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Autore: felpato 22598    28/05/2016    0 recensioni
"Salve" forse non era il migliore degli approcci, anche un po' imbarazzato, ma almeno aveva rotto il ghiaccio.
- Salve. -
Quella voce... non era una voce, o meglio si, ma non la aveva sentita. Stava immobile di fronte a lui, ferma come una statua; eppure la sua voce (sapeva essere la sua) risuonava nella testa del ragazzo. Solo nella sua testa, non alle sue orecchie: come se gli parlasse direttamente nel cervello.
"Dove mi trovo?" La curiosità innocente prese di nuovo piede nella sua mente.
- Beh, stai morendo. -
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buio.

Quando era andato a dormire? Non riusciva a ricordarsi... forse si era addormentato di nuovo sul divano. Era pervaso da una sorta di torpore, come se tutto quello che aveva attorno fosse distante, in un'altra dimensione; i suoni gli arrivavano ovattati, come provenienti da molto, molto distante. Toccò con una mano il pavimento sotto di sè, ma era come toccarlo attraverso un velo di seta; sentiva la superficie fredda e liscia, ma non la stava veramente toccando. Aprì gli occhi. Un bianco assoluto invase il suo campo visivo; il pavimento su cui era disteso era bianco e lucido come l'avorio, anche se non riusciva a riflettere nessuna immagine, ed il bianco era tutto intorno a lui, in ogni direzione, fino allo zenit. Non riusciva ad individuare nessun orizzonte, né da dove provenisse quella luce: potente, ma non abbagliante; diffusa in ogni luogo, come se il cielo, l'aria ed il terreno sotto di lui fossero una cosa sola. Si alzò in piedi, e si guardò attorno da ogni lato: niente, niente altro che bianco; non aveva neppure un'ombra. Eppure era calmo. Spaesato, confuso, ma calmo; come curioso di capire dove fosse e come vi fosse capitato, ma senza sentire il bisogno di tornare a casa.

Cominciò a camminare, lentamente, ciondolando le braccia e guardandosi attorno. Non riusciva neanche a dire se si stesse muovendo, non aveva alcun punto di riferimento, e nemmeno l'aria produceva alcun attrito.

Una figura scura si stagliava in mezzo a tutto quel bianco, alla sua sinistra. Era strano: era assolutamente sicuro che qualche secondo prima in quel punto non ci fosse nulla. La figura stava in piedi, statuaria; completamente coperta da una tonaca nero notte, che scendeva dritta fino al terreno e copriva la testa e le braccia conserte, nascondendola completamente. La ricerca di un volto era vana, e sprofondata nell'oscurità di quel cappuccio. Nella piega delle braccia stava, leggermente reclinato, il lungo e sottile bastone che terminava con la grande lama ricurva della falce.

Si fermò, guardando nella direzione della fosca figura.

"Salve" forse non era il migliore degli approcci, anche un po' imbarazzato, ma almeno aveva rotto il ghiaccio.

- Salve. -

Quella voce... non era una voce, o meglio si, ma non la aveva sentita. Stava immobile di fronte a lui, ferma come una statua; eppure la sua voce (sapeva essere la sua) risuonava nella testa del ragazzo. Solo nella sua testa, non alle sue orecchie: come se gli parlasse direttamente nel cervello.

"Dove mi trovo?" La curiosità innocente prese di nuovo piede nella sua mente.

- Beh, stai morendo. -


Asfalto. Le strisce per terra, lui che cammina. Qualcuno chiama il suo nome dietro di lui. Le gomme stridono sulla strada. Il mondo gira, poi dolore al cranio. Buio.


"Oh..." come diavolo aveva fatto a scordarselo? "Quindi, tu sei la Morte?" Che domanda stupida. Vestita così chi poteva essere, topolino? Nonostante tutto, continuava ad essere calmo, come se stessero parlando di qualcosa di molto lontano e di poca importanza.

- La Morte... perché dovete dare sempre una personalizzazione a tutto? Voi morite, e ci deve essere per forza qualcosa che vi fa morire, non potete proprio accettare che ad uccidersi siate voi stessi, in un modo o nell'altro. Io sono solo venuta a portarti via... se mi vedi così, è solo colpa della tua cultura. Non ho una forma: puoi vedermi in qualsiasi modo tu voglia. -

Rimase perplesso per qualche secondo. "Oh. Beh, va bene." Silenzio.

"Quindi... ora che si fa?"

Finalmente la testa della figura si mosse, rompendo l'immobilità surreale che la circondava, e si alzò leggermente sotto al cappuccio.

- Dobbiamo andare. -

"Cosa?" Ora che ci pensava in effetti era stato logico fin dall'inizio.

"No, no, senti non possiamo andare, non posso..."

- Cavoli, certo che siete tutti uguali - anche se non poteva vederli, sentiva i suoi occhi fissarlo intensamente dall'oscurità - non volete mai andarvene, avete sempre qualcosa in sospeso, vi state godendo troppo la vita, eravate troppo giovani... siete pieni di capricci -

"No, no, non hai capito" fece un paio di passi verso la sua nuova compagna "non è per me. Cioè, se fosse per me verrei senza problemi, non ho paura di morire; ma, vedi, ho fatto una promessa. Non posso andarmene."

- Mh... - la figura ora sembrava pensierosa, valutando le possibilità. 

- Sai cosa? Mi stai simpatico. Il tuo caso non è così grave, trauma cranico da incidente stradale. Saresti dovuto morire dissanguato... ma forse qualcosa si può fare. - 

Il mantello nero si mosse, e dopo la quasi totale immobilità che aveva tenuto fino a quel momento al ragazzo venne quasi un colpo. Morire di crepacuore mentre si sta per morire, sarebbe il colmo, pensò. Si girò nella direzione presa dalla compagna silenziosa e vide un basso tavolino di legno, accompagnato da due sedie dello stesso materiale.

Il vuoto del cappuccio era rivolto verso di lui.

- Mi piacciono i giochi. - la voce nella sua testa era diventata più leggera, quasi allegra.

- Battimi, e ti farò tornare indietro, per questa volta. Ti avverto: sono molto brava ai giochi. Lascio a te la scelta. -

Guardò il tavolo di fronte a lui. Non era mai stato un gran che ai giochi da tavolo: a scacchi aveva quasi sempre perso, così come a dama; ai giochi di carte, finiva sempre per incastrarsi in qualche modo. Pensò agli indovinelli, ma ebbe timore che quell'essere, di cui non sapeva bene l'origine, ne sapesse più di lui. Decise di buttarsi sull'unica alternativa che gli sembrava accettabile.

"Dadi" esclamò; "giochiamocela a dadi."

- Vuoi dare tutto nella fortuna? Strano, di solito si affidano alle loro immense abilità... - quindi non era il primo a cui veniva fatta questa proposta.

"Non ho grandi abilità, e di solito non sono nemmeno molto fortunato. Spero che la buona sorte paghi il suo debito con me in questa partita" sorrise.

All'improvviso si ritrovò seduto su una delle due sedie, di fronte a lui il suo interlocutore, tra loro il tavolo.

- Allora... perché lo fai? - con una mano chiusa scuoteva i dadi; non indossava più il pesante velo nero. Davanti a lui stava un uomo, di statura leggermente inferiore alla sua; i suoi capelli, ormai tendenti al bianco, si diradavano sul capo, e la mandibola era ricoperta da una barba folta e spinosa, il viso era magro e solcato dai segni del tempo e gli occhi, espressivi e tristi, indossati nelle orbite, lo fissavano da dietro un paio di occhiali dalla montatura di metallo sottile. Parlava con una voce baritonale, ma senza muovere le labbra.

Guardò suo padre davanti a lui. Era abbastanza stupito e confuso da quella repentina trasformazione, ma non disse nulla.

- Sette - il pugno si aprì, e lasciò partire quei due piccoli cubi sulla superficie del tavolo. Si fermarono. Un tre ed un cinque, tirò un sospiro di sollievo.

- Lo fai per la tua famiglia? - la voce era cambiata, era femminile e pacata; la voce di sua madre. Non alzò gli occhi dal tavolo.

"No... cioè, si, certo che lo faccio anche per loro, ma..."

Sì fermò qualche istante, la frase sospesa fra le labbra semiaperte; allungò repentinamente la mano e prese i dadi dal tavolo. 

"Non sono la prima cosa a cui ho pensato."


Casa sua.  Giù per le scale, sua madre gli urla contro. Lui è già pronto per uscire, e neanche sta più a sentire. Sbatte il portone di casa. Si guarda la mano, l'anello azzurro. E sorride.


C'era anche lì. Nell'anulare della sua mano sinistra, non se ne era mai andato. Quell'anello... non era un anello molto prezioso, eppure non lo avrebbe mai dato via. Ogni volta che guardava i riflessi blu ed iridescenti della pietra di madreperla, si ricordava che sua madre, quella persona scorbutico che gli urlava contro in continuazione, gli voleva molto bene. Che ogni cosa facesse, lo faceva per proteggerlo. Per lei era sempre il suo bambino.

"Mh..." riflettè un secondo, i dadi stretti nella mano.

"Sei" lanciò i dadi. Un due ed un uno. Dannazione.

- Sembra che siamo pari, per ora -

Quella voce... no. No, non poteva essere. Non lei, non li.

Era terrorizzato. Alzò lo sguardo, titubante. Lei era lì. Li, con i suoi capelli scuri, lisci. Con le sue labbra rosee. Con il suo viso pallido, gli occhi nascosti dietro le lenti degli occhiali grandi, dalla montatura scura. Vestita di scuro, come al solito. Non poteva sostenere quello sguardo, e si abbassò di nuovo, guardando il vuoto davanti a sé.

- Allora è per amore, eh? - nel suo tono c'era un che di ironico e canzonatorio, stavolta. - Banale... -

"No. No, guarda, hai capito male. Hai anche sbagliato persona."

- Sei tu che comandi, qui - a metà di queste parole, la voce mutò, fino a diventare cristallina; - Vedi quello che vuoi vedere. -

Sollevò di nuovo il capo, e sorrise.

Capelli rossi, naso sottile e tenero. Occhi grandi, carnagione accesa. Le labbra, le sue labbra sottili, così belle. Odiava vederla truccata, gli sembrava come coprire un'opera d'arte, dare una mano di pittura sulla cappella Sistina. Era così bella...

- Interessante... - neanche le sue labbra so muovevano, eppure gli sorridevano; - Sei abbastanza confuso, eh? -

Arrossì violentemente, costretto ad abbassare di nuovo lo sguardo.

"Ho pensato anche a lei, lo devo ammettere... ma no, non è stato il mio primo pensiero."

- Tre - la sua compagna si apprestava a tirare. I dadi erano in volo.

- Lei chi? -

Un due ed un uno.

Una fitta al cuore lo fece piegare in due sul tavolo. La mano destra al petto, era incapace di urlare, gli mancava il respiro; restò così, con la bocca aperta, il cuore in preda ad un dolore lancinante.

"Che..." faceva fatica a trovare le forze per parlare "che... mi hai... fatto...?"

- Tranquillo - la voce era disturbata, come da un'interferenza; con la vista annebbiata, un occhio chiuso per il dolore, nelle immagini pulsanti gli sembrò di vedere le figure delle due ragazze sovrapporsi l'una all'altra.

- Sei andato in arresto cardiaco. Oh, ma non ti preoccupare: non morirai, ancora... non abbiamo finito la nostra partita. -

Una mano si posò sul tavolo e spinse i dadi verso di lui.


Confusione. È con la ragazza dai capelli neri, lei sta piangendo; le sue mani sono macchiate di nero.

Ora è con quella dai capelli rossi. Lei gli sorride, è su un gradino. Si avvicinano, lui la bacia sulla guancia. Lei lo lascia fare.


Aprì gli occhi all'improvviso, con una scossa elettrica al torace. Sempre il solito posto, poteva dirlo da tutto il bianco; ma non riusciva a mettere a fuoco di fronte a lui.

- La rianimazione ha funzionato - era una voce maschile, chiara;

- Non sei più in pericolo imminente... allora, vuoi giocare? -

Riuscì a guardarsi la mano destra, teneva i dadi nel palmo.

"Mh..." gli girava la testa, ma finalmente riusciva a vederci quasi chiaramente. Nella sedia di fronte alla sua c'era un ragazzo molto giovane. Riccioli biondi, carnagione abbronzata.

"Aha... si, si... ho capito..." stava fissando negli occhi il suo migliore amico; "Sì, ho pensato ai miei amici... sono molto importanti per me" era bastato un battito di ciglia: ora davanti a lui stava una ragazza esile, con un caschetto di capelli castani ed occhiali esageratamente grandi.

"Ma..." sorrise, come se avesse vinto una sfida che si era stabilita silenziosamente tra i due: "non sono stati neanche loro, la prima cosa..." chiuse le dita attorno ai dadi.

"Otto." La figura di fronte a lui mutava ancora. Ora aveva i capelli lunghi e gli occhi grandi, stava sulla sedia come su un trono e teneva le gambe incrociate.

Lanciò i dadi, aveva quasi paura a guardarli.

Un sei ed un due.

Il dolore che gli opprimeva il petto svanì; all'improvviso ritornò ad essere lucido. 

Davanti a lui c'era... non riusciva a definirlo. Era come un corpo umano, ma senza alcuna caratteristica. Non aveva un viso, un colore. Sembrava quasi non esistesse, e guardarlo procurava una strana sensazione di inquietudine.

Una delle mani di quell'essere raccolse i dadi.

- Perché? - la voce nella sua testa aveva perso ogni tono. Era quasi come visualizzare le pare senza che fossero pronunciate.

- Perché lotti? -

"Te lo ho detto, ho fatto una promessa."

- Cinque. - tirò i dadi, che esitano qualche istante prima di scegliere su che lato adagiarsi.

Doppio sei.

"Cavoli..."

- Già. - la testa senza volto si voltò verso di lui - Un tiro. Vinci questo, e ti lascio andare. -

Prese i dadi con una mano, e li strinse forte.

"Sai..." cominciò, guardandosi il pugno chiuso; "Lei per me è più di un'amica. Più di un'amante, o di una fidanzata. Più che una famiglia. Lei c'è sempre per me, ed io ho bisogno di lei..."

Non poteva vederlo, ma sentì che chi era di fronte a lui stava sorridendo.

"Due."

I dadi rotolarono sul tavolo, fino a fermarsi.


Bianco.


Il dottore uscì dal reparto rianimazione, una cartella in mano e un'aria eccessivamente abbattuta. Nella sala d'attesa c'erano quattro persone: un ragazzo, alto, con i capelli biondi e ricci, abbracciato ad una ragazza dai capelli a caschetto e gli occhiali grandi; vicino a loro stava una ragazza dai capelli lunghi e neri, e i grandi occhi scuri umidi di lacrime ed ombretto.

Ma la persona più preoccupata in quella stanza era seduta qualche passo più in là, su una delle tante sedie blu; aveva un'aria decisamente distrutta. I capelli, castano chiaro, raccolti malamente in una coda, lasciavano libero il viso segnato di lacrime, che si portavano dietro quel poco di trucco che si era messa; era eccessivamente pallida, e fissava il vuoto davanti a sé con aria assente.

Il dottore si avvicinò ai quattro ragazzi, che erano presenti all'incidente.

Una macchina lo aveva preso in pieno, sulle strisce.

Nella testa di lei c'era ancora impressa l'espressione del ragazzo un attimo prima dell'impatto, quando si era girato al suo richiamo...

"Mi dispiace..." la voce del dottore era quasi un sussurro.

"...abbiamo fatto del nostro meglio."

La porta dietro di loro si aprì di scatto, spinta da un ragazzo avvolto nei suoi vestiti strappati e malconci.

"Col cavolo!"

Sì era svegliato, era sceso di corsa dal lettino e aveva raggiunto la porta il più velocemente possibile.

Si videro. Sulla faccia di lei c'era la gioia di chi ha visto risorgere un morto: si alzò, scansò quel dottore dalla faccia rintontita e si gettò fra le braccia di lui.

Si strinsero così forte che lui temette di essere scampato alla morte solo per essere soffocato li.

"Non lasciarmi mai più. Mai." La voce di lei era rotta dal pianto, che aveva ricominciato a scendere sulle sue guance.

"Hey... non vado da nessuna parte. Ho promesso, ricordi? Non ti abbandonerò mai."

Appoggiato alla porta d'ingresso stava un uomo, glabro, completamente vestito di nero con tanto di giubbotto di pelle; i capelli portati a spazzola, scuri come tutto il resto. Solo la sua pelle era molto chiara; gli occhi coperti da un paio di occhiali da sole tondi.

L'uomo gli sorrise, e si portò due dita alla tempia in una sorta di saluto militare.

- Ci vediamo presto, ragazzo. -



   
 
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