non riuscii a liberarmi neppure quando incominciò ad avvicinare lentamente il suo viso al mio. Forse mi sono affidato troppo a lui, riflettei, quando premette le sue labbra con forza sulle mie, rubandomi il mio primo bacio. In quel preciso istante pensai, e lo ricordo ancora, che non era un problema il fatto che lui fosse un ragazzo, semplicemente avevo già capito da tempo che il mio interesse verso le persone dipendeva non tanto dal sesso quanto dal loro carattere, da quanto potevano essere interessanti secondo il mio punto di vista. Poi pensai che il vero problema era che stesse succedendo tutto in fretta, contro la mia volontà, e soprattutto con lui. Quando schiusi la bocca per lasciarlo entrare, lui stesso sembrò quasi provare un’emozione umana simile alla confusione, spingendo la sua lingua contro la mia e lasciandomi tracce di saliva ai lati delle labbra. Non sapeva baciare, Ushijima, e all’improvviso ricordai il nostro primo incontro, le sue parole ‘Sii mio’ e mi chiesi stupidamente se era quello che intendeva, dopotutto. Poi mi presi in giro da solo, mentalmente, perché a dodici anni ero un bambino e l’unico interesse che lui poteva avere nei miei confronti riguardava la pallavolo, e nient’altro. Stanco del suo muoversi e muoversi e muoversi dentro di me gli morsi il labbro abbastanza forte da farlo sobbalzare improvvisamente, mentre si allontanava e portava una mano alla bocca che stava iniziando a sanguinare.
Sorrisi vittorioso, ignorando la sgradevole sensazione che mi stava attorcigliando lo stomaco. Lo vidi guardarmi per la seconda volta con un’espressione diversa dall’indifferenza, un misto tra incredulità e soddisfazione. Feci quello che, negli ultimi tempi, mi era venuto sempre più naturale fino a diventare un’abitudine: nascosi il mio disgusto, il mio tormento e la mia rabbia inespressa dietro una facciata di arroganza, e ringraziai mentalmente proprio Ushijima per avermi insegnato a costruire una maschera così perfetta. Se si accorse della mia finzione, non lo diede a vedere, avvicinandosi di nuovo a me, stavolta con passi lenti e misurati. Avevo di nuovo freddo, e lui se ne accorse, inarcando un sopracciglio come a voler dire ‘soffri per così poco? Sei così debole’. Sorrisi di nuovo, stavolta con disprezzo, che era esattamente la stessa emozione che stavo provando in quel momento. Lasciai che lui mi raggiungesse di nuovo, lasciai che il suo respiro si fondesse con il mio mentre le sue mani vagavano sui miei fianchi nudi, sulla mia pelle, sulla mia schiena. Rabbrividii, e non per il freddo, quando lui cercò distrattamente di carezzarmi il viso, riuscendo però solo a graffiarmi le guance con il suo tocco ruvido. Nonostante sapessi che ero io quello in vantaggio, stavolta, che ero io a poter distogliere lo sguardo in qualsiasi momento, non riuscivo ancora ad alzare il capo ed incontrare i suoi occhi. Forse, pensai, mi sono affidato troppo a lui, in un certo senso. Credevo che fosse lui a dover affidarsi alle mie alzate per fare punto, e invece era proprio il contrario, ero io che gli donavo spontaneamente le mie palle migliori per segnare con sicurezza, perché lui segnava per me, e solo per me…
“Oikawa, la prima volta che ti ho visto avevo dodici anni. Ti chiesi di essere mio e tu annuisti. Ora te lo richiedo, in un modo diverso. Oikawa, sii mio, nel campo e fuori dal campo”
I suoi occhi freddi trasmettevano sicurezza, quello non era lo sguardo di chi si aspettava un rifiuto. Cercai di convincermi che no, non stavo accettando la sua dichiarazione mascherata perché dipendevo da lui, e neanche perché ero attratto da quell’ammasso di muscoli e indifferenza. Stavo accettando per la mia vendetta, perché avrei vinto la nostra sfida, mi convinsi.
Avevo quasi quindici anni, e sapevo che iniziare una relazione con Ushijima mi avrebbe comportato solo problemi e scocciature. Sapevo che lui avrebbe guardato altrove ogni qual volta si fosse presentata una persona con un talento maggiore del mio, eppure, qualcosa mi spinse a scuotere la testa in un segno affermativo, come a ricalcare la mia dipendenza dalla sua persona.
Non mi perdonerò mai per questo.

 

 
 
*sesta elementare: le elementari in Giappone durano sei anni
*aveva perso la testa per lei: mi sono completamente inventata il divorzio. Scusatemi! Solo che questa fantomatica separazione mi è utile ai fini della trama, è dalla sua situazione familiare che Tooru inizia ad interessarsi anche al sesso maschile, quasi più del femminile, ritenendo la femmina in generale quasi un’approfittatrice (prendetevela con suo padre, non con me!)
*quasi dodici anni: l’anno scolastico in Giappone inizia ad aprile e finisce a marzo, tenete presente che Oikawa è nato il 20 luglio e le elementari durano 6 anni: se i miei calcoli sono esatti, nel periodo della prima media avrebbe dovuto avere 11 anni e mezzo.
*jump float: la battuta a salto float di Yamaguchi, per chi non s’intendesse di pallavolo
*salto rotante: abbreviazione per salto float rotante, la battuta di Oikawa





Mi sono fatta aspettare ma ecco qui il nuovo capitolo della fanfiction, che come preannunciato è un flashback di Oikawa -non ancora completato perchè stava diventando enorme. Poi vi annoio! 
Spero di riuscire a pubblicare presto la seconda parte del flashback, quella che ricopre i tre anni del liceo, e spero che nel frattempo non mi odiate per come sto facendo evolvere la storia. Io odio la UshiOi, sul serio!
Coomunque, per quanto riguarda gli spin-off, ho deciso di raccoglierli in una storia collegata a questa, così si eviteranno impicci e imbrogli *inserire qui citazione Manzoniana*
Che dire, grazie alle quasi 400 visite e a coloro che recensiscono, mi date la forza per continuare a scrivere sui nostri amati idioti!

 
   
 
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