E
rieccomi qui!
Questa
volta l'attesa è stata moooooolto lunga. Poco più
di due mesi. Mi
dispiace tanto.
A
dire la verità il capitolo era quasi finito da molto tempo,
mancava
un'ultima parte, ma tra scuola, studio, scuola, studio e di nuovo
scuola, i pochi momenti liberi li passo praticamente a non far nulla
che implichi uno sforzo mentale di un certo livello. E per quanto
scrivere sia per me rilassante e piacevole, devo comunque pensare a
come sviluppare la trama.
Non
posso promettere che il prossimo capitolo arriverà a un
minor lasso
di tempo, anche se mi sto già mettendo a scrivere,
perché
quest'anno la maturità chiama e non ho esattamente una
grande
quantità di tempo libero.
Che
dire, spero che questo capitolo possa piacere, anche se non mi lascia
molto convinta.
Mi
fareste un grande piacere se lasciaste un commento, di qualsiasi
tipo, in modo da aiutarmi a migliorare o, perché no, dirmi
qualcosa
che possa farmi piacere! Non scrivo per ricevere commenti, ma ammetto
che mi farebbe piacere riceverne.
In
ogni caso, buona lettura e alla prossima!
~Sapphire_
~Dirty Blood
Capitolo tre
Quando
Ophelia aprì gli occhi, la prima cosa che sentì
fu un'atroce fitta
alla testa, un dolore tanto forte da farle pensare che gliela
stessero aprendo in due.
Fece
una smorfia mentre socchiudeva gli occhi, infastidita dalla luce del
sole che invadeva la stanza che non riconosceva, e lentamente si
sollevò dal letto in cui si trovava, sentendosi gli occhi
gonfi e
tutto il corpo indolenzito. Indossava ancora gli abiti del giorno
prima, non si era tolta neanche il cappotto.
Rapido
e implacabile, il ricordo della serata precedente le trafisse la
mente prima che potesse pensare a qualsiasi altra cosa: il rapimento,
i quattro sconosciuti, Mathias...
Sospirò
e si guardò intorno.
Era
in una camera da letto piuttosto ampia, in cui il letto a due piazze
su cui stava troneggiava imponente con le sue coperte verde scuro.
C'era una grande finestra dalle tende scostate da cui entrava forte
la luce del mattino, una scrivania di legno con di fronte una sedia e
un armadio chiaro. Del resto, la stanza risultava piuttosto spoglia.
Si
ritrovò a guardarsi attentamente attorno, cercando di
memorizzare
ogni minimo dettaglio.
La
sera prima non era stata molto attenta, presa com'era dall'ennesimo
attacco di pianto che l'aveva colta appena era arrivata in
quell'altro posto sconosciuto.
Claire,
d'altro canto, ce l'aveva messa tutta per tranquillizzarla, ma
Ophelia si sentiva inconsolabile in quel frangente.
Appena
sveglia, ricordava vagamente cos'era successo dopo che i tre ragazzi
se n'erano andati: Claire l'aveva trascinata via da quella stanza
soffocante per condurla attraverso un'altra porta che si apriva su un
luogo completamente diverso. Una volta oltrepassata si era trovata
nel corridoio di quella che era chiaramente una casa d'epoca.
Claire
l'aveva poi portata in quella camera da letto, facendola sedere e
lasciandola con la promessa che sarebbe tornata subito con qualcosa
di caldo per farla rilassare. Cosa inutile dato che la bionda,
poggiata appena la testolina sul cuscino, si era addormentata tra le
lacrime.
Proprio
in quel momento notò una tazza di tè nel comodino
di legno affianco
al letto, sulla quale un'abat-jour di ferro battuto poggiava spenta.
Allungò una mano per prendere la tazza, ma questa era gelida.
Ovvio,
sarà qui da tutta la notte,
pensò Ophelia, dandosi della scema.
Solo
in quel momento si accorse di non sapere che ora fosse. Beh, almeno
non aveva la preoccupazione di avvisare qualcuno su dove si trovasse.
Escluso ormai Mathias, nessuno si sarebbe fatto domande su dove si
fosse cacciata.
«Ti
sei svegliata»
La
voce di Claire la colse impreparata, facendola sobbalzare e girare di
scatto verso la porta.
La
mora sorrise, continuando a stare sulla soglia. Indossava una
minigonna a pieghe nera, una camicia bianca con le maniche arrotolate
sui gomiti e una cravatta lasciata molle azzurro cielo; sarebbe
potuta sembrare una studentessa se non fosse stato per le scarpe in
vernice nere dal tacco dodici, che le davano un tocco sexy non
appartenente di certo a un'adolescente.
A
Ophelia venne voglia di piangere al solo pensiero di come fosse
invece conciata lei.
«Già»
rispose solo la bionda, incapace di dire altro.
Il
silenzio si fece pesante e imbarazzante, ma Ophelia non sapeva cosa
dire. Aveva circa un centinaio di domande da fare, ma allo stesso
tempo aveva paura di porle.
«Ieri
non hai mangiato niente, avrai fame immagino. Vieni, andiamo a fare
colazione» la incoraggiò sorridente Claire.
Ophelia
si alzò titubante, dirigendosi verso la ragazza sempre con
più
sicurezza: d'altronde, Claire si era dimostrata la più
affidabile in
quella situazione. Tra tutti quelli che aveva
“conosciuto”, lei
era l'opzione migliore. Perciò si lasciò condurre
docile tra i vari
corridoi di quella immensa casa arredata poco ma con eleganza, in cui
i colori principali erano il bianco, il nero e il verde.
Mentre
camminava si guardava attorno con diffidenza, cercando di cogliere il
maggior numero di dettagli possibile, ma tutte le porte erano chiuse
e perciò non poté osservare niente di particolare.
«Ecco»
Claire
la ridestò dalla sua attenta osservazione del luogo per
introdurla
in una cucina dall'aria più moderna del resto della casa,
con
un'isola circondata da alti sgabelli come unico tavolo disponibile.
«Cosa
vuoi mangiare? Dolce, salato?» le chiese Claire.
Ophelia,
gli occhi fissi sull'orologio appeso alla parete, le rispose
distratta.
«Dolce»
Erano
quasi le dieci e un quarto.
Non
sapeva a che ora fosse arrivata lì la sera prima,
né a che ora si
fosse effettivamente addormentata, ipotizzava avesse dormito almeno
per dodici ore. Nonostante ciò, si sentiva ugualmente
stravolta.
«Puoi
toglierti il cappotto se vuoi»
Claire
la richiamò per la terza volta all'ordine e Ophelia si
girò verso
di lei, osservandola mentre trafficava per la cucina.
«Oh...
Sì, certo» sussurrò.
Si
levò il cappotto grigio con lentezza, poggiandolo su uno
degli
sgabelli e cercando di dare una sistemata agli abiti stropicciati: il
maglioncino blu che indossava era tutto tirato da un lato, i jeans
aderenti invece mantenevano la loro forma. Notò solo in quel
momento
di essere scalza, non ci aveva fatto caso.
«Puoi
sederti»
Anche
a quella frase, Ophelia agì come un'autonoma.
Ci
furono interi minuti di silenzio, fino a quando Claire
poggiò sul
tavolo un calice di vetro colmo di spremuta, una fetta di torta con
cioccolato e panna e una ciotola di macedonia fresca.
A
rompere la quiete fu il boato che fece il suo stomaco di fronte al
cibo: era da quanto?, venti ore che non toccava cibo? L'ultimo pasto
era stato il pranzo del giorno prima, che per di più si era
limitato
a un panino e un'insalata veloce.
Senza
pensarci troppo si buttò sul cibo quasi affogandosi dalla
voracità
con cui mangiava.
Sentì
la mora ridacchiare e arrossendo cercò di mangiare con
più calma.
«Oh,
non preoccuparti per me, mangia come ti pare» fece con un
sorriso
Claire.
Ophelia
annuì soltanto, continuando a mangiare in silenzio. Nel
frattempo
l'altra ragazza beveva del caffè appoggiata al tavolo,
rimanendo in
piedi.
«Hai
una sigaretta?» disse Ophelia improvvisamente, appena
terminò di
inghiottire anche l'ultimo boccone. Claire la guardò
sorpresa, poi
annuì.
«Prego»
fece, porgendole il pacchetto tirato fuori da una pochette che
Ophelia notò solo in quel momento.
Appena
la accese e aspirò il fumo, tossì.
Da
quanto non fumava? Tre, quattro anni? Ne aveva tredici quando aveva
provato la prima sigaretta, più tanta voglia di diventare
adulta e
bisogno di ribellarsi alle rigide regole dell'orfanotrofio. Le aveva
rubate, si ricordò, perché di certo non gliele
avrebbero mai
vendute. E poi, insieme ad alcuni compagni un po' più grandi
di lei,
aveva provato ad aspirare finendo per tossire come una dannata.
Se
lo ricordava meno acre e più buono, ma sortì
l'effetto sperato: ad
ogni boccata di fumo che rilasciava sentiva l'agitazione dentro di
lei scomparire.
Contemporaneamente,
Claire se l'accese insieme a lei.
«Dove
sono?» chiese all'improvviso Ophelia. La mora la
guardò, non
stupita dalla domanda improvvisa.
«A
casa mia e dei miei fratelli, a Manhattan. Ci abitiamo solo noi tre e
ora siamo da sole, Domi e Max non credo che torneranno per ancora un
bel po'»
Manhattan?
Come avevano fatto a passare da Brooklyn a Manhattan in un minuto, la
sera prima?
«Come
ci siamo arrivate ieri?»
Claire
fece una smorfia.
«Non
mi crederesti se te lo dicessi ora. Devo parlarti di altre cose
prima» rispose.
Ophelia
prese un'altra boccata di fumo che le schiarì la mente.
«Chi
sei tu?» chiese poi, ignorando quanto la domanda potesse
risultare
in qualche modo ridicola.
«Mi
chiamo Claire Desdemona Sangster, sono molto più vecchia di
quello
che posso sembrare e non sono quello che tu pensi»
In
pratica, oltre al nome non sapeva nulla. Ophelia inarcò un
sopracciglio.
«Non
esagerare con le informazioni» fece sarcastica. L'altra le
fece un
sorriso di scuse.
«Dirti
chi sono non farebbe altro che convincerti di essere finita in una
casa di pazzi»
Beh,
diciamo che già in parte lo credeva.
«Allora
perché non mi spieghi direttamente che cavolo succede e la
facciamo
finita?» continuò diretta Ophelia, sorprendendosi
in qualche modo
della propria fermezza nel porre quelle domande.
Claire
sospirò, spegnendo la cicca in un posacenere preso dal banco
della
cucina e massaggiandosi le tempie.
«Ecco...
Non so bene da dove partire a dire il vero. Non mi è mai
capitata
una situazione del genere e non so neanche cosa Sargas voglia che ti
dica» iniziò a tergiversare.
«Parti
dall'inizio. E poi ricordo che questo Sargas ti avesse detto di dirmi
il necessario» la mise all'angolo, ricordando con improvvisa
chiarezza le parole che il tizio moro aveva detto a Claire prima di
fuggire via.
Claire
fece l'ennesima smorfia.
«Tu
credi al sovrannaturale?»
Fino
a ieri mattina no,
si rispose la
bionda.
«Cosa
intendi?»
«Ecco...»
borbottò Claire «A creature più che
umane, che hanno poteri che
oltrepassano la vostra
“normalità”»
specificò, rimanendo
comunque vaga.
«In
un altro momento ti avrei riso in faccia. Ma dopo ieri sera, mi viene
da risponderti di sì e di ridere di me stessa»
rispose amara.
«So
che può sembrarti assurdo, ma ipotizziamo che queste
creature,
diciamo, non umane,
esistano davvero. Come la prenderesti?»
«Come
la dovrei prendere?» chiese a sua volta Ophelia.
Claire
sbuffò, passandosi una mano tra i capelli con un gesto
nervoso.
«Non
lo so» mugolò con aria sconsolata.
Ophelia
continuò a fissarla in silenzio, con una strana
curiosità che
l'attanagliava.
«Via
il dente via il dolore» esclamò all'improvviso
Claire, rianimandosi
all'improvviso e puntando lo sguardo verso l'altra ragazza che la
guardava in attesa. Un attimo dopo, gli occhi rilucevano bianchi.
«Vedi
i miei occhi? Ecco, questo è ciò che mi rende
“non solo umana”.
Come me, anche i miei fratelli, Sargas e molti altri possiedono
questo tipo di occhi, ed è ciò che ci rende
diversi. Diciamo che
abbiamo dei poteri “magici”. Questi poteri e la
nostra esistenza
è sconosciuta a tutte le persone normali, e così
deve rimanere in
quanto sarebbe un gran bel trambusto se si scoprisse la
verità» disse talmente rapida che quasi si
mangiava le parole.
«Tu,
a quanto pare, sei come noi. Sarò sincera: né io,
né Domi e Max e
nemmeno Sargas abbiamo idea su chi tu sia. Da quel che so ci
è stato
ordinato di recuperarti dal padre di Sargas, Lisander, ma nessuno sa
perché lui ti voglia. Non sappiamo neanche perché
il tuo ragazzo in
verità fosse un Deviato mutaforma, perché un
altro Deviato ti
stesse per rapire ieri pomeriggio e se non fosse che stavamo venendo
a recuperarti tu ora saresti chissà dove per
volontà di non so chi»
concluse frettolosa, con un fiume di parole che invasero la testa di
Ophelia lasciandola impassibile.
La
sua espressione non tradiva nulla a differenza della sera prima, in
cui aveva crisi isteriche ogni due minuti.
Proprio
per questo Claire la osservò dubbiosa.
«Ehi...
Tutto bene?» borbottò, avvicinandosi e puntando
gli occhi bianchi
verso la ragazza.
«Credi
che io sia pazza?» aggiunse poi, notando di non sortire alcun
effetto nella bionda. Quest'ultima la osservò come se si
fosse
appena svegliata da una trance.
«No.
Credo di essere diventata io pazza»
Già,
perché, nonostante l'assurdità di quella
situazione totalmente
ridicola, Ophelia le credeva.
In
maniera illogica e senza senso, era comunque convinta che Claire le
stesse dicendo la verità. E non solo in seguito agli occhi
bianchi o
al suo ragazzo in versione mostro spaventoso – o forse era
più
corretto Deviato mutaforma?
- semplicemente la sua parte più insensata e non coerente
con la
realtà le diceva che sì,
Claire aveva ragione.
Stava
per porre un'altra domanda finché un conato di vomito non la
costrinse a richiudere la bocca e portarsi la mano a coprirla.
Claire
le si avvicinò allarmata.
«Che
succede? Stai male?»
Ophelia
impallidì, sentendo altre fitte alla testa e il corpo scosso
da
brividi come se avesse la febbre a quaranta; iniziò a sudare
freddo.
«Credo
di dover vomitare» riuscì a malapena a sussurrare.
Claire
non le fece dire altro, la prese per mano e la trascinò per
il
corridoio, facendola entrare di volata in una stanza che si
rivelò
essere il bagno. Appena in tempo, oltretutto, in quanto Ophelia
vomitò subito l'intera colazione sul lavandino.
L'intero
corpo era scosso da brividi, si sentiva febbricitante e le facevano
male gli occhi; a porle un poco di sollievo furono le mani tiepide e
umide di Claire che le si posarono nel collo. Proprio come la sera
prima, anche in quel momento le mani della mora le infusero
benessere.
Passarono
alcuni minuti in cui i brividi cessarono, le fitte alla testa e al
corpo pure e Ophelia si diede una sciacquata alla faccia e al collo.
Sollevò
poi lo sguardo sopra il grande specchio appeso sopra il lavandino e
rabbrividì nel vedere il proprio riflesso: il viso
malaticcio, gli
occhi verdi cerchiati dal trucco nero ormai sbavato e i capelli
totalmente spettinati. Si vide anche più magra del solito.
Affianco
al suo riflesso, quello splendente di Claire la fissava preoccupata.
«Stai
meglio?»
Ophelia
fece una smorfia.
«Non
ne sono sicura» sussurrò, con in bocca un
disgustoso sapore che le
fece desiderare ardentemente uno spazzolino.
«Avanti,
siediti»
Fu
trascinata sulla tavoletta del water e costretta a sedersi, mentre
Claire si inginocchiava di fronte a lei in uno strano
deja-vù della
sera prima. Gli occhi bianchi la trafiggevano e la squadravano alla
ricerca di qualcosa.
«Non
capisco cosa tu abbia» fece dopo alcuni istanti.
«Neanche
io» rispose ironica.
«Solitamente
riesco a cogliere il malessere fisico o psicologico nelle altre
persone, ma non sto davvero riuscendo a capire cosa tu abbia»
insistette.
Ophelia
sentì un'altra fitta alla testa.
«Non
sarà nulla di che, probabilmente mi sono beccata un virus,
è da
ieri che sto male»
Claire
continuò ad osservarla, ma non disse niente. Dietro quelle
iridi
candide, Ophelia poté però scorgere un vago
sospetto che la fece
preoccupare, ma non ci poté pensare troppo in quanto un
altro conato
la costrinse a correre verso il lavandino.
Peggio
di così non può proprio andare.
Appena
mise piede al quartier generale della Fazione Bianca, Sargas
desiderò
fortemente la presenza del padre. Per poterlo sostituire, non per
altro, era chiaro.
Fece
un grande sospiro per poi inoltrarsi nella grande sala dalla forma
ellittica, all'interno della quale un uomo e una donna si stavano per
azzannare l'un l'altro.
«Vorrei
potervi dire buongiorno ma vedervi non lo rende tale» disse
il moro,
attirandosi subito gli sguardi altrui, che tacquero.
«Toh,
il ragazzino» bofonchiò infastidito l'uomo; gli
occhi bianchi
facevano contrasto con la carnagione ambrata e i dreads colorati che
aveva in testa. Come tutti coloro appartenenti alla loro
“razza”,
era bello in maniera quasi inquietante.
«Se
non mi volete qui allora andate a recuperare Lisander»
rispose a
tono Sargas, per nulla scalfito.
«Grazie
ma preferisco vedere te piuttosto che quel bastardo»
intervenne la
donna, avvicinandosi a un tavolino in cui bicchieri e alcolici quasi
traboccavano. Si versò del whisky e lo tracannò
rapida.
«Almeno
tu non pensi solo a scopare, in effetti» aggiunse l'uomo,
andandosi
a sedersi attorno al tavolo che troneggiava al centro della stanza e,
con un vago gesto della mano, facendo sì che un bicchiere e
una
bottiglia planassero nella sua direzione. Subito dopo si accese un
sigaro e iniziò ad appestare la stanza.
Sargas
lo raggiunse e si sedette su una delle altre due sedie disponibili,
accendendosi una sigaretta.
«Ho
ricevuto il tuo biglietto, Penelope, ma non ci ho capito un cazzo.
Che sta succedendo?»
La
donna rise, passandogli dietro per sedersi e scompigliandogli i
capelli con la mano coperta di anelli d'oro.
«Non
c'è molto da capire, tesoro mio. Dei Deviati pare si stiano
dando da
fare per rapire e uccidere alcuni dei nostri»
spiegò,
giocherellando con il bicchiere che si era riempita di nuovo.
Sargas
la fissò, facendo scivolare lo sguardo diventato bianco
sulla figura
sinuosa della donna, vestita con un sensuale abito color malva e i
capelli rossicci acconciati in un chignon vaporoso decorato da
piccoli cristalli. Sotto l'occhio sinistro un piccolo neo spiccava
nell'incarnato pallido.
«Non
guardarmi così, principino, potrei emozionarmi
troppo» fece con
tono soave la donna.
«Cazzo,
sei disgustosa!» berciò l'uomo.
«Ti
brucia ancora il rifiuto eh, Amadeus?» lo
punzecchiò beffarda la
donna.
L'altro
stava per rispondere, ma Sargas terminò il litigio prima che
esso
potesse iniziare.
«Lasciate
le vostre beghe da innamorati a un'altra volta, grazie. Possiamo
parlare seriamente ora?»
I
due si lanciarono un ultimo sguardo di fuoco, poi concentrarono
l'attenzione e i loro occhi bianchi sul giovane.
«Stanno
avvenendo rapimenti anche dai Neri?» chiese.
«Che
ne so, io non ci parlo più con quei bastardi, men che meno
coi
francesi» borbottò Amadeus.
Penelope
fece un vago gesto con la mano.
«È
da un bel po' che non sento nessuno di loro, non ne ho la minima
idea» rispose la donna.
«E
tu? Non hai sentito proprio nulla?»
«Credi
che mio padre abbia la voglia di informarmi di quisquilie del
genere?» iniziò sarcastico «Se anche
avesse sentito qualcosa tra
le nostre file o le loro, non si sarebbe preso la briga di venirmelo
a dire»
Amadeus
borbottò un “bastardo” a mezze labbra ma
ben udibile. Sargas,
del canto suo, non fu minimamente offeso: lui stesso considerava il
padre un bastardo, perché si sarebbe dovuto arrabbiare?
«Avete
intenzione di fare qualcosa?» domandò in direzione
dei due.
«A
dire la verità non sappiamo bene come agire. I Deviati non
sono mai
stati così aggressivi, inoltre non capita spesso di trovarne
tanto
potenti da ucciderci, invece adesso sembrano spuntare dal nulla. Non
voglio mandare alcuni dei miei senza avere prima delle informazioni
sicure, sarebbe come condannarli a morte» rispose Penelope.
«Sì,
ma come avete intenzione di trovare informazioni?»
«Abbiamo.
Cosa credi, di essere escluso? Potremmo mandare i due gemelli, tanto
non sarebbe un grande spreco» sogghignò Amadeus.
Non
fece in tempo a dire altro perché subito dopo si
immobilizzò,
improvvisamente impossibilitato dal respirare; diventò tutto
rosso
mentre scattava in piedi e si portava le mani alla gola.
«Tesoro,
raffredda i bollenti spiriti» soffiò Penelope,
imperturbata.
Ma
prima che Sargas stesso allentasse la presa, Amadeus riuscì
a
riprendere a respirare.
L'uomo
scoppiò a ridere.
«Quanto
te la prendi per i tuoi amichetti, ragazzino»
Sargas
non disse nulla, infastidito dal fatto che l'altro fosse riuscito a
liberarsi da solo. Ma effettivamente Amadeus aveva molti più
anni di
lui, e molta più esperienza; non si aspettava davvero di
riuscire a
ferirlo.
Del
resto l'uomo non se l'era seriamente presa: certo, il ragazzo aveva
tentato di ucciderlo, ma entrambi sapevano che non l'avrebbe fatto
sul serio. O, sarebbe più corretto, che ce l'avrebbe davvero
fatta.
«Credo
che la prima cosa da fare sia chiedere ai Neri se anche da loro
è
morto qualcuno. Se non è così, potremmo
già restringere il campo
su chi vorrebbe ferirci» continuò Penelope,
deviando l'attenzione
di nuovo sul nucleo del loro incontro.
«Hai
ragione» disse Sargas. I due guardarono poi Amadeus, in
attesa di un
suo responso. L'uomo annuì di malavoglia.
«Non
sarò di certo io però a contattare quei maledetti
francesi,
altrimenti è la volta buona che faccio una strage»
disse, di nuovo
incazzoso. Sargas scrollò le spalle.
«Mi
occupo io di chiedere a loro» disse.
«Io
chiederò a Milos, tu occupati di Agatha» fece
Penelope in direzione
dell'altro.
Amadeus
fece una smorfia.
«Preferisci
i francesi?» chiese Sargas ironico.
«Mi
tengo lei, grazie» rispose acido.
Penelope
sospirò.
«Bene,
appena sappiamo tutti qualcosa ci incontreremo di nuovo. Non serve
che vi dica di mettervi subito all'opera, vero?» disse con
tono
indifferente, lanciando solo uno sguardo gelido ai due uomini.
Gli
altri le restituirono lo sguardo distaccato.
«Ci
si vede» disse solo Amadeus, senza rispondere. Un attimo
dopo, era
sparito.
La
donna riprese a sorridere.
«Fai
da bravo, tesoro» gli disse, per poi lanciargli un bacio
volante e
sparire anche lei in un secondo.
Sargas
sospirò e pensò al padre.
Quando
torna lo uccido.