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Autore: Lory221B    21/05/2016    4 recensioni
Sherlock preferirebbe sprofondare in una realtà fittizzia o lasciare Londra, piuttosto che vivere una vita in cui John non è sempre al suo fianco. Ma deve finire proprio così?
[Johnlock]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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We will be living for the love we have, Living not for reality


Sherlock era partito soltanto da un giorno e nel frattempo John aveva cercato in tutti i modi di non pensare a quell'inaspettato “Ti amo”. Perché non lo aveva capito prima, o meglio, perché non aveva voluto vedere?

Era stato più facile non vedere, si rispose, così non aveva dovuto riflettere sui sentimenti di Sherlock ma soprattutto sui suoi. Non era semplice mettere ordine nella sua testa, quando ogni fibra di se stesso gli aveva gridato per anni di non approfondire, che Sherlock era sposato con il suo lavoro, che avrebbe solo sofferto e nulla più.

Ora sapeva qual era la verità, ma quante cose erano accadute? Il finto suicidio, il matrimonio, la figlia, i doveri e le responsabilità. Non era più il John di “Uno studio in rosa”, il blogger che aveva rinunciato a tutto per una vita con Sherlock.

Una mattina, mentre stava andando verso il lavoro, notò che parcheggiata davanti la clinica, c'era una familiare auto scura. Non aveva più pensato a Mycroft da quando Sherlock se ne era andato, ma solo ora si rendeva conto che il recente atteggiamento di fastidio nei suoi confronti, era giustificato dal tentativo di proteggere il fratello.
Bussò al finestrino e di rimando Mycroft aprì lo sportello dell'auto.

- A cosa devo questa visita? – fece John, ricordando i “bei” tempi in cui veniva sequestrato da Mycroft, nei momenti meno opportuni. Non riusciva a non ripensare con una certa malinconia, alla volta in cui il misterioso individuo che ora ben conosceva, gli aveva intimato di scegliere da che parte stare. Sempre quella di Sherlock, si rispose, senza alcun dubbio, anche quando lo aveva appena conosciuto.

- So che Sherlock ti ha confessato i suoi sentimenti – esordì Mycroft, con un tono che tradiva una leggera preoccupazione.

John si limitò ad annuire, imbarazzato da non essere ancora riuscito ad accettare quell’evento. Era strano e al tempo stesso non lo era. Gli aveva fatto voglia di abbracciare Sherlock, disperatamente e allo stesso tempo di fuggire. Di parlarne fino allo svenimento e di non toccare l’argomento mai più.

- Vorrei che tu non ti mettessi più in contatto con lui. Niente telefonate, niente sms – sentenziò Mycroft.

John lo fissò, aspettandosi altre informazioni.

- E' l'unica soluzione perché Sherlock non resti ancorato a te. Magari andrà oltre a questa cosa e tornerà qui a Londra e sarete di nuovo amici –

John accusò il colpo - Mi sembra di aver perso il dono della parola in questi giorni, non l’ho ancora contattato – rispose tristemente.

- Non sei speciale, John – affermò Mycroft - Prima mio fratello lo capirà, prima smetterà di autodistruggersi – affermò e John, contro ogni sua logica, si innervosì. Non era il fatto che Mycroft lo considerasse ordinario, ma il fatto che Sherlock potesse considerarlo così.

- Non ho la pretesa di essere speciale – rispose semplicemente.

- Ma hai la pretesa di usare mio fratello a tuo piacimento – ribatté Mycroft, senza preoccuparsi di mantenere una parvenza di distacco o di cortesia.

John strinse forte i pugni. Dirgli che era ordinario andava bene, accusarlo addirittura di usare Sherlock, no - Di cosa cazzo stiamo parlando? -

- Intendo che lui non è più il tuo sfogo, quando la routine domestica ti va stretta – fece Mycroft, freddo come il ghiaccio.

- Non è mai stato questo. Passavo a trovarlo anche quando non avevamo casi, non era solo la mia dose di adrenalina – ribatté.

Mycroft capì di aver passato il limite con l’ultima affermazione. Dopotutto non poteva dare a John ogni colpa, soprattutto perché era lui che aveva sbagliato. Una totale mancanza di lungimiranza da parte sua. Non credeva che quello che suo fratello provava per John potesse essere così forte, al punto da fargli prendere un sentiero apparentemente senza ritorno. Se l’avesse saputo non lo avrebbe mai fatto partire per smantellare la rete di Moriarty e soprattutto avrebbe previsto l’assassinio di Magnussen.

Mycroft sospirò, deluso da se stesso - Gli hai fatto capire che può avere delle relazioni con altri esseri umani – affermò, abbassando il tono della voce - Confido che ne abbia di più soddisfacenti a Boston, per cui per favore lascialo stare, non contattarlo finché non ti dirò che ha superato questa cosa -

John storse il viso su "questa cosa", affermata da Mycroft con la classica espressione di fastidio che riservava alle relazioni umane.

Non rispose, non sapeva davvero cosa dire. Ma un tarlo entrò nella sua testa: “relazioni più soddisfacenti”, cosa intendeva? Sherlock aveva incontrato qualcuno di interessante a Boston? Si trovò a immaginare l’amico che rideva e scherzava con questo qualcuno e a John prese una leggera fitta alla bocca dello stomaco, una sensazione fisica che non sentiva da tanto tempo. Forse Sherlock non era l’unico che archiviava le cose che non voleva affrontare.

John non aveva mai negato a se stesso di aver provato qualcosa per Sherlock, per un po’ di tempo. Qualcosa di indefinito, un sentimento molto oltre l’amicizia ma che lui non aveva mai incasellato da qualche parte. Ne era stato colpito da subito, lo aveva anche scritto nel suo blog, lo aveva definito “strano ma affascinante”(1). Stima? Affetto? Amore platonico? Non aveva mai sentito tanto bisogno di correre dalla psicologa come in quel momento.

Salutò Mycroft, rassicurandolo che non avrebbe fatto niente di sconveniente e andò al lavoro con la solita espressione da cane bastonato.

Nemmeno Mycroft era del tutto sicuro di quello che stava facendo, quando si trattava di suo fratello non lo era mai. Aveva condotto la conversazione in modo che John capisse che doveva lasciare che Sherlock voltasse pagina, ma al contempo gli aveva quasi dato una spinta perché, se si fosse reso conto di poter ricambiare i sentimenti Sherlock, era il momento di fare qualcosa o di lasciarlo andare per sempre.

Ora stava soltanto a John, lui aveva fatto quello che poteva. Sapeva che sarebbe stato più facile intervenire per sgominare un’organizzazione internazionale che per sistemare la relazione che avevano quei due.

***** ****
John non aveva raccontato a Mary dell’inaspettata dichiarazione d’amore di Sherlock;  le aveva detto soltanto che il detective era partito per una missione negli Stati Uniti e che non sapeva quando sarebbe tornato. Lei non era sembrata particolarmente colpita dal fatto e inevitabilmente John cominciò a chiedersi  se solo lui non avesse dedotto i veri sentimenti di Sherlock.

Le giornate trascorsero vuote; non era solo la frenesia di lasciare la periferia per ottenere la sua dose di adrenalina, era proprio la mancanza dell'unico consulente investigativo al mondo. Non era la stessa Londra, non vedeva più il campo di battaglia, c'erano le visite mediche e c'era Elisabeth.

A casa girava sempre con il cellulare in mano, indeciso se mandare un sms a Sherlock o meno. Non sapeva se fosse giusto, se davvero gli avrebbe fatto più male che bene. Se farsi vivo lo avrebbe in qualche modo ferito. Ma forse stava solo proteggendo se stesso, non era facile per lui ammettere che quello che provava era talmente forte che rischiava di travolgerlo.

Tutto questo chiudersi in se stesso non giovava nei rapporti con Mary. Lei sapeva che la partenza di Sherlock non avrebbe lasciato il marito indifferente, ma era certa che la tempesta sarebbe presto passata. Eppure più i giorni scorrevano, più John sembrava assente e distante.

Una settimana dopo la conversazione con Mycroft, Mary aveva costretto John a uscire di casa per una cena con amici. Erano seduti al tavolo, David stava raccontando delle cose divertenti che erano accadute al lavoro, ma John non aveva prestato attenzione alla conversazione, nemmeno per un secondo.

Continuava a fissare il gruppo di amici, tentando di dedurli come avrebbe fatto Sherlock, inutilmente, per poi ritornare su David, l'ex di Mary. Non lo infastidiva, non lo aveva mai infastidito. Era l'ex di sua moglie e lei lo aveva anche  invitato al loro matrimonio.

Ma lui non ne era stato turbato.

I veri turbamenti si erano presentati in altre situazioni. Quanto era stato geloso di Irene Adler? Aveva contato tutti gli sms che lei gli aveva inviato, l'aveva odiata per aver finto la morte, rendendo Sherlock triste, e poi era rimasto turbato per un semplice bacio sulla guancia.

Non occorreva nemmeno che ripensasse a Janine, almeno lei era stata liquidata in qualche ora come finta fidanzata.

- John, tu non hai niente da dire? – chiese, improvvisamente, la ragazza di David.

Non aveva idea di cosa stessero parlando e su cosa doveva dare un'opinione - Di che cosa? -

- Stavamo parlando del tuo amico, di Sherlock Holmes. Per David è uno psicopatico; sai che gli aveva detto che non avrebbe potuto vedere Mary più di due volte l'anno ed esclusivamente in tua presenza? -

- Sherlock non è uno psicopatico - rispose infastidito - E comunque non lo sapevo. Ma Sherlock è sempre stato eccessivamente protettivo - "Perché voleva fossi felice, a discapito della sua felicità" aggiunse fra sé.

Come si permettevano quegli estranei di parlare di Sherlock?  Nessuno lo conosceva e cominciava a pensare che nemmeno lui era l'amico che aveva tanto decantato. Sherlock aveva dei sentimenti. E perché non avrebbe dovuto averli? Era un essere umano. Sherlock aveva sempre cercato di nasconderli e John non aveva mai indagato.

Ma adesso era di fronte alla realtà, finalmente aveva una conferma di quello che aveva sempre cercato e mai ricevuto.

Si ritrovò a ripensare a quella lapide nera, a quando la sua vita era finita e alle parole che aveva detto e a tutte quelle che non aveva mai pronunciato. Non aveva mai fatto i conti con quelle parole, ed ora sembrava troppo tardi.

Attorno a lui, tutti ridevano e scherzavano, incuranti del fatto che sembrava che Londra e il mondo di John Watson avessero meno senso senza Sherlock Holmes.

Il cellulare gli vibrò in tasca, non era un sms ma una e-mail. Guardò l'indirizzo e per un attimo gli saltò un battito, era proprio di Sherlock. Con una scusa si alzò da tavola e si diresse fuori, per leggerla privatamente, perché non aveva idea di cosa avrebbe trovato.

"Ciao John, è da quando son partito che cerco di scrivere questa mail. Come sai, mi viene più facile uno studio sui tipi di tabacco rispetto a "questo".

John pensò a quanto era simile a Mycroft. Liquidare sentimenti e emozioni con “questo”.

Non volevo salutarti in quel modo; il nostro congedo all'aeroporto era stato perfetto, ti avevo lasciato con un sorriso e così volevo ricordarti. Non con l'espressione di panico negli occhi"

John sorrise, amaro. Sapeva che Sherlock stava cercando di sdrammatizzare, a modo suo.

"Comunque, mi rendo conto solo ora che è molto più facile buttare i propri pensieri su carta che dirli a voce alta. Mi spiace per averti shockato, per aver rovinato la nostra amicizia in qualche modo. Potevo tenermelo per me e l'avrei fatto fino alla fine dei miei giorni, ma tutto stava diventano troppo, spero mi capirai.

Se non mi hai scritto fino ad oggi, immagino sia perché ritieni sia meglio così, per me. Oppure mio fratello ti ha convinto a non farlo. Non lo so nemmeno io se è davvero così, se starei peggio sentendoti. Strano, ammettere di  non sapere. Ma se ti va di rispondermi, anche solo per dire che stai bene, mi farebbe piacere, sono qui.

Non preoccuparti per me, ho dei fastidiosi vicini con cui litigo quotidianamente quando suono il violino alle 2 di notte, per cui continuo ad avere delle relazioni con il resto dell'umanità. Mangio, bevo e a volte anche dormo. Inoltre, c'è tutto un mondo di criminali diversi da quelli di Londra, potrei mettermi a scrivere un blog anch'io.

Inutile dire che mi manchi.

Salutami la signora Hudson e cerca di aiutare Lestrade, da quello che leggo sui giornali ne ha terribilmente bisogno"

SH

Rimase a fissare quella e-mail, almeno mezz'ora; sembrava non dire niente ma sembrava anche dire tutto. “Mi farebbe piacere…inutile dire che mi manchi”. - Oh, Sherlock. Mi manche anche tu -

La serata finì molte chiacchiere dopo, con John che di malumore guidava verso casa.

- Sai, potremmo fare qualcosa di divertente, domani - fece Mary.

- Tipo? – chiese sconsolato, cercando di guardare la strada, invece che pensare costantemente a quanto fosse lontana Boston.

- Sai, Scotland Yard potrebbe avere bisogno di una mano e io conosco un ispettore che sarebbe contento di avere un aiuto – fece la moglie.

- Mary, parli sul serio? - chiese John, ma il tono non era entusiasta come la donna aveva pensato.

- Credevo ti mancasse l'adrenalina – rispose lei, sforzandosi di sembrare incoraggiante e non stufa oltre ogni misura.

- Mi manca Sherlock - rispose soltanto.

- Tanto da essere diventato l’ombra di te stesso? -

John inchiodò e per un attimo Mary temette che sarebbero andati a sbattere da qualche parte.

- Non so più cosa pensare, questo è il punto. Non c'è stata una cosa che sia andata dritta nella mia vita - affermò, esasperato.

- Bella questa, John. Intendi anche me? -

- Mary, ti sembra che si possano definire dritte, le cose tra noi? Mi hai mentito su tutto, hai sparato al mio migliore amico, non è esattamente così che immaginavo sarebbe andato il mio matrimonio. Ma non è solo questo, il congedo forzato dall’esercito, Sherlock che finge il suicidio, Sherlock che rischia l'esilio e poi se ne va per sempre. Io non ho voce in nessun capitolo, capisci? Le cose mi accadono e io cosa ho fatto per provocarle? -

Lei scosse la testa - Proprio come ha detto Sherlock una volta, tutto. Questo è il tipo di vita che vuoi, che hai scelto. Non fare la vittima, John. Se qualcosa non va bene, se c'è qualcosa che non va, è inutile che dai la colpa agli altri -

Lui si voltò a guardarla, la donna che amava, ma non abbastanza come avrebbe voluto, come si era imposto quando sembrava più facile. Le doveva tanto, per essergli stata vicino nei due anni di lutto, dopo il salto dal tetto. Ma poi, Sherlock, era ripiombato nelle loro vite.

John era un uomo d’azione. Era un uomo che si era iscritto a medicina per poi arruolarsi nell’esercito. Era un ex veterano che aveva condiviso un appartamento con un consulente investigativo e aveva rischiato la vita mille volte, con lui e per lui.

Gli unici momenti in cui si era fermato a scavare dentro se stesso, erano stati pochi e si erano limitati ai post sul blog e ai racconti parziali che forniva alla sua terapista.
Non era superficiale, semplicemente affrontava il lato pratico della vita, senza soffermarsi su chi lui fosse veramente.

Era quello che gli era stato insegnato, “tutto Patria e Regina”, come lo aveva definito Sherlock. Era stato cresciuto così, da genitori severi che gli avevano insegnato a rispettare i valori tradizionali in un mondo in continua evoluzione.

Le scelte importanti le aveva sempre prese d’impulso:  meno di un attimo per decidere di prestare il cellulare a Sherlock e poi trasferirsi da lui, pochi mesi per decidere di sposare Mary.

Era ancora seduto in auto, quando prese un’altra decisione d’impulso. Guardò Mary, che lo fulminò con lo sguardo – Chiarisciti le idee e poi torna a casa quando sarai sicuro di quello che vuoi –

Lui seguì il consiglio, scese dal veicolo e si diresse verso l’unico luogo della città, dove sarebbe stato da solo con se stesso.

***** *****

Era una notte limpida e stellata, talmente luminosa che John trovò una sorta di conforto in quel tetto di stelle sopra la sua testa.

Era talmente preso dai suoi pensieri che nemmeno si accorse dell’arrivo di una persona molto cara.

- John, cosa ci fai qui? – fece timidamente, Molly. Da dove fosse spuntata e come faceva a sapere che lui era lì, era un mistero, ma non gli dispiaceva avere compagnia.

- Avevo bisogno di pensare – rispose, soltanto, John.

- Sul tetto del Bart’s? – fece lei perplessa, sedendosi accanto a lui.

- Sì, Molly. Sai che non ero mai salito qui sopra? Non dopo... – e lasciò la frase in sospeso. Com’era strano essere lì; si chiese cosa potesse aver provato il detective quando aveva dovuto dirgli addio. John lo aveva odiato per quello che gli aveva fatto, ma ora, “il biglietto” che gli aveva lasciato, assumeva una connotazione agrodolce, che non riusciva a digerire.

- John, cosa c’è che non va? – riprovò Molly.

John non possedeva un Palazzo Mentale, non aveva un ricco mondo interno fatto di ricordi e ricostruzioni. Era concreto. Ma non poteva più nascondere la testa sotto la sabbia, non dopo che Sherlock stesso si era dimostrato più maturo e coraggioso di lui.

Per due anni aveva vissuto con Sherlock, quello vero, non quello che tutti vedevano e credevano di conoscere: il consulente investigativo, il sociopatico, la macchina senza sentimenti. Aveva vissuto con l’artista che suonava il violino, con il ragazzino che si lamentava della noia, con il genio che deduceva un mondo da un semplice indizio, con il coinquilino con cui faceva le maratone di film di James Bond (2), semplicemente con Sherlock che si alzava la mattina e beveva il tè, saltellava per la casa agitando la signora Hudson, correggeva la televisione e metteva pezzi di cadavere nel frigorifero.

- Dio, quanto mi manca – affermò solamente.


******  *****
Boston, non era tanto male quanto Sherlock aveva pensato. Il clima era molto simile a quello di Londra, piogge abbondanti intervallate da qualche raggio di sole. C’era il porto, c’erano gli edifici dallo stile britannico e c’erano i criminali interessanti. Altro non serviva.

Mycroft gli aveva trovato un ampio e luminoso appartamento ma Sherlock aveva rifiutato l’offerta, preferendo un piccolo mansardato, non lontano dal centro, vicino alla zona universitaria. Non aveva bisogno di ampi spazi, gli bastava un monolocale, giusto un tetto sulla testa.

I primi giorni erano stati quasi i più facili. Aveva sempre la testa impegnata, dovendo studiare la città, le abitudini dei suoi abitanti e tutti quei dettagli essenziali per risolvere un crimine.

Costatò subito che la polizia era effettivamente stata avvisata del suo arrivo da Mycroft e in particolare un Ispettore era particolarmente colpito dalle deduzioni del detective. Aveva fortunatamente trovato un altro Lestrade e vista la quantità di omicidi irrisolti nel suo distretto, Sherlock era tranquillo che per un po’ di tempo non avrebbe avuto modo di riflettere su tutto quello che aveva lasciato dietro di sé.

Eppure non riusciva a non pensare al suo congedo da John. Semplicemente orribile; più ci pensava e più ricordava la faccia dell’amico, quella di uno a cui è appena crollato il Mondo addosso. Era rimasto immobile dallo shock, poi era passato all’imbarazzo e alla fine era stato salvato dalla provvidenziale telefonata di Mary.

Continuava a immaginare la scena, ripassandola nella testa e chiedendosi dove avesse sbagliato, perché non avesse mentito. Poteva semplicemente dirgli che partiva per un incarico governativo; perché aveva mentito sull’esilio che lo avrebbe portato a morte certa in sei mesi e questa volta aveva sentito l’impellente bisogno di essere sincero?

Perché speravi di esserti sbagliato, di aver dedotto male. Che ti ricambiassi

- Zitto, John! – fece tra sé.

Una sera come tante altre, era nel suo monolocale, disteso sul letto che aveva sistemato proprio sotto la finestra. Una piccola apertura nel tetto che gli dava la visuale sul cielo stellato di Boston, che non era poi tanto diverso da quello di Londra.

Non manchi a nessuno” fece Jim Moriarty, camminando per il lugubre corridoio del Palazzo Mentale, completamente immerso nell’oscurità, ora che tutte le porte erano chiuse, ora che il suo conduttore di luce non c’era più.

Inutile che fissi il cielo immaginando di essere ancora con i tuoi amici, sei solooooo” sottolineò con un acuto.

“Non è vero, Lestrade e Molly mi hanno scritto delle mail” rispose il detective, punto sul vivo.

E John?”

“John crede mi farebbe male, sono sicuro che è per questo”

Ti ha già dimenticato. Gli hai scritto che può farsi vivo per dirti come sta e nemmeno ti risponde

Si era messo sul letto per riposare un po’ la mente, ma non c’era modo. Se avesse continuato così, sarebbe presto ritornato alla cocaina.

Si alzò, ignorando gli ulteriori commenti beffardi nella sua testa e cercò di sfogare la sua frustrazione suonando. Accarezzò le corde del suo violino, cercando di concentrarsi solo sulle sensazioni, svuotando la mente. Fletté l’archetto in aria e poi, delicatamente, il primo accordo prese vita. La musica stessa era vita, i suoni e le melodie prendevano forma nella sua testa, erano un modo per dare ordine al caos della sua mente.

Stava suonando da appena mezz’ora, quando qualcuno bussò alla porta. Uno strano modo di bussare, tra l’impaziente e il dubbioso.

Il detective guardò l’ora tarda e immaginò fossero i soliti vicini che si lamentavano del rumore – Scusate, la smetto subito – gridò, per niente intenzionato a interrompere la sua attività.

- Sherlock, sono io. Sono John! –

Il detective si paralizzò, non poteva essere lui. Era la sua testa che lo prendeva in giro. Si guardò attorno, convinto che avrebbe visto una siringa e un laccio emostatico, buttati da qualche parte, invece non c’era traccia di sostanza stupefacente, era lucido.

Appoggiò il violino sul tavolo e a passo incerto si diresse alla porta. La mano si strinse attorno alla maniglia in un gesto estremamente lento, al contrario della velocità con cui il sangue gli stava pulsando nelle vene. Aprì la porta e John era davanti a lui.

Cercò di dedurlo: non si era fatto la barba, indossava gli stessi vestiti da più di 48 ore, non aveva una valigia per cui aveva preso l’areo senza programmarlo, di fretta. Guardandolo meglio poté dedurre che per poco non lo aveva perso.

Doveva essere successo qualcosa di grave per fare un volo di oltre otto ore, attraversare addirittura un oceano, solo per raggiungerlo.

John sorrideva, perché era sicuro che Sherlock stava deducendo tutto il deducibile, anche la quantità di caffè che aveva bevuto in aereo, mentre la sua mente era vuota, ora che lo aveva davanti. Si morse un labbro, perché avrebbe voluto commentare la visione di Sherlock con un “magnifico”, per una volta rivolto all’interezza della sua persona e non ad un suo ragionamento.

- Cos' è successo? Qualcosa di grave? – Chiese il detective con apprensione. Talmente grave che non aveva potuto dirlo per telefono? Forse John temeva che lui non sarebbe tornato a Londra per aiutarlo? Come poteva credere una cosa del genere? Se John avesse chiamato per un’emergenza, il detective sarebbe saltato sul primo aereo, avrebbe sequestrato un jet, ma in qualche modo sarebbe tornato.

Inaspettatamente però, nonostante le catastrofiche previsioni di Sherlock, John stava sorridendo. Il detective si accigliò, cosa gli era sfuggito?

- Qualcosa di gravissimo – rispose John, ma stava ancora sorridendo e Sherlock era nella confusione più totale – Ho scoperto due cose, la prima è che avevi ragione quando mi hai conosciuto, sono un idiota. La seconda è che non avrei dovuto lasciarti andare via in quella maniera, per cui sono doppiamente idiota  –

- Ok – rispose il detective, ancora confuso  - Ma non dovevi sentirti in obbligo di venire fino a qui, lo so che non ti aspettavi una dichiarazione del genere –

- Triplo idiota, per non averlo capito prima, che sono innamorato dell’uomo migliore che esista –

Sherlock strinse gli occhi e John aggiunse – Non sto parlando di Billy Kinkaid, lo strangolatore di Candem (3) –

E proprio come quando gli era stato chiesto di essere il testimone di nozze, Sherlock rimase immobile, terrorizzato di aver capito male, che quel dialogo non stesse avvenendo davvero.

John continuò - Ammetto di non aver utilizzato il tempo del viaggio per prepararmi un discorso, Sherlock. Non ne ho bisogno, siamo tu ed io. Sempre se tu lo vuoi ancora – concluse, incerto, mentre il detective continuava a non aprire bocca.

John, allora, annullò la distanza tra loro e si fece vicino, sempre più vicino, al punto che Sherlock riusciva a vedere ogni sfumatura dell’iride, che era decisamente più tendente al blu di quanto sembrasse nelle giornate di pioggia. Riusciva a contare ogni bionda ciglia, solitamente invisibile, finché lo sguardo non gli cadde sulle labbra e fu allora che John decise di farsi audace.

Il morbido contatto delle labbra di John con quelle del detective, provocò una sensazione stranissima in Sherlock. Non era la prima volta che baciava qualcuno, anche se si era sempre trattato di espedienti per qualche caso, ma non gli era mai piaciuto.

Non fino a quel momento.

John era abbracciato a lui, le sue mani erano sulla schiena e lo tenevano stretto, il suo petto si appoggiava perfettamente a quello di Sherlock e ora la sua lingua si era timidamente fatta strada nella sua bocca.

La presenza di John aveva riempito il monolocale, al punto che improvvisamente sembrava tutto troppo piccolo. Tutte quelle sensazioni improvvise finirono per travolgere Sherlock, che stava nuovamente correndo per i corridoi del Palazzo Mentale, mentre tutte le porte si aprivano contemporaneamente.

Nella prima vide John che gli passava il cellulare, strizzandogli l’occhio, mentre Mike Stamford applaudiva; nella seconda erano da Angelo e John stava accendendo una candela, sempre sorridendo nella sua direzione. Ogni porta che era rimasta chiusa o era stata chiusa con impeto dopo ogni delusione, era spalancata. Alcune stanze non avevano nemmeno più la porta, tanta era la forza di quello che stava accadendo. Sherlock continuava a percorrere quel corridoio stordito, non riusciva a stare dietro al vorticare di avvenimenti che aveva davanti.

Un’altra porta e c’era John che coccolava Barbarossa, un’altra ancora e un piccolo John di cinque anni, stringeva in mano un veliero e gli chiedeva di giocare con lui: ora era presente anche in ricordi che non facevano parte della sua vita con John.

Era dovunque, sembrava che nel palazzo Mentale non ci fosse altro e non ci fosse mai stato altro. Sherlock ruotò su stesso, sempre più velocemente, finché non si trovò davanti il John del 1895.

Sei sempre tu, John Watson” affermò, leggermente commosso.

Te lo avevo detto che non doveva finire per forza come suggeriva Mary

Non capisco, però. Com’è successo?

Cosa intendi? Oh, Sherlock, hai così tanto da imparare. Confido che l’altro John sarà un ottimo maestro. Spero che adesso non lo annoierai chiedendogli di sviscerarti ogni singolo motivo per cui è corso qui”.

“Non credo riuscirei a fare grandi discorsi in questo momento” rispose imbarazzato.

John gli sorrise amorevole “Torna nella realtà, è maledettamente più interessante del Palazzo Mentale, in questo momento

Sherlock riaprì gli occhi per accorgersi che non si stavano più baciando e non sapeva nemmeno da quanto tempo avessero smesso. Era ancora stretto a John, un po’ per non crollare a terra, un po’ per non lasciarlo andare mai più.

John strofinò delicatamente il naso sul suo collo – Ti amo, Sherlock Holmes –

- Ridillo – rispose immediatamente Sherlock, tremando sotto il peso di quelle parole tanto desiderate.

- Ti amo, ho bisogno di te, voglio te – affermò semplicemente, guardandolo dritto negli occhi. John avrebbe voluto spingerlo indietro e rovesciarlo di schiena sul piccolo letto di quella mansarda. Avrebbe voluto passare tutta la notte a realizzare ogni fantasia, imparando a memoria ogni gemito che era in grado di fargli emette, farlo impazzire fino a ridurlo in un essere di pure istinto, eliminando ogni traccia di razionalità.

Ma non era quello il momento, non dopo tutto quello che il detective aveva passato, non dopo tutto quello che entrambi avevano passato. Voleva solo tenerlo stretto come non aveva mai fatto nessuno, farlo sentire amato, protetto, al sicuro, speciale come avrebbe dovuto fare ogni singolo giorno da quando lo aveva incontrato.

- Mary? – chiese improvvisamente Sherlock.

- L’ha capito nel momento in cui sono rientrato a casa, che me ne sarei andato –

- Ragazza sveglia – commentò; anche se una parte di lui la detestava per essere entrata nelle loro vite, non aveva mai smesso di rispettarla per la sua intelligenza e perché amava davvero John – Ed Elisabeth? –

- Troveremo un equilibrio. Risolveremo tutto. Sono sicuro che adesso andrà tutto bene –

- Tu ed io contro il resto del mondo? – chiese il detective, acquistando pian piano più padronanza di sé.

John lo guardò, incapace di formulare un pensiero che non fosse “Dio, quanto è bello” e riprese a baciarlo, e così facendo aiutò a chiudere fuori dalla mente di Sherlock, tutto quello che non erano loro due.

Un John sorridente e in abito da sera, circondato dalla dolce e romantica luce delle candele che ora illuminavano un unico, enorme, salone, prese la mano di Sherlock e lo condusse in un Valzer. Finalmente, nel Palazzo Mentale c’erano silenzio e quiete.

THE END

(1) E (2) sono frasi riprese dal Blog di John Watson, se non lo avete mai visitato, rimediate subito: http://www.johnwatsonblog.co.uk/
(3) Ovviamente “The sign of three”


Angolo autrice:
Questa volta il titolo è ripreso dala strofa finale di "Just my immagination" dei  Cranberries.
E anche questa mini long è finita. Spero vi sia piaciuta leggerla quanto a me scriverla. Era da tanto che non affrontavo qualcosa di più introspettivo ed è stato decisamente più impegnativo di quello che scrivo di solito.
Oltre a ringraziare tutti quelli che leggeranno, ringrazio in particolare Blablia87, ormai un’amica, per tutti gli incoraggiamenti… e per questa storia ne ho avuto bisogno; ringrazio il gradito ritorno di 0803Anna, mi erano mancati i suoi commenti, e di Daniela93, per le bellissime parole della sua recensione; ringrazio Emerenziano la cui profondità delle recensioni mi colpisce sempre e ringrazio le recensori veterane Mikimac e Creepydoll, meno male che le hanno inventate :-P, per essersi fermate a commentare.
Alla prossima


   
 
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