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Autore: Amphitrite    26/05/2016    4 recensioni
“Ho portato un curriculum allo Smithsonian.”
“Cercano donne delle pulizie?”
[...]
“No, stronzo. Guide per la nuova ala.”

Fanfiction post The Winter Soldier, ispirata alla scena dopo i titoli di coda :D
Genere: Azione, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nuovo personaggio, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: AU, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8.
 
La consapevolezza arriva mentre fa colazione, una settimana dopo quella notte e ormai a tre giorni dal farsi levare il gesso. Lo smalto è ancora fresco, e tamburella con le dita più per godersi la ritrovata mobilità che non per aiutare le unghie ad asciugarsi prima.
(Si sente un po’ ridicola a girare con una sola mano smaltata, ma ha già provato a chiedere aiuto a Claude e il bastardo l’ha colorata virtualmente ovunque tranne che sulle unghie della mano sana.)
“Claude.” Lo richiama quindi con tono spettrale, lo sguardo perso nel vuoto e il biscotto che stava pucciando nel caffellatte ancora alzato a mezz’aria.
Claude non alza nemmeno lo sguardo dal giornale, volta pagina e mormora “No.”
(Perché è un bastardo, ovviamente.)
Claude.” Ripete Charlotte, l’aria più spiritata.
Finalmente alza lo sguardo su di lei. “Charles.” Risponde. “Piantala con quello smalto e mangia.”
Charlotte gli lancia contro il biscotto unicamente perché non sa nemmeno da dove iniziare a dare voce a quell’idea che le è comparsa in testa, e tutto a un tratto si rende conto di quanto potrebbe suonare scema se detta ad alta voce.
“Demente,” la riprende il suo coinquilino osservando il biscotto spiaccicato mestamente al suolo. “Cosa volevi dirmi?”
Charles all’improvviso decide di non voler dire quello a cui stava pensando. Come con i poliziotti, sotto sotto sa perfettamente cosa dovrebbe fare – parlare con loro, tenere la bocca chiusa con Claude – eppure, immancabilmente, fa il contrario.
“Dovrei fare una cosa, ma mi serve una mano.” Claude la osserva con un sopracciglio inarcato e si rimangia qualsiasi battuta a riguardo. Charles ne è lieta, quella storia inizia a stancarla. “Al vicolo ci sono solo Marge e Bob?”
Non ci vuole un genio, per capire cosa sta cercando di scoprire Charlotte. Claude la guarda e, prima di risponderle, prima di qualsiasi cosa, alza una mano per imporle il silenzio. “Charles,” inizia quindi con tono serio, “in una scala da uno a ‘invadere la Russia in inverno’, quanto credi sia pessima la tua idea?”
Lottie distoglie lo sguardo e, con aria nervosa, si mordicchia l’unghia del pollice. “Cacciare Hitler dall’Accademia di Belle Arti.” Mormora alla fine.
“Appunto.” Commenta con tono asciutto il ragazzo, alzandosi.
Lottie lo insegue e gli trotterella dietro come un’ombra chiassosa e invadente. “Non voglio fare niente di male, devo solo rivederlo.” Spiega con tono concitato.
Claude si volta di scatto e le troneggia sopra, forte dei venti centimetri abbondanti che li separano in altezza. “Ti ha rotto una mano.” Sibila, velenoso. “Cos’è, ti sei affezionata al gesso e vuoi portarlo un altro mese?”
Lottie apre bocca per rispondere e invece prende fiato.
Lo sguardo indugia sulla parete di camera sua dove, anche da quell’angolazione, si può distinguere nitidamente la foto di James Barnes appesa.
(Zitta Lottie questa volta zitta non dire niente ti prenderà per pazza)
“Credo di conoscerlo.”
 
***
 
Claude la prende per pazza, ma non rifiuta in blocco di darle una mano.
La esorta un paio di volte a controllare gli ingredienti degli antidolorifici che trangugia come se fossero caramelle per escludere a priori stati di allucinazione, questo è vero; ma quando il giorno dopo va a portare il pranzo a Marge e Bob si ricorda della conversazione avuta con Lottie.
“Marge,” la richiama quindi. La donna lo guarda coprendosi di nuovo gli occhi con una mano a causa del troppo sole e annuisce, segno che ha sentito. “Quel tizio che stava qua. Quello che sembrava un reduce…”
“Oh, il mio amico!”
Se si sforzasse un pochino, Claude potrebbe sentire fisicamente Bob che rotea gli occhi. “Quello.” Conferma. “È ancora da queste parti?”
“No.” Risponde con vocetta acuta Margherita. “È un mese che non si vede, spero non sia morto. Bob, dici che è morto? Anche se in effetti nemmeno Carlottina si vede più, ma lei non credo sia morta, altrimenti me l’avresti detto. Spero. Vero che me l’avresti detto?” Si informa senza nemmeno una pausa per respirare. Claude la osserva vagamente spiazzato da quel fiume in piena di informazioni e annuisce con un cenno lento del capo. “Ma perché lo cerchi?” Chiede infine, il tono vispo e l’aria incuriosita.
Il ragazzo si stringe nelle spalle, l’aria vagamente a disagio. “Lo cerca Charlotte.” Mormora.
Roberto si fa più vicino a Marge e le sussurra qualcosa all’orecchio, facendola ridere come una ragazzina alla prima cotta. Claude si trova a invidiare quella complicità, l’amore tanto evidente da trasparire dalle più piccole cose. “Dille di cercarlo dalle parti del museo.” Gli suggerisce l’uomo a mezza bocca. “Forse è là.”
Claude annuisce e se ne va dopo una manciata di minuti.
 
***
 
Quando il citofono squilla, Charlotte gattona fuori da cartelle e fogli volanti tra cui si è fatta il nido e arranca fino alla porta. Nemmeno si disturba a chiedere chi sia, fin troppo abituata a quel mentecatto di Claude che non solo lascia appositamente le chiavi a casa, ma più l’ora è infelice e più si accanisce a suonare melodie articolate.
(Charlotte ride e scherza, ma ancora ricorda quel nefasto giorno in cui, alle quattro e quarantacinque della mattina, Claude si è annunciato cercando di intonare l’inno alla gioia.)
Il citofono suona di nuovo, e Charlotte sbuffa. “Ti ho aperto il portone, mentecatto.” Gracchia all’interfono, “quando arrivi di sopra bussa e ti vengo ad aprire.”
Dall’altro capo non riceve risposta, e dà per scontato che Claude abbia già preso l’ascensore.
Quando sente bussare sbuffa di nuovo, e va ad aprire la porta in una litania di insulti. “Sei un cretino, Claude. Ma che poi le chiavi le hai, si può sapere che divertimento trovi nel farti aprire? Arriverà il giorno in cui mi beccherai in bagno e allora rideremo tantissimo, guarda.”
Davanti a lei non c’è Claude.
Mollemente poggiata contro la ringhiera che dà sulle scale, gli occhiali da sole calati sul naso e i capelli un manto di boccoli rosso fuoco, Natasha Romanoff le sorride amichevolmente. “Charlotte Fry?” Chiede per conferma.
Lottie annuisce senza sapere cos’altro dire. La Vedova Nera la supera in silenzio, e con passo felpato ed elegante va a prendere posto sul divano. “Chiudi la porta. Io e te dobbiamo fare due chiacchiere.”
Charlotte esegue, e all’improvviso capisce di essere morta.
Si guardano per diversi istanti, e alla fine Nat piega la testa di lato osservandola con un sorriso cortese, invitandola a dire qualcosa. Qualsiasi cosa, davvero. Charles si umetta le labbra e prende fiato. “Posso… offrirle qualcosa?” Propone con vocetta isterica.
Natasha allunga le braccia verso di lei in un apri-chiudi lento delle mani, come potrebbe fare una vecchia zia e, una volta che Charlotte ha seguito l’implicito invito e le si è avvicinata abbastanza, la guida a sederlesi accanto.
“Vedi, Charlie… posso chiamarti Charlie, vero?” Le chiede, la voce vispa e squillante, come se non fosse a un passo dal crocifiggerla con i tacchi delle scarpe.
(Charlotte sa che sta per farlo, è scritto nell’ordine del cosmo.)
“Hai fatto una cosa abbastanza stupida.” Le spiega parlando con tono lieve.
“Sì,” balbetta Lottie, più piccola che mai, “ne faccio tante, ultimamente.”
(Tra cui aprire la porta senza chiedere chi sia. Tra cui decidere di andare alla ricerca di uno sconosciuto che le ha sbriciolato la mano. Tra cui accogliere Vedova Nera nel proprio salotto.)
“Cerca di far tornare in pari il bilancio e fai una cosa molto saggia, ora.” Scandisce le parole con lentezza, annuendo incoraggiante di quando in quando. È evidentemente consapevole di quanto la sua semplice presenza può terrorizzare, e se la sta godendo da impazzire.
“Cosa?”
“Adesso io e te ci prendiamo una bella tazza di tè, e tu mi racconti per filo e per segno di chi ti ha fatto quel regalino.” Conclude a bassa voce, come se stesse raccontandole un segreto, indicandole con l’indice il gesso ormai rovinato.
È allora, mentre con movimenti meccanici cerca nella dispensa un paio di tazze e i filtri del tè, che nella mente di Charlotte si fanno spazio due consapevolezze: la prima, è che il barbone è davvero qualcuno di importante. La seconda, è che deve aver fatto qualcosa di incredibilmente grave per avere alle calcagna la spia più letale del mondo.
Lottie sente un moto di apprensione ingiustificato e totalmente irrazionale, e si trova ad abbracciare il barattolo dello zucchero senza rendersene conto.
 
Pochi istanti dopo qualcun altro citofona.
 
Charlotte va a rispondere con gli stessi movimenti automatizzati di prima, come se si fosse innescato l’autopilota. Mormora qualche parola all’interfono e riaggancia, e si rivolge alla donna seduta che la osserva con aria incuriosita. “È il mio coinquilino.” Balbetta come unica spiegazione. Natasha accavalla una gamba sull’altra con un movimento sinuoso e allarga le braccia, ben spiaggiata sul divano, come se lo stesse già invitando a unirsi a loro.
Qualcosa però cambia nel suo sguardo quando nota il tremore alla mano di Charlotte.
(Evidentemente, non è ancora sazia di scelte idiote.)
“Non dirgli niente.” Scandisce con estrema lentezza, una minaccia inespressa in quel semplice ordine.
Charlotte annuisce e torna in cucina ad aspettare che il bollitore fischi.
 
Claude entra e i rumori le giungono ovattati, ma lo può sentire salutare Natasha con la voce già più stridula di un paio di ottave. Lo vede precipitarsi in cucina e guardarla con l’espressione di chi non ci sta chiaramente capendo un cazzo, salvo poi tornare in salotto e tornare di nuovo dalla sua coinquilina nell’arco di una manciata di secondi, indicando alle proprie spalle con aria parecchio perplessa. Il che fa il paio con la faccia sconvolta di Charlotte.
“Quella seduta sul nostro divano…” inizia il ragazzo con cautela.
“Sì.” Gracchia.
“È lei?” Charles annuisce. “Vedova Nera. Sul nostro divano.” Ricapitola Claude. Charlotte annuisce di nuovo. “Perché, se posso saperlo?”
La ragazza alza la mano ingessata. “Augurarmi una pronta guarigione.”
Nemmeno li avesse sentiti – e Charles sotto sotto non può escludere a priori questa possibilità – Natasha li interrompe prima che Claude possa far notare che razza di ignobile balla gli abbia appena raccontato la sua coinquilina. “Charlie?” Gorgheggia quindi con tono allegro e vispo, “credo che il bollitore stia fischiando.”
Charlotte guarda sul fornello, dove la pentola sta ormai gridando disperata da diversi minuti, e si affretta a versare l’acqua calda nelle tazze.
(Si ustiona un paio di volte, perché l’enfasi con cui prepara tutto è talmente tanta che solleva schizzi di acqua bollente che arrivano a colpirla fino sulla pelle tenera del collo, ma non si lascia sfuggire nemmeno un singhiozzo sorpreso. La paura, semplicemente, è troppa.)
Con il vassoio in mano, Lottie si volta verso Claude e decide di compiere l’ennesima – ultima – scemenza. “Chiuditi in camera.” Gli sussurra, lo sguardo un misto di paura e disperazione. “Chiudi a chiave camera mia e nascondi la chiave.”
 
“Allora.” Natasha schiocca la lingua sul palato e poggia il proprio tè sul tavolino, l’aria di una ragazza in vena di pettegolezzi. “Il gesso.”
Charlotte ha un senso di nausea che le impedisce perfino di respirare. A ben guardarla è anche un po’ verdina. “Da dove… inizio?” Balbetta.
La donna piega la testa di lato e sorride, intenerita.
(Quella scenetta da super spia terrificante la diverte senza dubbio, ma non ci tiene a mandare una sconosciuta dall’analista unicamente per aver calcato un po’ troppo la mano. Sorvolando sul fatto che Steve, dall’auricolare, le sta intimando di darsi una regolata da mezz’ora buona.)
“Inizia dall’inizio,” dice gravemente, “e vai avanti fino alla fine. A quel punto fermati.*” Quando Lottie riconosce la citazione sbuffa una risata che sa di pianto, e Natasha trova semplicemente naturale sistemarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio con fare materno. “Non voglio farti del male.” La rassicura, il tono più morbido. “Ma è molto importante che tu mi dica tutto quello che sai.”
Charlotte tira su col naso e un paio di gocciolone le scendono lungo le guance. “Sì. Scusi.” Balbetta con la voce crinata.
(Steve, come una sorta di fastidioso grillo parlante annidiato nei recessi più remoti della sua mente, sta già insinuando che Nat passi i finesettimana a uccidere cuccioli di foca così, a mo’ di passatempo.)
Natasha sospira impercettibilmente e le si fa più vicina. “Parti dalla mattina. Dimmi tutto quello che ti ricordi.”
Lottie si asciuga il viso col dorso della mano sana e, di nuovo, fa la risata più triste del mondo.
(Natasha non prende per hobby a calci i cuccioli nel parco come tanta gente la accusa di fare, ma all’improvviso la percepisce come un’azione meno spregevole di quanto ha appena fatto.)
“Ho visto Capitan America.” Racconta la ragazza. “Era venuto al museo, e Ashley- è una mia collega… insomma, mi hanno detto che era normale, e io- io non mi è sembrato vero.” Un sorriso imbarazzato, di chi si sta vergognando da morire di quanto sta raccontando – soprattutto a chi lo sta raccontando – “e poi sono andata a mangiare, e quando sono tornata ho visto questo… questo armadio a quattro ante, era enorme. Gli sono andata a sbattere addosso e lui-” Racconta confusamente, mischiando verità e bugie in un mix caotico, i singhiozzi che ricominciano appena lo sguardo le scivola sul gesso.
Nat realizza in quel momento che la normalità della vita di Charlotte è una realtà che non capirà mai.
(Mai più, per la precisione.)
Charlotte è, molto banalmente, una civile.
Ma quando per anni sei stato abituato a considerare l’esistenza di civili solo quando in pericolo, alla stregua di ostacoli da rimuovere per poter tornare a combattere liberamente o di fastidiose seccature verso cui far convergere forze che sarebbero meglio impiegate in attacco che non in difesa, la loro tridimensionalità di persone vere diventa un concetto vagamente labile.
Natasha la osserva come se la vedesse per la prima volta, e davanti a sé vede solo una ragazzina spaventata con i capelli color carota che considera l’apice della propria giornata l’aver incontrato un notevole pezzo di carne scongelato che lei – lei che vuole credere di non aver mai saputo cosa fosse normale, prima di essere catapultata in un mondo infinitamente più pericoloso e terrificante – vede ogni giorno.
“Ok. Avete sbattuto.” Ricapitola a bassa voce, il tono improvvisamente gentile, quasi affettuoso. “E lui ti ha rotto la mano.” Lo dice al posto suo, perché è evidente che gli scoppi di lacrime costanti che sta avendo Charlotte sono dovuti all’incapacità di dirlo ad alta voce.
(A lei, che si è beccata più pallottole di quante non ne voglia ricordare e che ha dovuto andare avanti a testa bassa anche quando ogni terminazione nervosa le mandava scariche di dolore tanto intense da farle desiderare solo di accasciarsi e morire. Ma lei è un’assassina. Charlotte, d’altronde, è solo una civile.)
Lottie annuisce e tira su col naso con aria patetica, gli occhi gonfi che guardano ovunque tranne che verso Natasha. “Poi?” Le suggerisce la donna.
“Poi…” un sospiro tremulo, e la mano sana ad asciugarsi il viso congestionato. “Sono svenuta. Mi sono svegliata in ospedale.”
Nat annuisce piano e le pettina di nuovo una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Deve averla presa alla stregua di un cucciolo abbandonato sotto la pioggia, e di questo Charles non può che esserne grata. “L’avevi mai visto?”
Lottie prende fiato e
(Stupida Lottie dio quanto sei stupida)
Scuote la testa in cenno negativo.
“Non lo conoscevi?”
Si massaggia la fronte, il mal di testa atroce che le sta già martellando il cervello, e di nuovo fa cenno di no. “Mai visto.”
 
***
 
Charlotte se lo trova davanti due giorni dopo, dalle parti dello Smithsonian.
(Come ha suggerito Claude.)
Le luci del museo si vanno spegnendo poco a poco e anche nella semioscurità del tramonto è chiaro che tutto, nella figura incappucciata di quell’uomo, è solitudine e disperazione.
(E paura, tanta paura che non si misura nemmeno)
Si guardano per pochi istanti, lo sguardo del barbone saetta dai capelli – così incredibilmente rossi – agli occhi castani e infine al gesso alla mano della ragazza, e sente l’ansia mordergli la gola al pensiero, al ricordo.
(Perché questo te lo ricordi, vero, Soldato?)
“Aspetta!” Charlotte gli corre incontro, passetti piccoli e nervosi e i ricci che sobbalzano da tutte le parti, e quando lo raggiunge il barbone la guarda senza capire. Lottie si umetta le labbra e sforza un sorriso incerto e tanto, tanto nervoso. “Io ti conosco.” E sente la paura scorrerle lungo la spina dorsale come una scossa elettrica nel ripetere quel copione che, a malapena un mese fa, l’ha portata dov’è adesso. L’uomo aggrotta la fronte, è evidente che si stia chiedendo cosa le si sia inceppato in testa per rimettersi nella stessa identica situazione, e di nuovo resta in silenzio. Ha l’impressione che non riuscirebbe ad articolare alcunché nemmeno se volesse. “Non… non parlo del vicolo. Non solo.” Prosegue Lottie. “Io credo di conoscerti, credo che tu sia… aspetta,” borbotta, armeggiando con la borsa. Una volta trovato quello che le interessa si illumina tutta e gli mette davanti una foto. “Tu sei lui, vero?”
Il Soldato la osserva e una scarica tanto dolorosa da lasciarlo piegato in due gli attraversa il cervello.
(“Sei stato assegnato?”
“Centosettesimo. Sergente James Barnes, salpo per l’Inghilterra domani all’alba.”)
Rialza la testa, lo sguardo smarrito più che mai, e Lottie sa di aver fatto centro.
“Sei lui.” Ripete in un soffio. “Oh Dio, sei lui per davvero.”
Il barbone la guarda e arretra, e in un battito di ciglia il Soldato riprende il controllo. Scuote nervosamente la testa e si gira per andarsene, ed è allora che le risponde, la voce che risuona come un meccanismo arrugginito, a un passo dal rompersi definitivamente. “No.”
(E la pronuncia, la pronuncia è distorta da una cadenza russa che non dovrebbe esserci e Lottie non sa nemmeno perché ma la trova una cosa terrificante.)
Charlotte non dovrebbe, eppure lo insegue. Per la precisione, gli gira attorno e cerca di sbarrargli la strada col proprio corpo, mostrandogli di nuovo quell’immagine. “Sei lui, vero?”
Il Soldato ringhia e le incombe addosso cercando di risultare più minaccioso che mai. Lottie sente il panico morderle la gola, un brivido lungo la schiena. “No.” Prova a superarla, cerca di scartare di lato e di muovere qualche passo nervoso lontano da lei, lontano dai propri pensieri. Charlotte, esattamente come gli spettri che popolano i suoi sogni, non accenna a mollarlo.
“Sei James Buchanan Barnes.” Bucky geme, sofferente, e il Soldato tira un pugno contro un muro in un tentativo di riprendere il controllo, di distogliere l’attenzione di quella odiosa ragazzina, di spaventarla. I mattoni che ha colpito
(Ma dovresti fare altro, Soldato, se te la vuoi togliere di mezzo per davvero.)
Si sbriciolano.
Charles singhiozza, terrorizzata, ma non demorde. “James.” Lo richiama in un sussurro incerto. L’uomo si ferma con la mano ancora sollevata e china il capo, sconfitto. Charlotte lo raggiunge e gli mette di nuovo davanti quell’illustrazione in cui è inciampata, e il contrasto è tanto forte da sembrare assurdo: tanto più è viva la foto, tanto è spento lo sguardo della persona in piedi davanti a lei. E in quel momento, finalmente, capisce. “Tu eri lui.”
Il barbone esala un sospiro che sembra un rantolo e alla fine, pugni stretti lungo i fianchi e occhi fissi – quasi vitrei – su quella foto, annuisce.
(E ora chi sei, Soldato?
Ora cosa sei, Soldato?)
Tutto intorno a loro si fa un silenzio glaciale, e Lottie non sa bene come relazionarsi a una persona che – visibilmente – non ha idea di quale sia non già il proprio posto nel mondo (e chi ne ha la certezza, di questi tempi?) ma perfino qualcosa di così basilare come il proprio nome.
“Te lo ricordi?” Chiede cautamente. L’uomo fa una smorfia indecifrabile, gli occhi ancora su quella foto, e si stringe nelle spalle. Quello che ha in testa è qualcosa di troppo confuso per poter essere paragonato a dei ricordi, c’è solo caos. Charlotte lo guarda, in apprensione, lo sguardo incerto che solo di quando in quando si poggia sul gesso ormai ingrigito ma che in generale non si stacca un istante da James Barnes.
(Quel James Barnes che avrebbe dovuto essere morto e che invece è in piedi davanti a lei senza alcuna idea di cosa fare della propria vita.)
Tossisce un paio di volte per richiamare la sua attenzione, riprende la foto e si piega sulle ginocchia fino a incrociare i suoi occhi con i propri. E non sa cosa le stia dicendo la testa, ma. “Sono una maleducata.” Mormora come se questo dovesse spiegare tutto, “non mi sono nemmeno presentata. Io sono Charlotte.” Dice con tono allegro, e tuttavia sempre ben attenta a scandire lentamente ogni parola.
Il Soldato la guarda come se la vedesse per la prima volta, piega la testa di lato e serra la mascella, apre e chiude i pugni e dopo quella che sembra un’eternità alza la mano – quella vera, non il mostro di metallo che si è trovato addosso da un giorno all’altro – e la allunga verso di lei.
(Questo ti ricordi ancora come si fa, Soldato?)
Charlotte azzarda una risatina isterica e rimane ferma a fissarlo.
“Non…” la voce esce roca e graffiata, e deve tossire due o tre volte per riuscire a riprendere il controllo delle proprie corde vocali. Dio, gli sembra di non parlare da anni. “Non ti farò male.”
Davanti a lui, la ragazza deglutisce rumorosamente e alla fine
(Stupida Lottie sei una stupida incosciente)
Lo imita a specchio. “Charlotte.” Ripete a bassa voce, timorosa senza rendersene conto di un gesto così banale e che eppure le sembra così solenne.
È in quel momento, con la semplicità di una stretta di mano, che l’uomo smette di essere solo il Soldato d’Inverno e ricomincia timidamente a essere James.
 
***
 
Le tolgono il gesso un martedì mattina qualsiasi.
Claude le tiene la mano sana e si assicura che Charlotte non guardi nemmeno per errore mentre il medico le sfila i punti dalla ferita ormai rimarginata, sospirando di sollievo nel vedere il risultato finale.
“È bella.” La rassicura in un sussurro all’orecchio.
Charlotte sbuffa un paio di lacrime e passa il resto del tempo a farsi muovere la mano dalle infermiere, per controllare che sia tutto a posto.
Quando rientra in possesso della propria mano e si sfiora la cicatrice – lunga, sottile, che le corre dal polso lungo il lato fino all’attaccatura del mignolo – sente la testa girare.
“Quando posso iniziare la fisioterapia?” Si informa con tono distante, in un tentativo di concentrarsi sui lati positivi.
Il medico – un gentile signore sulla sessantina d’anni con due baffi a manubrio che vibrano ogni volta che ride – le sorride cortesemente. “Dalla prossima settimana. Intanto può iniziare a fare qualche esercizio con questa.”
La pallina antistress che le porge è celeste, e Lottie si sente presa per il culo dall’universo come non mai.
 
***
 
Sono le cinque di pomeriggio quando Charles inciampa nell’ennesimo fascicolo polveroso risalente alla seconda guerra mondiale, lo apre, e si imbatte nello stato di servizio del sergente Barnes.
 
Claude si affaccia pochi minuti dopo in salotto, sentendo sbuffi e imprecazioni dovuti ai mille problemi della sua coinquilina nel vestirsi da sola con una mano ancora ammaccata, e la trova che saltella per infilarsi le scarpe senza l’aiuto delle mani.
“Dove, nel nome di Dio, stai andando?” Le chiede con tono tutt’altro che preoccupato, piuttosto esasperato.
Charlotte – che nel mentre ha vinto la lotta sulle calzature – lo guarda con un sorriso incerto a tenderle le labbra, un piede già oltre la soglia. “A invadere la Russia in inverno.”
 
***
 
“La civile è in movimento.”
Manda Echo in avanscoperta. Non fatevi vedere.
“Roger.”
 
***
 
“Credo di poterti aiutare.”
Bucky la osserva con sguardo indecifrabile e Charlotte sente una morsa allo stomaco. Pena e apprensione e per favore non scappare via.
“Come?”
La ragazza gli rivolge un sorrisino piccolo e accennato, e il Soldato sente un moto di rabbia partirgli dal fondo della gola – perché sì, perché si sente in trappola e non capisce nemmeno lui perché.
“A casa… ho dei documenti. Alcuni sono su di te. Forse potrebbero aiutarti a ricostruire qualcosa.”
L’uomo rimane a fissarla in silenzio per diversi istanti – di nuovo, come sempre fa –, si guarda attorno e osserva la strada, sudicia e inospitale. Le ombre attorno a loro si stanno allungando sempre più e a breve spariranno, inghiottite dalla notte. Bucky guarda il cielo e perfino le prime stelle che riesce a trovare, al di là della cappa di inquinamento luminoso, gli sembrano all’improvviso minacciose.
“Ok.”
Si alza dopo diversi tentativi, dopo che Charlotte ha sbuffato una risata zoppa e incerta e gli ha porto la mano. Dopo che ha puntato i piedi contro i suoi e ha fatto perno per alzarsi, e perfino quel contatto così semplice gli è sembrato quasi familiare. Dopo che, in piedi a una manciata di centimetri da lei, l’ha di nuovo fissata negli occhi. Ma questa volta oltre l’incertezza e lo smarrimento a Lottie sembra di vedere una scintilla di qualcosa di diverso, di infintamente più vivo, come un sorriso.
“Ok.” Gli fa eco la ragazza, indietreggiando frettolosamente. “Tu vieni con me.” Ricapitola parlando veloce, quasi a macchinetta. Arretra ancora, e James la osserva con la testa piegata di lato senza capire bene cosa stia accadendo. Charles arrossisce appena e tossicchia per scacciare il nervoso. Ormai la cazzata l’ha fatta, o lo tratta come tratterebbe un qualsiasi altro essere umano o farebbe tanto meglio ad andarsene. “E appena arriviamo ti fai una doccia, perché puzzi peggio di un cadavere.”
Bucky resta in silenzio per qualche istante e poi, con uno sbuffo simile a quello di una macchina che viene rimessa in moto dopo anni, inizia a ridere.
È un suono basso e contenuto, e Charlotte sente una vampata di qualcosa scaldarle le guance a quel semplice suono.
(In un angolo remoto del suo cervello, il Soldato ringhia e scalpita, ma non si sente in trappola. Non è l’ansia di una gabbia che si sta chiudendo sempre più stretta su di lui, quella che sente. È paura di essere lasciato da parte.)
 
***
 
Aggiornami, Echo.”
“Lo ha trovato. Si dirigono insieme al suo appartamento.”
Segui il protocollo.
 
***
 
Camminano in silenzio lungo le strade, lo sguardo basso e nessuna voglia di chiacchiere inutili; quando passano davanti al vicolo di Marge e Bob, Charlotte non riesce a trattenersi e li cerca con lo sguardo.
Margherita li nota all’istante e le rivolge un sorrisone allegro, le fa ciao con la mano… e quando nota Bucky al suo fianco alza entrambi i pollici in segno di approvazione. Alle sue spalle, lo sguardo di Bob è indecifrabile.
(Ma gli occhi verdi brillano come stelle, e Charles è convinta che sia perché Marge si è fatta praticamente la cuccia addosso a lui.)
Bucky li osserva in silenzio, e quando incrocia lo sguardo con la ragazza sembra in procinto di chiedere qualcosa. Dopo qualche istante si arrende, però, e torna a guardare per terra. “Li conosco da un po’, sai.” Racconta Lottie in risposta a quella domanda che non è mai arrivata. “Ha iniziato Claude, portava loro il pranzo quasi ogni giorno. Dopo un po’ ho incominciato a dargli il cambio. E poi sei arrivato tu.” Conclude.
“Già.” Gracchia l’uomo. “Grazie.”
Il silenzio cala di nuovo, ma è qualcosa di meno pesante, meno teso di prima.
Sembra quasi intimo.
Per entrare nel condominio le dita di Charlotte inciampano sulla serratura. È nervosa, tanto; quando Bucky se ne accorge le tiene aperta la porta con la mano nuda – perché un guanto solo? – e la lascia andare avanti per assicurarsi che il portone sia chiuso per davvero.
“Ascensore?” Propone la donna pigra. L’uomo la guarda in tralice. “…Ok. Ok. Scale.” Corregge in un borbottio.
Questa volta James la precede, e quando Charles mette un piede in fallo l’unica cosa di cui è conscia l’istante successivo è che si è schiantata contro qualcosa di incredibilmente massiccio che però ha avuto il buon gusto di risparmiarle il setto nasale.
Bucky la guarda dall’alto, in tralice a causa di quel goffo abbraccio in cui si sono all’improvviso trovati, e la rimette in piedi con un movimento elegante della mano guantata. “Attenta.”
“Ci provo.” Mormora Lottie, rossa da poter brillare al buio. “Quello scalino non era là.” L’uomo inarca un sopracciglio e le scocca un’occhiata fin troppo divertita. “Dico davvero!” Insiste, trotterellandogli impacciata accanto, massaggiandosi la spalla con cui gli è andata a sbattere addosso. “Ma tu perché sei così scomodo?” Borbotta alla fine.
James la imita a specchio, si massaggia il braccio con la mano nuda e si stringe nelle spalle. “Ho le ossa grandi.” Mormora, la pronuncia così assurdamente crinata dalla cadenza russa da sembrare una parodia di sé stesso. Charlotte lo guarda a lungo senza una parola, ed è solo quando le sembra di vederlo quasi a disagio che si sforza di spiegargli il perché di quell’occhiata.
“Questa è una grossa e grassa bugia, James Barnes.” Gli spiega quindi. “Pensavo che sotto quel cappotto ci fosse un denso strato di ciccia comoda contro cui schiantarsi, cos’è questa storia delle ossa grandi?”
Bucky distoglie lo sguardo, e Lottie gli vede bruciare qualcosa nello sguardo che ha il potere di lasciarla con la bocca improvvisamente secca. “Mi sei caduta addosso apposta, allora?”
“Come, prego?”
James nemmeno la ascolta. Continua a salire le scale come se niente fosse, rivolgendo un sorriso piacevolmente sorpreso al nulla davanti a sé. “Non pensavo di poter fare ancora questo effetto.”
Come, prego?
 
***
 
Claude torna a notte fonda, perché il turno di pulizie serali inizia quando il museo chiude e in generale la vita non è altro che un cammino lastricato di sofferenze e fastidi generici.
(E lui odia Charlotte per avergli trovato quel lavoro, ovvio.)
Le bussa alla porta e le entra in camera senza aspettare risposta e, come sempre fa – perché è chiaramente la progenie di Satana – accende qualsiasi luce sia in suo potere accendere.
Stronzo, pensa Charlotte. “Fanculo.” Dice quindi, perché non le piace ripetersi.
Claude le si siede sul letto e lascia scivolare via i fogli ammonticchiati sulle lenzuola prima che il sonno si facesse troppo pressante e la sua idiotissima coinquilina decidesse di dormire, e la guarda fisso negli occhi. “Perché c’è un barbone nel mio salotto?”
“È il nostro salotto.” Lo corregge con vocetta stizzita.
“Non mi hai risposto.”
“Ho provato a mostrargli camera tua, ma gli ha fatto schifo e allora ha ripiegato sul salotto.” Bofonchia, girandosi fino a dargli la schiena e appallottolandosi in posizione fetale per ricominciare a dormire.
Claude le sfila il cuscino e glielo dà in testa, e Charlotte si gira infastidita per guardarlo con tutto l’odio di cui è capace.
Charles!
Cosa!” Replica nello stesso sibilo velenoso.
“Perché il barbone che ti ha aggredito è nel nostro salotto?”
Lottie si umetta le labbra. “È una storia lunga.” Mormora, più incerta di prima, incredibilmente più lucida. “Solo… fidati di me? Puoi?” Propone.
Claude sbuffa e si alza in piedi. “Se rompe qualcosa, lo ripaghi tu.”
Prima di andarsene le lancia di nuovo il cuscino sul naso e Charlotte si addormenta così, fingendo di abbracciare tutt’altro (un tutt’altro molto muscoloso, molto patriottico e, manco a dirlo, molto riconoscente per avergli ritrovato il miglior amico senza consegnarlo a superspie di sorta).
 
***
 
La mattina dopo trova James seduto sul tappeto dove ha insistito per dormire, le gambe incrociate e l’espressione terrorizzata da – a occhio e croce – qualsiasi cosa.
“Cosa?” Gracchia con la voce ancora arrochita dal sonno.
Bucky la guarda, e gli occhi celesti tornano appena più umani, le pupille si dilatano quanto basta a metterla a fuoco e scuote la testa. “Non dormivo al chiuso da un po’.” Spiega semplicemente.
“Sai cos’altro non fai da un po’ e che farai oggi?” Risponde Charlotte, il tono lieve mentre si rimbalza tra le mani la pallina per la riabilitazione. Bucky non ci fa apposta, ma la osserva passarsi quell’oggetto tra le dita e resta fermo a fissarla, ipnotizzato, ignorando qualsiasi cosa gli stia dicendo. Ha lo smalto su una sola mano, e con le unghie laccate di quel rosso sembra di vedere i lapilli che si alzano da un falò scoppiettante. “Ehi.” Lo richiama dopo un po’, schioccandogli davanti le dita pulite.
James si riscuote a fatica, ma riesce a guardarla negli occhi. “Cosa?”
“A fare la doccia, sergente Barnes.” Gli intima, indicandogli il bagno con l’indice teso della mano. “Scattare.”
La osserva in silenzio e, con movimenti lenti ed eleganti, si alza in piedi. Non smette un istante di fissarla negli occhi castani se non quando, l’ombra di un sorriso a tendergli le labbra, si avvia verso il bagno con un semplice “Sissignora.”
Charlotte avvampa, e non sa nemmeno lei perché.
 
 
 
Note dell’autrice:
Saaaalve! :D
Come promesso, questo capitolo arriva puntuale.
Ed è lunghissimo! Avrei voluto tagliarlo, ma non sapevo materialmente dove e insomma, mi spiace se lo trovate troppo lungo.
Prometto che proverò a essere un po’ meno logorroica – o almeno a capire dove interrompere. <3
 
*= “Begin at the beginning," the King said, very gravely, "and go on till you come to the end: then stop.”
Lewis Carroll, ‘Alice in Wonderland’
Natasha stava citando Alice nel Paese delle Meraviglie, insomma :D
 
NB: La frase che Claude dice a Charles all’inizio, “su una scala da 1 a ‘invadere la Russia in inverno’”, è presa da tumblr. Mi ha fatto talmente tanto ridere la prima volta che l’ho letta che non sono riuscita a trattenermi e l’ho dovuta usare :D
Trovate il post qua: http://cnt.likealaugh.org/120LongDong/20130704-003110-120-263.jpg
 
 
(In caso qualcuno se lo stesse chiedendo, ancora non so se ci sarà una scena della doccia. Il capitolo successivo è già pronto, in realtà, ma vorrei tenere la storia a rating giallo e non so quanto ne potrei essere in grado descrivendo il Soldato d’Inverno come mamma l’ha fatto :°D)
 
 
   
 
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