Nostos
Si trova a Roma. Mani
nelle tasche dei pantaloni, naso all'insù, arricciato per
assecondare la concentrazione dello sguardo, bocca aperta in una
smorfia che pare di disgusto – in realtà deve solo completare
l'espressione.
Non ha scelto a caso la
via in cui fermarsi. Il Foro Romano appare meraviglioso da
quell'inclinazione all'ora del tramonto, e il Dottore si è sempre
ritenuto un amante del buongusto e della bellezza. Per un attimo, uno
solo, pensa di voler scattare una fotografia allo spettacolo di
rovine di fronte a sé; poi ricorda che a lui le fotografie non
piacciono. Il ricordo di una cosa bella deve rimanere impresso nella
memoria, non su una pellicola.
Batte le ciglia nel
rivede per un attimo la dolce – la sua – Rose mentre inforca la
macchina digitale o il telefono, mentre prende l'inquadratura
concentrata e fa poi scattare un fastidioso click che ferma una copia
della realtà.
Batte di nuovo le
palpebre perché Rose Tyler non è lì con lui a pregarlo di fermare
un passante, uno qualsiasi, di mettersi in posa e di passarle un
braccio intorno alla vita o alle spalle.
Deglutisce come per
cacciare via un peso che gli opprime le vie respiratorie.
Nel suo campo visivo
entra una figura femminile dalle tonalità chiare. Si volta per
metterla a fuoco e vede che ha, tra i capelli, un nastro rosa che a
Rose sarebbe piaciuto molto.
Quando torna in hotel, a
tarda sera, il Dottore ricorda meglio l'ornamento sui capelli di
quella sconosciuta.
Mentre prepara la valigia
e la chiude si dice che avrebbe dovuto effettivamente fare una foto.
Poi guarda quella che raffigura Rosa sorridente che sta sul comodino.
Quella deve essere riposta nello zaino.
«Buonanotte» sussurra,
spegnendo la luce.
«... Un tumore. Sono
desolato, mi creda. Non vorrei essere io a darle la notizia»
L'uomo non ha voglia
di pensare una risposta sarcastica o pungente. Dalla parola tumore
non ha capito più molto. Si sussegue un termine tecnico dopo l'altro
e la medicina non è proprio il suo campo perché possa muoversi in
quelle parole con destrezza.
«Guarirò?»
interrompe all'improvviso, conciso.
Il silenzio cala tra
di loro. Segue un altro discorso di cui capisce “grave forma di”,
“rare complicazioni che si sono presentate”, “nessuna cura
disponibile”.
«Quanto mi resta?»
domanda di getto. Nemmeno guarda il medico, nemmeno ragiona. Si
aspetta di sentire solo un numero, che arriva poco dopo.
«Due, forse tre mesi»
Dopo qualche attimo avverte un: «Mi dispiace»
«Anche a me» ma non
è sicuro di averlo detto o solo pensato.
Si chiede per quale
ragione, di città in città, debba sempre alzare gli occhi e piegare
la testa con quell'inclinazione assurda per guardare qualcosa che
svetta. È una domanda che gli sorge spontanea, perché cercare di
osservare al meglio la facciata della cattedrale di Notre Dame gli
sta procurando un leggero ma insistente dolore al collo. Se lo
massaggia con una mano mentre continua a guardare su, provando a
memorizzare il più possibile, ma qualcosa gli sfugge in
continuazione.
Il Dottore persevera,
guarda ancora su e trova tutto geniale, trova la risposta: mai come
in quel momento ha avuto chiaro davanti a sé ch'egli è fatto per
puntare in alto, per conoscere ciò che sta sopra di lui, qualcosa
che punta verso l'infinito al cospetto del quale si sente solo un
essere minuscolo e affascinato. Gli spunta un sorriso quando pensa
piuttosto chiaramente:
Sono come Notre Dame.
Approfondisce il
pensiero: la cattedrale simbolo di Parigi, per quanto si innalzi sul
piccolo universo che la circonda, non è arrivata così in alto, non
ha superato il suo limite; così lui, come lei, non ha oltrepassato
il suo.
Sospira, prima
infilandosi le mani nelle tasche, poi le occupa a fissare un paio di
bottoni del cappotto per non farlo svolazzare al vento di fine
febbraio.
Mentre lotta con i lembi,
il suo sguardo si inchioda alle sue scarpe da tennis: d'un tratto, il
desiderio di volare alto lo abbandona.
Rose sembra sconvolta,
e il Dottore riesce a capire che, se fosse in lei, evidentemente
farebbe lo stesso: si fisserebbe con orrore.
Si ritrae, cerca di
non avere un confronto diretto con lei, sperando che voltarsi basti a
nascondere la menzogna. È troppo impegnato ad odiarsi per ricordare
che la sua Rose si fida ciecamente di lui per metterlo in dubbio. Gli
affiderebbe la sua stessa vita. Egli non vuole darle il peso di
vederlo perdere la sua.
«Parliamone» è la
proposta speranzosa della ragazza che ha appena sentito il Dottore
dirle che non vuole più stare con lei.
«Non ho più niente
da dirti»
«Aspetta-»
«No»
«Ti prego!»
«Ho detto no»
La fiamma negli occhi
del Dottore incontra per un attimo la freschezza dei fiori nell'iride
di Rose, e la vede appassire per colpa sua.
«Vattene» intima,
consapevole che non riuscirà a dirlo di nuovo. Intima e lo urla allo
stesso tempo.
Le è grato per non
aver replicato, ma quando sente la porta dell'appartamento sbattere
con foga capisce di essere stato un idiota.
Il Dottore corre come un
pazzo per tutto l'aeroporto. Ha capito male il suo gate e adesso è
completamente perso nei meandri di persone disordinatamente messe in
fila per l'imbarco.
Corre, corre, corre.
Urta la gente come se non
la vedesse, ma il tempo di voltarsi a chiedere sinceramente scusa non
è a sua disposizione. Spinge la valigia con forza per poi
riprenderla qualche metro più in là in uno stridore di ruote e
calci per farla andare più veloce.
Imbocca la giusta
direzione solo dopo un altro minuto abbondante. Trascina il bagaglio
con forza, riuscendo perfino ad allungare il passo già fuori
dall'ordinario.
È con un sorriso
burlone, a metà tra un buffo tentativo di scusarsi e una vittoriosa
ammissione di superiorità nei confronti dei voli, che sbatte
passaporto e biglietto sul banco dell'impiegata, che fa il suo dovere
come se avesse davanti un folle e non un passeggero qualunque.
«Allons-y!» ridacchia
il Dottore prima di infilarsi nell'aereo a cercare il suo posto,
rigorosamente prenotato per il finestrino.
Osserva solo per un paio
di minuti il panorama mozzafiato che vede dall'oblò, poi decide che
un sonnellino può anche permetterselo. E si risveglia sette ore dopo
con una voce metallica e gioviale che annuncia che la traversata si è
conclusa con successo e che ora sono a New York.
Non fa in tempo a posare
la valigia in hotel che già il Dottore sente che non è stata una
grande idea includere la Grande Mela nella sua sconclusionata tabella
di viaggio.
Quando aveva prenotato il
volo, in fretta e furia, da Parigi, gli era sembrata l'idea più
brillante che avesse mai avuto nelle ultime due settimane: cosa se
non i grattacieli di New York avrebbero potuto suggerirgli il
desiderio di andare oltre?
Ma ora che tocca con mano
quella realtà, il Dottore crede di non essersi mai sbagliato tanto.
Passeggiando tra le
strade affollate si sente del tutto impotente, fuori posto,
annichilito e soprattutto solo.
Gli andrebbe anche bene
se potesse dedicarsi a ritrovare se stesso tra la folla caotica e
multiforme che gli sfreccia accanto in un tripudio di odori
fantasiosi e vari. Potrebbe anche accettare questa soluzione di
completo abbandono, e in fondo è quello che cerca.
La verità, però, non è
questa. La verità è che il Dottore, tra la miriade di facce che gli
passano vicino e che non ricorderà in capo a due minuti, non sta
cercando di ritrovarsi in una catartica analisi di se stesso, in un
esame di coscienza prima di morire. Il Dottore cerca la donna dalla
quale è scappato, codardo, in un pomeriggio grigio e freddo, la
donna che non ha voluto gli rimanesse accanto negli ultimi istanti
della sua vita, tanto da fargli gettare alla rinfusa i suoi abiti nel
bagaglio e lasciare l'appartamento quasi dopo di lei, perché Rose
Tyler, nonostante tutto, sarebbe tornata in quelle stanze per
riprendere il discorso, litigare furiosamente se necessario, ma
l'avrebbe fatto perché lei non ha mai smesso di lottare per loro.
Il Dottore si è ripetuto
tante volte, fin quasi a convincersene, che si è comportato così
male con la donna che amava – che ama – per non farla
soffrire in quei due mesi di agonia e preparazione alla morte.
Lì, a New York, mentre
si mescola in una molteplicità dalla quale non riesce ad emergere
singolarmente, egli capisce che il problema è stato – e continua
ad essere – lui.
Seduto su una panchina a
Central Park, si dice – ma non con pensieri concreti; è come
un'emozione rivelatrice quella che avverte – si dice che è stato
troppo codardo per sopportare la sofferenza sua e di Rose insieme. Se
si fosse lasciato compatire dalla sua compagna, ne è convinto,
sarebbe morto prima dell'inevitabile e previsto appuntamento fatale.
Ora che è solo, però,
percepisce il dolore della sua Rose come se il suo cuore fosse doppio
e una parte le appartenesse. Il cuore nel petto di Rose, può
avvertirlo, è più lacerato del suo, insidiato dall'ignoranza.
«Mi dispiace» mormora.
«Mi dispiace tanto»
Si sta rivolgendo ad una
ragazzina pallida e paffuta che gioca vicino a lui con una palla e
che risponde fatalmente al nome di Rose gridato da una madre ansiosa.
Lo guarda sospettosa e si allontana.
In un modo o nell'altro,
Rose Tyler gliel'ha fatta pagare.
Gli manca da morire e se
potesse tornare indietro nel tempo, giura che le direbbe tutto.
Il Dottore si è rivolto
ad uno psicologo.
Da solo non ce la fa –
non ce l'ha mai fatta, ha sempre avuto qualcuno accanto, e ora che
non ha nessuno ne sente terribilmente il bisogno.
Eppure, egli ha capito
praticamente subito che non gli sarebbe stato di grande aiuto
quell'uomo ben vestito e dall'aria socievole. L'ha capito quando gli
ha chiesto il suo nome e, seppur a malincuore, egli ha dovuto
rispondere John Smith.
Con Rose ha sempre potuto
giocare con il suo nome. Non aveva mai capito perché dovesse
circoscriversi in uno John Smith qualunque. A Rose non importava di
chiamarlo così o Dottore. Al resto del mondo, a quanto pare, sì.
Non basta la sua carta d'identità, o il passaporto. Il Dottore deve
dirlo, deve urlare che si chiama John Smith, deve proclamarlo.
Dottore gli dà
libertà. Senza identità, senza vincoli, senza origine.
È per questo che ha
risposto brevemente a tutte le domande che gli sono state poste. Ha
perso interesse subito negli argomenti con cui lo psicologo ha
sostenuto l'accettabilità della morte come inevitabile conclusione
della vita – il Dottore ha cercato di ribattere che è la morte per
vecchiaia, quella, e non un tumore che gli macera il corpo
dall'interno, ma crede che le parole gli siano rimaste in gola. Il
sorriso smagliante che gli ha rivolto prima di uscire, come se non
fosse andato lì a parlare di morte, della sua morte, quello
no, non l'ha solo immaginato.
Ha visitato nel giro di
una settimana tre città – Siviglia, Berlino e New Orleans. Si è
entusiasmato con la prima, giocando persino a farsi ritrarre da un
artista di strada. Gli ha chiesto di posizionarlo nel porticato alle
sue spalle, bramoso di accentuare il contrasto tra la sua figura così
poco araba e l'architettura moresca fin troppo elegante.
Ha rimirato il quadro sul
battello che l'ha traghettato sul Mississippi e ha deciso che al
posto di quelle arcate avrebbe anche accettato di vedersi di fronte
all'Antoin's, o alla stazione di
Berlino.
Tuttavia,
ora che passeggia mesto a Tokyo, non ha dubbi: può pensare di vedere
sostituito lo sfondo magistrale dell'immagine solo da un ciliegio in
fiore, maestoso e fiero come solo la natura può essere.
Tira
fuori dalla giacca blu un taccuino in pelle. Non è un amante del
disegno, ma sente il bisogno di imprimere su carta un volto
sorridente di donna, un nome che non osa pronunciare, troppo lontano,
troppo amato, troppo dissacrato.
Disegna
Rose con un sorriso largo e luminoso, come se fosse con lui,
appoggiata al tronco in contemplazione. Il Dottore avrebbe riso
gentile e innamorato di questa dolcezza, ma quando richiude il
quaderno l'espressione che gli atteggia il volto è più dolente che
mai.
Comincia
a non poter ignorare il dolore fisico che il suo corpo prova di
continuo. Ora è più forte, gli toglie il respiro, a volte gli
strappa una fitta. Altre, ha problemi a coordinarsi e si sente poco
concentrato.
Cammina
poco, ormai. Non corre più, nemmeno adesso che sente sotto ai piedi
nudi la sabbia fine della spiaggia di Perth. Ha tentato, ma quando
muovere contemporaneamente la sabbia e il suo corpo gli è risultato
troppo faticoso ha smesso, si è seduto, ha inforcato gli occhiali da
sole e si è perso a guardare il mare.
Non
ha chiaro il motivo per cui la sua scelta sia ricaduta
sull'Australia. Non ne è mai stato attratto, né può definirsi un
grande appassionato del mare o del surf. Però è lì, e tutto
sommato gli fa piacere. Può persino accettare la staticità, e
questo gli fa definitivamente capire che non sta bene.
Glielo
ricorda anche l'improvvisa rigidità della gamba destra. La mano
corre a massaggiarla, ma non è sicuro che serva a qualcosa.
Con
urgenza cerca conforto nello sciabordio delle onde che si infrangono
sugli scogli e sulla riva, rallentano appena e ripartono con velocità
ridotta, ma non finiscono mai il loro corso.
Il
Dottore non è come il mare. È una consapevolezza che gli toglie il
respiro per un attimo, che lo fa arrabbiare in un istante e gli
delinea di fronte una fine vicina. Troppo vicina.
Un'altra
verità gli saetta nella mente: non vuole morire aspettando di
sentire tutto il dolore che può provare ancora e ancora.
E
soprattutto non vuole morire a Perth.
Ama
Londra. Lo sa quando scende dall'aereo e ne respira l'odore. Lo sa
quando una familiare esclamazione nella sua lingua lo desta dal
torpore. Lo sa quando si guarda intorno e ricorda perfettamente dove
dover andare per prendere il mezzo pubblico più vicino. Lo sa quando
ne rivede le case così contrastanti tra loro, retaggi di epoche
passate che a lui dànno sapore di novità.
Ama
Londra perché è l'unica alla quale può pensare di dare l'onere e
l'onore di accogliere il suo corpo anche da morto, non solo che da
vivo.
La
ama così tanto che non cerca subito una stanza d'albergo – non può
tornare nell'appartamento che ha diviso con Rose per tanto tempo –,
ma si preoccupa di visitare la città, come se non la conoscesse a
memoria, come se cercasse di trovare eventuali cambiamenti davanti ai
suoi occhi. La ricorda e vuole innamorarsi di nuovo.
Solo
a serata inoltrata decide che è il momento di stendersi un po'. Il
viaggio e l'esplorazione l'hanno stancato, gli hanno indolenzito le
ossa e le membra, ed è arrivato il momento di trovare ristoro.
È
una stanza delicata, accogliente e confortevole quella che il Dottore
ha scelto per sé, e ne saggia il letto con fare esperto, con
l'orgoglio di dire a prescindere che non è stato così comodo in
nessuna stanza d'albergo di tutto il mondo.
Il
Dottore ama Londra e ciò che desidera in questo momento è di
viverla per sempre.
Il
suo medico di fiducia – unico, in realtà – non ha nascosto lo
stupore nel vederlo ricomparire davanti ai suoi occhi dopo quasi due
mesi di assenza. Il Dottore ha creduto alla sincerità con cui l'ha
accolto, evitando in un primo momento di parlare del tumore; è stato
proprio lui a dover intavolare l'argomento quando, nel mezzo di una
frase, ha scordato ciò che doveva dire e ha perso secondi interi per
provare a ricordarlo. Quando non ci è riuscito, ha ammesso di
provare dolore, a volte più acuto, altre vagamente sopportabile, ma
comunque dolore.
Sono
bastate poche altre domande mirate perché il medico potesse dirgli
che il tumore aveva accelerato i tempi e che non mancava molto. Per
cosa, non lo ha precisato per discrezione.
Ciò,
però, a cui il Dottore ripensa, mentre beve un tè in un bar vicino
al Tamigi, è il modo in cui il medico gli ha suggerito, in quella
mattinata, di riprendere gli eventuali contatti londinesi e di
prepararli alla sua perdita, di riconciliarsi con qualcuno e,
soprattutto, di ammettere quello che sta per succedere. Deve aver
capito che il Dottore non ha fatto parola del suo stato di salute,
che deve aver fatto le valigie il giorno stesso e che è partito,
lasciando tutto a metà. O forse, quello è un consiglio che i medici
dànno a tutti i malati terminali per cercare un conforto nella
gente, un ultimo barlume di vita. Il Dottore non lo sa, ma pensa solo
a Rose.
Immagina
che sia tornata a vivere da sua madre, immagina come debba essersi
sentita disperata e abbandonata in quel pomeriggio freddo e
spaventoso, e anche nei giorni successivi. Ancora, probabilmente,
deve sentirsi così, arrabbiata e lasciata sola.
Per
l'ennesima volta, il Dottore si ripete che è stato un idiota, che
lui non voleva lasciarla andare, cacciarla. Forse l'ha voluto, ma ora
desidera solo di averla accanto, di ridere con lei, di meravigliarsi
insieme a lei di tutto ciò che li circonda e che li avvolge. Sa per
certo che se Rose fosse lì, gli farebbe notare come è calmo oggi il
fiume, e glielo direbbe con la gioia a intaccarle la voce.
Se
la sua Rose fosse lì, sarebbe impegnata ad infondergli tutta la sua
creatività, tutto il suo entusiasmo, pur di vederlo sorridere
nonostante tutto.
Ma
Rose non è con lui e il Dottore non sorride.
Il
Dottore darebbe anche ascolto al suo medico, se non fosse per il
fatto di essersi sentito completamente oppresso da tutte le chiamate
perse, da tutti i messaggi lasciati nella sua segreteria, da tutti
gli SMS che gli hanno invaso la scheda di memoria del suo telefono.
Non ha acceso il suo cellulare per tutto questo tempo. L'ha spento il
giorno in cui si è alienato dalla vita, e non l'ha più toccato. Ora
che l'ha fatto, non può che guardare con gli occhi sgranati le
caselle dei messaggi che si riempiono senza sosta, segnando numeri
spropositati.
In
cima alla lista c'è Jack, l'amico e il collega più caro. Faccia di
Boe, lo chiamavano ai tempi del college. L'informazione gli torna
alla memoria e lo fa sorridere. Legge un “Ehi, così ci fai
preocc-” e il resto della frase si perde nell'anteprima di un nuovo
SMS. Non lo guarda neppure: c'è una grossa lacrima che gli appanna
la vista per un momento, ma riesce a reprimerla poco prima di
lasciarla crollare.
Per
la prima volta da quando è partito, il Dottore si chiede quanto
abbia fatto preoccupare tutti coloro che gli stavano accanto. Nemmeno
lo fa ridacchiare – e normalmente lo farebbe molto – il
riflettere sul fatto che persino la madre di Rose, per quanto
arrabbiata nei suoi confronti per aver lasciato in un modo così
brutale sua figlia, sarà di certo preoccupatissima.
Ha
paura di scorrere ancora il lungo elenco di nomi e buste lampeggianti
perché teme di trovare un altro mittente al quale non ha la forza di
pensare.
Stringe
l'oggetto, poi lo mette da parte: il peso che sente nel cuore è
troppo gravoso per sostenerlo ancora per molto, soprattutto sapendo
che troverà il nome di un fiore tra i tanti che affollano il suo
cellulare.
Il
tu-tu costante del telefono gli dà il tempo di riflettere per alcuni
momenti.
È
di nuovo lì, in piedi alla finestra del suo vecchio appartamento, il
cuore che gli batte all'impazzata e le mani che tremano furiose. Se
Rose lo vedesse in questo stato, non lo riconoscerebbe. Per sua
fortuna, ci sono almeno quattro isolati tra di loro.
Non
sa perché l'ha fatto, perché, alla fine, si sia deciso a pigiare
quel pulsante verde e a premersi il cellulare sulle orecchie, ma si
ritrova in quella posizione scomoda e con l'ansia a divorarlo
dall'interno.
Ansia
che non accenna minimamente a placarsi quando la chiamata viene
accettata dal destinatario.
L'esitazione
dall'altra parte della cornetta lo spaventa come non mai. Rose è lì,
ha risposto, avverte il suo respiro. Avverte anche un lieve rumore di
automobili, clacson e parole troppo distanti per essere capite.
Il
cuore gli si ferma all'improvviso, o almeno gli sembra così.
Vorrebbe parlare, dire qualcosa, urlare, ma il Dottore non è bravo
con le parole e i sentimenti, nemmeno per Rose, nemmeno quando si
sente morire nel corpo e nell'anima.
Tace
e attende, trepida e si odia per il dolore, ma tace e le lascia il
tempo per capire, realizzare, accettare.
«Tu?»
sussurra Rose d'un tratto, spaventata e titubante.
«Ciao,
Rose» ribatte il Dottore, abbozzando un sorriso triste, e si
dispiace che lei non possa vederlo. Da come la donna geme capisce che
sta trattenendo le lacrime.
«Come
stai?» osa il Dottore, sentendosi un idiota: Rose non risponde, non
parla, probabilmente lo sta odiando, ma che mantenga attiva la linea
telefonica è già un punto a suo favore.
Si
sente in dovere di continuare: «Sono tornato a Londra» Lo annuncia
con leggerezza e non ha intenzione di approfondire.
«Sei
stato via per tutto questo tempo?»
Ha
la sensazione che Rose lo stia interrogando per assicurarsi
sinceramente che non sia stato in città per quasi tre mesi.
«Sì,
sono andato via. Ho visto il mondo»
Gli
viene da ridere nel constatare che no, non ha ovviamente visto il
mondo intero, ma non ritiene opportuno commentare.
«Perché?»
C'è
un improvviso vuoto nella mente del Dottore che non ha la più
pallida idea di cosa dire. Il pensiero di riuscire a dirle tutto ciò
che accadrà di lì a pochi giorni lo annienta. Non è ancora in
grado di farlo, non è in grado di ammetterlo neanche a se stesso.
Esita
appena, poi confessa un timido, sciocco: «Mi dispiace»
Rose
non parla, non gli comunica tutto ciò che pensa, non gli riversa
addossa né angoscia, né dolore, né rabbia. Solo, tace. La
terribile prospettiva per cui, forse, non dice nulla per non ferirlo
con parole troppo dure lo fa stare ugualmente male, ma in fondo
gliene è grato. Fa appena in tempo a pensare che chiuderà la
chiamata, che non ha senso continuare una conversazione che sembra
dover rimanere muta, che la ragazza prende la parola.
«Perché
sei tornato?», e lo sforzo che ha fatto per essere lievemente
più gentile gli scioglie il cuore.
«Vorrei
parlarti» Non è mai stato così felice di aver fatto una proposta
del genere. Ricorda di essersene andato durante un litigio. Andarsene
per sempre dopo una chiacchierata di scuse e, forse, amore reciproco
gli sembra un'idea più che allettante.
«Anch'io
credo di doverti parlare» È più rude di prima, ma il Dottore
pensa che sia assolutamente giusto che gli riservi un trattamento di
questo tipo.
«Dove
sei?» le domanda, infilandosi la mano in tasca, gesto di conforto e
incoraggiamento.
«Non
in Inghilterra» principia Rose a metà tra il disperato e
l'abbattuto. «Sono in Francia. Parigi»
Il
Dottore fa per chiedere allucinato il motivo di tale improvvisa
partenza, ma viene preceduto.
«Cercavo
te»
Trasecola
e si appoggia al muro della stanza con tutto il suo peso, sconvolto
perché qualcuno è stato in grado di comprendere al volo il suo
itinerario, quel percorso logico e illogico al tempo stesso che ha
deciso di seguire.
«Mi
hai cercato?» non può trattenersi dal chiedere.
«Sì,
certo che ti ho cercato! Sei sparito, non sei più tornato, il
telefono era sempre spento... Ero spaventata, capisci?»
Capisce.
Capisce perché lo era anche lui – spaventato da sé, dal futuro
inesistente, dall'essere completamente solo per un suo maledetto
errore, dall'essere senza Rose.
È
stato terrorizzato e lo è tuttora, ma per un motivo diverso: e se
Rose non volesse davvero rivederlo? Se decidesse di ripensarci e di
rimanere in Francia ancora per molto? E se non riuscisse a vederla
prima della fine?
«Mi
dispiace tanto» riesce a dire, articolando le parole e i suoni con
fatica. «Non avrei dovuto»
«No,
non avresti dovuto»
La
stilettata lo colpisce con forza e vigore, quasi con cattiveria.
Il
Dottore merita tutte quelle sensazioni.
«Questa
volta... rimani?» È la voce di Rose che lo ridesta dallo stato
di autocommiserazione in cui si è gettato senza nemmeno
accorgersene.
«Come?»
soffia, non consapevole di aver inteso bene.
«Questa
volta rimani a lungo a Londra, Dottore?»
L'ha
chiamato Dottore. Dottore. Non John Smith. Non come tutti gli altri
fanno. Rose ha ripreso il gioco di sempre, il loro piccolo modo di
essere diversi dagli altri. Lo ha chiamato come se non fosse accaduto
niente di spiacevole tra di loro.
Il
sorriso che ammicca sulle labbra dell'uomo fa capolino anche nella
sua voce.
«Questa
volta non me ne andrò più»
Non
si perde ad analizzare i sottintesi di quell'affermazione, non ha il
desiderio di pensare che rimarrà per sempre a Londra, sepolto in una
bara e con una lapide a ricordare di nuovo a tutti che il suo nome è
John Smith. Si concentra sulla risposta che non tarda ad arrivare.
«Perché
hai smesso di viaggiare? Non ti è piaciuto il mondo?»
L'ironia
bonaria della giovane gli fa esalare una risata spontanea e felice.
«Avevo
bisogno di tornare a casa»
Non
si è preoccupato di nascondere la mestizia: ha compiuto un errore.
«Che
cosa intendi?» inquisisce infatti Rose, candida ma perspicace.
Non che se ne possa stupire più di tanto. È probabile che abbiano
girato il mondo in maniera speculare, perciò non si meraviglia che
possa capire che qualcosa non va.
«Non
è il momento» mormora, cercando di suonare tranquillo e vagamente
sereno. Fallisce miseramente.
«Dottore,
non te ne sei andato solo per me, vero?»
L'ha
detto con un tono che gli ha fatto mancare un battito: un misto tra
una conferma e una nuova dolorosa scoperta è stato quel pensiero
formulato quasi per caso. Il Dottore non sa rispondere, vorrebbe solo
dirle che lei non c'entra affatto. Rose non ha molto a che vedere con
la sua discutibile scelta di fuggire da tutto e tutti. Rose ha solo
subito il suo egoismo.
«No,
non è colpa tua»
Tacciono
per un po', ed evidentemente Rose decide che no, davvero qualcosa non
va.
«Dottore,
che cosa sta succedendo? Torno a Londra»
Ritiene
saggio non ribattere e gustarsi quella speciale confessione. Rivedrà
Rose, questo è tutto ciò che per lui conta ora. Forse accadrà
molto presto, forse persino in giornata.
O
forse non vivrà così a lungo per attenderla, ma ha buonsenso a
sufficienza per accantonare quel pensiero e tornare a sentire il
sospiro accorato della donna al di là della cornetta.
«Sono
contento» dice e basta, la voce inerte, ma è convinto di aver dato
la giusta idea del sentimento che gli colora il cuore.
Le
sfugge uno sbuffo divertito. Per un attimo il Dottore si illude che
sia rilassata, meno ansiosa, meno preoccupata. Si concede un altro
sorriso, sentendo all'improvviso le lacrime pungere delicatamente
contro le palpebre. Si bea della sensazione e non cerca di
reprimerla.
«Perché
sei proprio a Parigi?» chiede, appoggiandosi a tutto il suo
autocontrollo per non piangere.
«Perché
a te sarebbe piaciuta» C'è una pausa. «Speravo di trovarti
qui»
Il
Dottore si sente mancare. Capisce che Rose ha provato a guardare nel
suo egoismo, ha provato ad esplorare un campo minato e ne ha anche
colto il senso, ha intuito il fascino di Parigi, ma non ha
considerato l'amore per Londra, il luogo della sua anima.
Ma
come farne una colpa a Rose, la dolce Rose che non sa niente, che non
sa che a Londra è tornato solo per morire nella sua amata città?
Rose non ha ancora afferrato il significato di tutto, e forse è
meglio così.
«Posso
tornare oggi, se vuoi» Il sussurro della donna è un balsamo per
il Dottore che in questa sensazione ritrova un po' di se stesso,
sfacciatamente egocentrico, così innamorato e così impacciato per
parlare, chiedere, desiderare.
«Okay»
dice, il sorriso che gli atteggia la bocca. Già immagina di andarla
a prendere all'aeroporto, di abbracciarla forte e di raccontarle
tutto.
Scopre
tutto d'un tratto che gli è mancata molto. La rivelazione lo
colpisce così inaspettatamente e così intensamente che quasi non
sente che Rose gli ha appena detto di amarlo.
Le
aveva mai detto di amarla a sua volta?
Non
gli serve formulare un pensiero di senso compiuto, ma solo cogliere
la pressione spiacevole contro il petto. È sempre stato un codardo,
e la distanza, la frustrazione di non poter rivedere la sua Rose ma
solo sentirla acuisce il rimpianto.
Gli
occhi pungono come mai prima d'ora ed è convinto di non poter
sopportare oltre la disperazione. È convinto di sentirsi pronto, di
poter fronteggiare il peso di quelle parole che sente così vere,
così chiare, così sue. Capisce che è giunto il momento di
dirglielo perché non ne avrà più tempo – ne ha già sprecato
abbastanza.
Prende
un respiro energico.
«Rose Tyler-»
Mentre il telefono emette un suono acuto che accompagna lo spegnimento improvviso, una lacrima rotola giù sulla guancia del Dottore.
Angolo
dell'autrice. Salve a tutti!
Innanzitutto
grazie per essere arrivati fin qui a leggere. È da tantissimo tempo
che questa storiella aspettava di essere conclusa, e finalmente sono
riuscita a riprenderla, a rivederla e a completarla. Il trionfo
dell'angst del finale della seconda stagione non mi bastava,
evidentemente, perciò ho deciso di dare un'ulteriore visione della
faccenda. Preciso soltanto che siamo in un universo alternativo in
cui non esistono Signori del Tempo, il Dottore è un essere umano
normalissimo con un cuore solo. John Smith non è, dunque,
Meta-Crisis.
Di
nuovo, grazie infinite per aver letto e grazie a tutti coloro che
vorranno fermarsi a lasciare un parere. Grazie anche a tutti coloro
che semplicemente apriranno la storia!
Alla
prossima,
Menade Danzante