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Autore: Anna Wanderer Love    01/06/2016    6 recensioni
Jemima Wright è un'ex agente dello S.H.I.E.L.D, licenziatasi dopo aver subito gravissime ferite provocate dal Soldato d'Inverno nel corso di una missione segreta.
Un anno dopo di ritrova a lanciare coltelli contro quello stesso Soldato nella sua cucina.
Perché il Soldato d'Inverno è così ossessionato da lei? Perché la controlla, la segue dappertutto? E, soprattutto, perché quando Jemima guarda quegli occhi scuri non sente rabbia, ma solo compassione?
[Dal testo:]
Si chinò, inginocchiandosi. Lo guardavo con le lacrime agli occhi e la bocca piena di sangue, ma ero determinata a non cedere.
Il suo sguardo si spostò sulla mia gamba, intrappolata sotto a pezzi di cemento.
Con uno scatto si spostò vicino alla mia anca e sollevò un piccolo masso. Il sollievo che provai nel sentire quel peso non gravare più sulla mia carne fu quasi violento, ma prima che potessi muovermi o trascinarmi via da quella trappola un palo di ferro rovinò sulla gamba.
Urlai con tutto il fiato che avevo, mentre il dolore esplodeva nella mia mente.
L’ultima cosa che vidi prima di svenire fu il bagliore del suo braccio di metallo.
(Bucky/Soldatod'InvernoxNuovoPersonaggio) (StevexNatasha)
Genere: Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nuovo personaggio, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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When Love arrives in the dark

(ka-kang su Rebloggy)

 

- Cazzo! - imprecai, finendo a terra per la seconda volta in pochi minuti. Trattenni un gemito di dolore mentre James rafforzava la presa sul mio povero braccio. Era praticamente seduto sulla mia schiena. Mi lasciò dopo qualche secondo.
- Ma come fai? - gemetti, rotolando sulla schiena per voltarmi verso di lui. James mi guardava dall’alto in basso, sulle labbra quella che sembrava la vaghissima ombra di un sorriso. Mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi, tirandomi su di peso con un fluido movimento del braccio e nessuna fatica.
- Sei fuori allenamento - mi fece notare, mentre mi allontanavo di qualche passo. Era piuttosto bravo ad evitare le domande.
- Lo so - risposi con un’occhiataccia - ma non posso farci nient... ah!
Non ci provai neppure, a difendermi. James mi afferrò di nuovo per il braccio e me lo torse dietro la schiena -di nuovo-, facendomi inarcare la schiena per il dolore. Di nuovo. Con il braccio di metallo mi cinse la vita in meno di un battito di palpebre e mi strinse al proprio petto, impedendomi di accasciarmi a terra. Sentivo il suo respiro sul collo, i suoi capelli sfiorarmi la pelle.
- Non puoi arrenderti - mi rimproverò, la voce piena di biasimo. Sbuffai, angosciata. Perché non mi mollava? E perché era così loquace? Sentivo il suo odore riempirmi i polmoni, e il profilo teso del suo addome contro le spalle.
- Non posso farci nulla! Sei troppo forte, tanto vale non provarci nemmeno.
James mi lasciò andare il braccio dolorante, ma posò le mani sui miei fianchi, tirandomi verso di lui in modo da far aderire la mia schiena al suo petto. E anche altri punti. Ma che gli prendeva?
- Jemima - mi redaguì contrariato. - Saresti già morta. Non puoi arrenderti, non importa la superiorità del nemico. Devi sempre combattere.
Gli lanciai un’occhiataccia.
- C’è un modo per darti un po’ di incoraggiamento?
Ci pensai un attimo, cercando di non distrarmi nel sentire le sue mani affondare nella pelle e reprimendo il brivido che mi corse giù per la schiena a quel tocco.
- Non so...
- Aspetta - mi interruppe lui. Mi lasciò andare e si voltò, sparendo dentro alla casa con lunghi passi felpati.

 

• • •

James sapeva che quello che stava per fare era scorretto, e molto. Molto molto molto scorretto.
Ma Jemima quella mattina era proprio giù di corda. Non gli aveva neppure sorriso, nemmeno una volta, il che era molto preoccupante. La sera prima si erano addormentati sul divano, e la mattina dopo James si era risvegliato come pochi giorni prima, sdraiato su di lei, le braccia raccolte lungo i fianchi della ragazza e la guancia premuta sul suo petto morbido.
Si era affrettato ad alzarsi prima che lei si svegliasse. Come pochi giorni prima.
Anche se molti pensieri confusi si agitavano nel suo cervello era riuscito ad accantonarli per l’allenamento. Ma a quanto pareva lei no. L’aveva spedita al tappeto una dozzina di volte, per così dire, dato che erano state molte di più, senza nemmeno sforzarsi. Certo, Jemima era fuori allenamento, ma nelle loro lotte recenti aveva dato prova di essere ancora capace di combattere strenuamente, anche se non era capace di tenergli testa a lungo.
James entrò nella camera della ragazza, mentre il suo sguardo vagliava la stanza. Finalmente trovò quello che cercava, lo afferrò e tornò veloce fuori, sul prato.
Sentendolo arrivare, Jemima si voltò perplessa, ma non appena si accorse di quello che teneva in mano sbiancò di colpo.
- Che stai facendo? - esclamò dopo qualche istante, precipitandosi verso di lui. James la placcò con un braccio e la spedì a terra. Con un ringhio furioso, completamente dimentica del dolore fisico, lei si rialzò.
- Ridammelo ora - sibilò.
James scosse la testa, sventolando il quadernetto sopra alle loro teste.
- Te lo darò solo quando sarò soddisfatto del tuo impegno.
Jemima non ci impiegò molto per attaccare, stavolta. Si lanciò contro di lui, colpendo il suo zigomo con un pugno ben assestato. James non si mosse di un millimetro, mentre lei barcollò, stringendosi la mano allo stomaco con espressione ferita.
- Ahi - esclamò.
James attaccò, veloce.
Non pensava; eseguiva. Pugni, parate e calci colpivano e proteggevano l’uno dall’altra. Anche se James era più forte, Jemima era veloce e sembrava aver trovato la concentrazione. Non furono poche le volte in cui sembrò persino essere in grado di eguagliarlo, spostandosi così velocemente che James si accorse un millesimo di secondo in ritardo di dov’era e che stava per colpirlo.
Quando lei lo centrava, lui ricambiava il colpo senza pietà, e viceversa. Dopo un po’ di tempo, Jemima si stufò.
Con un movimento rapido si spostò dietro al ragazzo e saltò, cingendogli il collo con le braccia, e strinse. Con un grugnito soffocato, James si chinò in avanti e la sbatté a terra, liberandosi della sua presa. Jemima gli afferrò la caviglia e lo fece sbilanciare; mentre lui cercava di recuperare l’equilibrio gli fu addosso con tutto il suo peso e riuscì a farlo cadere. Peccato che James l’avesse previsto e non appena la sua schiena toccò terra rotolò su sé stesso, finendo sopra alla ragazza. Le immobilizzò le braccia e le allargò le gambe, infilando le proprie tra di esse in modo da non rischiare di essere colpito da qualche calcio.
Si fermarono entrambi, ansimanti e sudati. Jemima lo guardò per qualche istante, poi sbuffò sonoramente e abbandonò la testa sull’erba. James la guardava, suo malgrado affascinato. Era bella anche stanca e scompigliata. I capelli biondi erano sfuggiti alla morsa dell’elastico e si erano sparpagliati attorno alla testa della ragazza in morbide spirali.
Il petto di Jemima si abbassava e si alzava velocemente, sfiorando il torace di James.
Di colpo, il Soldato si ritrovò a combattere con uno strano calore che gli nasceva in petto e scendeva fino al basso ventre.
Cosa diavolo sto facendo? si chiese inorridito, quando l’immagine delle proprie labbra che raggiungevano la pelle bianca del collo di Jemima gli balenò nella mente.
Con uno scatto si tirò in piedi, voltandole le spalle e aggrappandosi al legno della veranda. Le sue dita incisero il legno, sbriciolandolo. Non gli servirono i sensi amplificati per sentire il sospiro di Jemima, anche se non avrebbe saputo a cosa attribuirlo: confusione, tristezza... tristezza? Come poteva anche solo pensare che fosse dovuto a tristezza?
Le spalle di James erano scosse da fremiti. Non solo l’aveva quasi uccisa, ora pensava a lei in quel modo. Non conosceva i sentimenti, ma quello sì. Quello era un istinto animale, adatto ad un animale come lui, ad un mostro.
- James... - si scostò bruscamente quando lei gli posò la mano sulla spalla.
- Non toccarmi - ringhiò. - Abbiamo finito.
Con rapidi passi salì i due gradini della veranda, gettando a terra il quadernetto che aveva ancora in mano, e sparì in casa, con lo sguardo stupito e ferito di Jemima puntato sulla schiena.

 

JEMIMA:

Quella sera partimmo. Infilammo le cose essenziali in degli zaini comprati qualche giorno prima, e il resto lo buttammo a qualche chilometro da casa. Non potevamo lasciare nulla nella casa: se l’HYDRA fosse andata a controllare avrebbe sicuramente trovato le cose.
Era più o meno da un’ora che stavamo viaggiando in silenzio, e James non sembrava intenzionato a schiodarsi dal suo mutismo. Io, del resto, facevo del mio meglio per non sentirmi offesa.
Era scappato da me come se fossi un mostro. Come se... l’avessi disgustato.
A quel pensiero mi morsi il labbro, trattenendo un sospiro. Quella consapevolezza faceva male. Un sacco male.
Strinsi la presa sul volante, battendo le palpebre per liberarmi dal velo di lacrime che mi appannava la vista.
Premetti di più il piede sull’acceleratore. James si era procurato la macchina senza dirmi chi gliel’avesse ceduta, e avevo l’impressione che, se me l’avesse riferito, non mi sarebbe piaciuto molto. Perciò ero rimasta zitta. L’auto era ideale: un SUV di dimensioni medie, di un grigio argento metallizzato e con i finestrini oscurati.
- Jemima?
Trasalii sentendo la voce di James risuonare nell’abitacolo come una carezza. Dolce, contrita.
Serrai le dita sul volante, mio malgrado arrabbiata.
- Mi dispiace.
L’immagine di lui che si sollevava dal mio corpo si abbatté con forza nella mia mente. Il ricordo della sua espressione, dello sguardo grondante di disgusto che mi aveva lanciato mi trapassarono il petto con un dolore acuto. Strinsi i denti, sterzando bruscamente a destra verso un sentierino nascosto dalle erbacce che passava tra i campi.
James si aggrappò al sedile.
- Cosa succede? - chiese allarmato.
Non risposi, limitandomi ad accelerare.
- Jemima?
- Taci.
Vidi uno spiazzo tra gli alberi che si facevano più fitti. Infilai la macchina lì, mi slacciai la cintura e aprii la portiera.
- Scendi - ordinai secca. Chiusi la portiera con un bel tonfo e girai davanti al muso dell’auto, piazzandomi con le braccia sui fianchi pochi metri più in là, incazzata nera. Sentivo il cuore pulsare la rabbia al posto del sangue.
James obbedì e, con aria un po’ perplessa, mi raggiunse, fissandomi circospetto.
- Jemima, cosa succede?
Prima ancora che potesse anche solo pensare di aspettarsi una risposta, il mio pugno si abbatté sul suo zigomo con forza, facendolo barcollare un paio di passi indietro. Avrebbe potuto parare il colpo, ma non lo fece. Si portò una mano al volto, sbalordito, fissandomi come se fossi improvvisamente impazzita.
E non potevo dargli torto.
- Volevi che combattessi, no? Perfetto. Combatti! - ruggii, scattando in avanti e mollandogli un gancio destro. James indietreggiò. I suoi occhi erano un misto di stupore, rabbia, senso di colpa. Era bellissimo.
Non appena mi resi conto di quel pensiero una nuova ondata di rabbia mi percorse da capo a piedi.
- Jemi...
Lo colpii con un calcio al torace.
- COMBATTI!
James non si mosse mentre lo tempestavo di pugni, ma le sue mani si strinsero, i muscoli si contrassero. Spensi il cervello e lasciai che tutta la mia rabbia si abbattesse su di lui attraverso i colpi, e le parole.
- Allora? Non combatti contro una donna? O solo contro di me? - ad ogni parola, un colpo.
James cominciò a parare, senza attaccare. Ad ogni pugno, ad ogni calcio, mi bloccava e mi lasciava andare, spingendomi alcuni passi più indietro. I suoi occhi erano cupi, la sua postura rigida.
- Strano, sai? Perché non mi sembra che quella notte tu l’abbia fatto!
Un ringhio risalì dalle labbra di James. Mi afferrò il braccio e me lo torse dietro la schiena, facendomi urlare mentre una vampata di dolore mi infiammava il braccio. Inarcai la schiena, premuta sul suo busto, ma mi lasciò andare, spingendomi nuovamente più in là. Caddi a terra, ma mi rialzai, ansimando.
- Oh, poverino. Ti ho fatto incazzare? Ma che ti prende? Dov’è finito il mostro che mi ha quasi uccisa? - sibilai. Non realizzai nemmeno che cosa avessi detto, ebbi un solo secondo di preavviso prima che un pugno mi si abbattesse nello stomaco. Mi piegai in due, senza fiato, mentre James ruggiva al mio orecchio. Le sue mani si erano impresse nella carne delle mie braccia, così forte da farmi salire lacrime di dolore agli occhi.
- Non sono un mostro! - la voce graffiante era colma di disperazione.
- No, è quello che speri di non essere - soffiai tossendo, cercando di riprendere fiato. - Ma tu, tu sei un mostro!
James mi afferrò per le spalle e mi gettò a terra, caricando un pugno. I suoi occhi erano una pozza senza fondo, un buco pieno di rabbia, rabbia e solo rabbia. Una rabbia animale.
Parai il pugno a fatica. Mi sembrò di sentire il polso scricchiolare sotto alla sua forza, e quando James si liberò dalla mia presa vidi una scintilla di lucidità nei suoi occhi, di orrore per ciò che stava facendo. 
Lasciai andare le ultime parole che mi tenevo dentro da giorni.
- Tu mi hai uccisa - sputai. - Hai reso la mia vita un inferno!
James si avventò su di me. Gli tirai una testata che gli fece perdere per un attimo stabilità. Sgusciai via dalla sua presa, rantolando per il dolore. Era riuscito a colpirmi alla gamba, proprio dov’era la cicatrice.
Mi tirai in piedi ansimando, così come lui. Mi scagliai su di lui, sorprendendolo. Pensava che avrei chiesto di finirla? Be’, si sbagliava. L’adrenalina mi scorreva nel corpo, e con un urlo mi abbattei su di lui. Non sapevo nemmeno perché, davanti agli occhi rivedevo solo il fumo e il suo volto sopra al mio di quella notte. Volevo solo colpirlo, ferirlo, volevo vendetta. Rotolammo a terra, io sopra di lui e lui sopra di me, finché non riuscii a far leva sulla gamba e a posizionarmi sopra il suo petto.
Lo colpii con un manrovescio che gli fece voltare la testa, ma lui mi afferrò il fianco con una mano e con l’altra, quella metallica, mi agguantò per la gola, spingendosi sopra di me. Non avrebbe dovuto farlo.
Gli tirai un calcio nel basso ventre, abbastanza forte da fargli sentire dolore ma abbastanza piano per far sì che passasse dopo qualche secondo. James emise un gemito roco, e lo spinsi via, balzando in piedi. Ma un secondo dopo un braccio mi circondò il collo, stringendo e sollevandomi da terra. Rantolai, senza aria, e feci la prima cosa che mi venne in mente. Con un grido gli morsi il braccio -quello umano. James gridò qualcosa in una lingua strana, lasciandomi andare.
Mi voltai e gli saltai addosso, cademmo di nuovo a terra.
Bloccai le sue mani, facendo resistenza ai suoi movimenti con ogni singola cellula del mio corpo, puntando i piedi a terra, ai suoi fianchi.
L’adrenalina era sparita. C’era solo un grande vuoto. La rabbia era sparita, evaporata, e al suo posto c’erano solo i sensi di colpa e il dolore, sia fisico che mentale. La cicatrice pulsava, il fianco pure, il polso doleva come non mai, ogni muscolo tirava, e mi sentivo malissimo.
James ansimava, cercando di liberarsi dalla mia presa; e alla fine ci riuscì. Mi colpì con un pugno. Non reagii, nemmeno quando mi sovrastò, con un braccio sollevato in aria per abbatterlo sul mio volto. Chiusi gli occhi, in attesa del colpo, il fiato mozzo e il cuore a mille, il suo peso che gravava sul mio bacino.
Il pugno non arrivò. Al suo posto, ci fu l’oblio.

•••

James colpì la terra di fianco alla testa di Jemima con un urlo. La furia cieca sparì in un momento, lasciandolo tremante e svuotato.
- Jemima - mormorò. Lei continuò a tenere gli occhi chiusi.
- Jemima - posò la mano umana sulla sua guancia, accarezzando la pelle che pochi istanti prima aveva colpito. La sua voce si ruppe, frantumandosi in mille schegge di dolore.
- Jemima!
La scosse, ma lei si abbandonò inerte alla sua presa, la pelle calda sotto alle sue dita.
L’ho uccisa. L’ho uccisa.
James trattenne il panico, chinandosi sul suo volto e ascoltando il suo respiro.
È solo svenuta. È solo svenuta. È solo svenuta.
Si rannicchiò sul suo corpo, posando la testa sul petto di Jem, mentre un singhiozzo gli risaliva su per la gola. Era successo, era appena successo. Aveva perso il controllo, aveva fatto ciò che non avrebbe mai voluto che si ripetesse. Quella consapevolezza lo abbatteva, ma era conscio di doversi muovere. Respirò a fondo, alzandosi rapido dal corpo inerte della ragazza. Si abbassò, accucciandosi, posò la mano sulla sua schiena e con l’altra le afferrò l’incavo del ginocchio. Si alzò, nonostante sentisse ancora il dolore pulsargli nel torace e al basso ventre.
Riportò Jemima in macchina, deponendola con delicatezza sui sedili posteriori. Recuperò un cuscino da viaggio e glielo sistemò velocemente, ma con cura, sotto la testa, poi si mise seduto al posto di guida.
Appoggiò la testa al sedile, respirando a fondo.
Non sapeva cos’era successo. Non capiva.
James girò le chiavi e mise in moto.

JEMIMA:

Mi risvegliai con un forte dolore alla pancia. In effetti, sentivo dolore dappertutto. Con un gemito mi misi supina. Fissai il soffitto color bianco panna che stava sopra di me, prima di rendermi conto che ero in un letto matrimoniale, avvolta nelle lenzuola di uno splendido azzurro chiaro, morbide come la seta.
Girai la testa, ma tutto quello che vidi fu una porta e una scrivania.
Rinunciai a guardare dall’altro lato della stanza. Con un respiro profondo ignorai la fitta che mi percorse i muscoli e mi misi lentamente seduta. Inarcai un sopracciglio quando mi accorsi che davanti a me c’era un grande specchio a muro, e feci una smorfia quando mi accorsi che in realtà era un armadio.
Trattenendo un gemito mi alzai, barcollando un po’. Mi posizionai davanti al vetro, e alzai la maglietta.
Cazzo.
Un livido violaceo, attorniato da molti altri, si spandeva affianco all’ombelico, proprio nel punto in cui la carne doleva di più.
Un rumore mi fece trasalire, e girai la testa, in allarme.
Il fiato mi si strozzò in gola quando incrociai gli occhi sorpresi di James. Dopo un secondo, si chiuse la porta alle spalle, mentre i suoi occhi scivolavano da me al mio riflesso nello specchio. Mi accorsi troppo tardi di cosa stesse fissando, e arrossendo mollai la maglietta, che ricadde giù, coprendo di nuovo i lividi.
- Ti sei svegliata - aveva la voce leggermente roca. Annuii, senza voltarmi.
Le immagini di -quanto? Qualche ora prima?, mi attraversarono la mente. Ma come diavolo avevo fatto a perdere il controllo in quel modo?
Trasalii quando James mi afferrò e mi sollevò in aria, una sua mano sul fianco e l’altra, di metallo, a stringermi la gamba. Non mi ero nemmeno accorta che si fosse avvicinato, rapido e silenzioso come sempre. Avvampai, aggrappandomi alla sua spalla, senza avere il coraggio di guardarlo. Mi sentivo malissimo, e non solo fisicamente. James mi riportò al letto, appoggiandomi delicatamente sopra alle lenzuola. Il suo tocco era caldo e delicato; niente a che vedere con i colpi della sera prima. La luce entrava a fiotti dall’ampia finestra, lasciata scoperta, senza le tende tirate. Gli illuminava il viso, sospeso poco sopra al mio, addolcendo i lineamenti e rendendo ancora più chiari i suoi occhi. Si sedette sul bordo del letto, la schiena che sfiorava la mia anca.
- Jemima... io... mi dispiace.
Scossi la testa, girandomi sul fianco in modo da poterlo vedere meglio. Allungai la mano e gli sfiorai la guancia in una carezza, mentre la barba di pochi giorni mi solleticava il palmo.
- È stata colpa mia - dissi. Non mi sentivo in colpa. Forse avrei dovuto sfogarmi in modo civile, ma quel che era fatto era fatto. - Ti ho provocato... apposta.
Il suo volto espresse tutta la sua sorpresa.
- L’hai... l’hai fatto apposta?
Annuii. Gli spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Già. Almeno, all’inizio, ma non volevo... esagerare in quel modo. Poi... ho perso il controllo - mi sentivo estremamente piccola, sotto al suo sguardo penetrante e imperturbabile.
Lui rimase in silenzio per un po’. Poi indicò il mio ventre con un cauto cenno del capo.
- Non volevo lasciarti lividi, è che...
- È tutto a posto, davvero. Piuttosto... mi dispiace di... averti colpito... - non finii la frase, ma con un cenno del mento indicai la parte inferiore del suo corpo.
Una scintilla di divertimento guizzò nel suo sguardo, e arrossii.
- Non fa niente. È passato. Non fa più male.
Avvampai ancora di più, dandogli una piccola spinta che non lo smosse nemmeno di un centimetro. - Mi stai facendo sentire in colpa apposta? - esclamai indispettita. Dirlo mi venne naturale, senza doverci riflettere sopra.
La sua reazione fu la cosa più bella che mi fosse mai successa. Rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere, non un ghigno, ma una risata vera. Mi ritrovai a contemplare i suoi lineamenti morbidi, tesi in un’espressione che aumentava la sua bellezza di cento volte.
Abbassai lo sguardo, sorridendo, ma il suo dito mi sollevò il mento. Rimasi senza fiato: era vicinissimo.
- Non è vero quello che ho detto - mormorò, posando la fronte contro la mia. - Sei brava a combattere. Mi hai tenuto testa... hai tenuto testa al Soldato d’Inverno - la sua voce si tinse di amarezza.
Non riuscii a farne a meno. Mi sollevai su un gomito, i muscoli che contraendosi urlavano di dolore, appoggiandogli una mano sulla guancia. I suoi
 occhi azzurri mi fissarono sorpresi.

- Non è vero - dissi dolcemente - io ho tenuto testa a James.
Le sue labbra si schiusero stupite, e sorrisi. Il suo sguardo si abbassò e io arrossii, cercando di tirarmi indietro di scatto, ma la sua mano si chiuse sul mio polso. James mi tirò più vicino a sé, sul bordo del letto. Appoggiò la mano metallica sul mio fianco e chinò la testa, fino a posarla sul mio petto. Repressi un brivido e gli accarezzai la nuca, chiudendo gli occhi e baciandogli i capelli. Il suo respiro era un refolo sulla mia pelle.
- Sai che non sei un mostro, vero? - sussurrai. Lui non si irrigidì. - Sei un uomo che si è perso. Sei un uomo che sopravvive, un uomo che diventa migliore ogni giorno che passa.
- Come fai a saperlo? - mormorò lui sulla mia pelle.
- Perché io ti sono accanto, James, e lo vedo - risposi con dolcezza. - Sono tua amica.
Il suo braccio mi cinse la vita, sfiorando la curva della parte bassa della mia schiena.
- Ho sempre voluto un’amica - bisbigliò.

Mi addormentai.
E mi svegliai sdraiata su di lui, acciambellata sul suo petto, le gambe insinuate tra le sue, la guancia premuta sul suo petto nudo. Quando riaprii gli occhi, emergendo dalla dolcezza di un sogno che non ricordavo, sentivo un piacevole tepore circondarmi.
Quando, poi, capii dov’ero, il mio cuore decise di battere a un ritmo tutto suo.
La sua mano era scivolata lungo la mia coscia, nel sonno. Quando cercai di scivolare via senza svegliarlo, lui si mosse, profondamente addormentato, sfiorandomi l’interno della gamba. Sussultai, ma lui non si svegliò comunque.
Ma diavolo.
Provai a cadere al suo fianco anziché alzarmi, ma non ottenni grandi risultati.
Riuscii a sdraiarmi accanto a lui, ma prima che potessi rotolare via si spostò sul fianco, seguendo i miei movimenti, e mi passò un braccio attorno alla vita, tirandomi contro il suo petto, la sua mano pericolosamente vicina al mio basso ventre.
Rassegnata, provai a non morire d’imbarazzo e mi arresi ad aspettare che lui si svegliasse.
Ci volle un po’, ma in effetti non fu spiacevole.
La presa di James era gentile persino nel sonno, il suo petto si sollevava, incontrando la mia schiena ogni volta che espirava, e il suo braccio metallico era allungato sopra alle nostre teste.
Passarono più o meno una quarantina di minuti prima che lo sentissi muoversi.
Chiusi gli occhi, facendo finta di dormire, e pochi secondi dopo sentii uno sbadiglio soffocato. Quel suono mi fece quasi scappare un sorriso. Quasi.
James mosse il braccio, spostando la mano verso il mio sterno, ma lo sentii immobilizzarsi.
Mi venne la pelle d’oca quando sentii il suo respiro sulla pelle. Per fortuna ero raggomitolata  sotto le coperte, così non poteva vederla.
- Jemima - sussurrò con voce fioca.
La sua mano sinistra scese ad accarezzarmi esitante una ciocca di capelli sparsa sul cuscino.
Sentendo la sua presa farsi più salda, mentre lui mi tirava più vicina, facendo aderire dei punti particolari, decisi che non avevo più motivo di fingere di dormire. Ma prima che potessi parlare James premette le labbra sulla mia nuca.
- Mi dispiace di essere un mostro.
Sentii il mio cuore frantumarsi assieme alla sua voce.
- Mi dispiace di averti ferita. Vorrei tanto essere l’eroe che ero prima di cadere da quel ponte. Ma quell’uomo, Bucky, è... è come se fosse un estraneo.  È  come se fossi nato in questo corpo, capisci? Io sono nato, a causa del dolore, delle torture, delle missioni, ho cambiato l’eroe che c’era prima di me, e lui è morto. Sono sempre io, ma cambiato, e... mi sento in colpa, perché lui era migliore di me. Molto. Ho... ho provato ad essere diverso, e ci sono riuscito, su quel divano, sul tuo letto, quelle sere. Sono riuscito a far riemergere... lui. Ma prima... quando ho perso la calma... non ero io. Non ero lui. Ero di nuovo il Soldato d’Inverno. Non posso restare ancora con te, ti metterei solo più in pericolo. Devo andarmene.
Le lacrime premevano per uscire, per scorrere sulla mia pelle arrossata. La mia gola era gonfia e temevo che potesse scapparmi un singhiozzo. Il groppo in gola era doloroso da mandare giù.
Le labbra di James premettero sull’incavo della mia spalla, e sentii la mia pelle andare in fiamme, mentre un dolore straziante si faceva strada nel mio petto.
- Grazie per aver cercato di aiutarmi... me ne ricorderò sempre. Mi dispiace.
Mi lasciò andare e sentii l’improvvisa mancanza del suo calore, delle sue braccia, del suo petto. Una lacrima mi sfuggì al controllo, ma le mie labbra serrate non lasciarono uscire nessun suono.
Il materasso si sollevò improvvisamente, sotto alla mancanza del peso di James. Lo sentii andare dall’altra parte della stanza, infilarsi la maglietta. Volevo disperatamente fare qualcosa, muovermi, ma era una sua scelta. Era lui che decideva per se stesso, non io per lui.
Era la sua vita, e se riteneva di dovermi lasciar andare, non gliel’avrei impedito.










 
Spero non mi odierete troppo per la fine,
ma deve andare così. Grazie alle meravigliose persone che mi hanno fatto sapere il loro parere!
Ci vediamo al prossimo capitolo! 
Anna
P.S: la scuola sta finendo, quindi aggiornerò -probabilmente- più in fretta!

 
   
 
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