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Autore: Adeia Di Elferas    01/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 La basilica di San Marco in Firenze, attanagliata dal caldo torrido di quel primo giorno d'agosto, era gremita di gente. I fedeli erano talmente stipati che un paio di loro per poco non si sentirono male per colpa del caldo e dell'emozione, quando il frate domenicano Girolamo Savonarola salì sul pulpito.
 L'uomo puntò il naso adunco verso i presenti e, dopo essersi preso qualche istante per chiedere aiuto a Dio, allargò le braccia e attaccò il suo discorso: “Fratelli e sorelle!” tuonò, catturando subito l'attenzione di tutti, perfino di quelli che stavano boccheggiando per via dell'afa.
 Le sue parole sull'Apocalisse e sulla Prima Lettera di Giovanni fluivano come una marea impetuosa, travolgendo gli animi semplici dei fiorentini che erano accorsi in San Marco solo per sentire di nuovo quel frate dall'aspetto mesto e dalla voce tonante.
 “Se non vi sarà rinnovamento – disse a un certo punto il frate – la Chiesa smetterà di essere Chiesa! Se non prenderà tra le mani la frusta, infliggendosi una flagellazione volontaria, la Chiesa non tornerà mai sulla retta via! Se la Chiesa, quella delle sale dorate e degli abiti di seta, non si redimerà, non sarà più Chiesa!”
 Qualcuno strabuzzò gli occhi nel sentire un'invettiva tanto coraggiosa e tanto fuori dal coro.
 Un conto era predicare la povertà, la sobrietà a la penitenza per i comuni fedeli, un altro era prendersela coi ricchi prelati e con Roma.
 “Niente è di buono, nella Chiesa...” proseguì Savonarola, la voce appena più spenta, pregna di delusione e dolore: “Dalla piante del piede, fino alla sommità, non v'è santità, in quella.”
 Qualche breve esclamazione di sorpresa si spanse nella basilica, ma il frate non vi fece caso: “Chi vi dovrebbe guidare, dall'esempio degli antichi, al signore di questa città, non ha con sé il messaggio di Dio e per questo indulge in vizi e avarizia e vi trascina nel gorgo, senza possibilità di scampo!”
 La voce del domenicano si era fatta di nuovo forte come quella della tempesta e il pubblico non tardò a infervorarsi e altrettanto fece lo stesso Savonarola: “I potenti, che amano il potere sopra ogni altra cosa, subendone il fascino diabolico e satanico...! Queste genti che si riempiono la bocca di versetti immondi e poesie, così le chiamano, ricche d'ogni peccato e povere della parola di Dio, queste genti sono la nostra rovina! Parlano e cantano e si lasciano prendere dal maligno, soggiogati e sedotti dalle sue forme, mentre è l'orazione, quella santa che si innalza a Dio l'unica vera strada da percorrere! E il padre dell'orazione è il silenzio, e la sua madre è la solitudine!”
 Il domenicano lasciò ai fedeli il tempo di gridare il loro appoggio e la loro fede e così continuò a lungo, fino a che ebbe voce nella gola, trascinando quei disperati verso la luce, nella speranza che Dio mostrasse loro la via da seguire, tenendoli per mano e impedendo loro di perdersi ancora una volta.

 La lettera con cui Ludovico il Moro informava sua nipote Caterina della morte della loro parente, Maddalena Gonzaga, portò un'aria mesta a Ravaldino. A rendere il tutto ancora più penoso era lo stile scarno usato dal reggente del Duca di Milano, che aveva trattato quella notizia con una freddezza che aveva lasciato di stucco tanto Caterina, quanto sua sorella Bianca.
 'L'ottavo giorno di questo agosto – aveva scritto Ludovico – la moglie di mio nipote Giovanni, Maddalena Gonzaga, è morta nel dare alla luce un figlio. Inutili sono stati i tentativi dei medici di salvare il piccolo e la madre.'
 “Che cosa orribile... Non posso immaginare nulla di più triste...” aveva sussurrato Bianca, mentre Caterina leggeva a voce alta la stringatissima missiva del Moro.
 “Aspettare un figlio dovrebbe essere un evento lieto, non un rischio per la propria vita.” aveva rincarato Bianca, quando la lettura era finita.
 Caterina aveva avvertito un brivido di freddo lungo la schiena, come se quell'affermazione, apparentemente casuale, fosse in realtà un qualche oscuro presagio. Cercò di non pensarci, scacciando l'idea dalla mente, riflettendo che su sei figli, non ne aveva perso nemmeno uno e che bene o male tutte le sue gravidanze erano arrivate a termine senza grossi problemi, benché non avesse mai badato molto a riguardarsi. A maggior ragione, ora che stava difendendo il piccolo che portava in grembo con tutte le sue forze, nulla di male avrebbe potuto accadere.
 “Bisognerebbe pensarci bene, prima di trovarsi ad aspettare un figlio.” soggiunse Bianca, con un ultimo sospiro accorato.
 Caterina si accigliò: “Hai ragione, è una decisione che andrebbe soppesata con cura.” poi sferrò l'attacco: “Tu e Tommaso non state pensando di avere figli?”
 Bianca scosse subito il capo: “Per il momento preferisco di no, sono troppo giovane.”
 Caterina annuì, dandole silenziosamente ragione. Quando era nato il suo primo figlio, Ottaviano, aveva a mala pena sedici anni e, anche se molte donne partorivano anche più giovani, trovava che sedici anni fossero comunque pochi.
 “Non saprei gestire un figlio adesso.” proseguì Bianca, con sincerità: “Rischierei di non essere in grado di crescerlo come si deve, e quando un figlio si guasta, è difficile farlo rinsavire.”
 Caterina valutò le parole della sorella, che in parte la mettevano di fronte al fatto che per lei era stato esattamente così con Ottaviano. Il loro rapporto era partito male e non si era mai risanato davvero, anzi, non aveva fatto altro che incrinarsi sempre di più.
 “Risponderò subito a nostro zio e lo pregherò di fare le condoglianze a Giovanni Sforza anche da parte tua, se vuoi.” propose Caterina, con un tono appena più leggero.
 Bianca sorrise: “Grazie, ci terrei molto.”
 
 L'agosto stava rendendo Forlì e le terre vicine un piccolo forno, in cui i campi seccavano e le teste dei cittadini ribollivano come acqua sul fuoco.
 Bernardi faticava a ricacciare al mittente le dicerie sulla Contessa e, non sapeva proprio dire come, stavano arrivando delle conferme sulle relazioni 'disordinate', così le chiamavano, della signora di Forlì, perfino dalle corti più lontane, come quella di Milano.
 Qualcuno commentava che Caterina Sforza, così come suo zio Ludovico il Moro, aveva appetito e non esitava a saziarlo. I più informati sostenevano che il vizio di famiglia era ancora più evidente, da quando anche il Duca di Milano, Gian Galeazzo, aveva smentito tutte le menzogne sulla sua incapacità di generare un erede.
 Il Novacula non voleva impensierire la sua signora più di tanto, perciò le filtrava le notizie con una certa delicatezza, cercando di evitare i dettagli più offensivi e quelli più scabrosi, ma si rendeva conto che prima o poi anche lei avrebbe sentito quelle chiacchiere.
 
 Luffo Numai stava prendendo appunti in modo scrupoloso, ignorando le gocce di sudore che gli scendevano dalla fronte fino alle folte sopracciglia.
 La Contessa quel giorno pareva particolarmente provata dal caldo e di quando in quando si lasciava sfuggire un breve sospiro, come se le mancasse il fiato. Se ne stava seduta sulla poltroncina imbottita e stava dettando al segretario tutte le missive da spedire sia fuori sia in Forlì.
 Si trattava per lo più di messaggi di ordine economico, come aggiustamenti sulle tasse da comunicare ai riscossori, o risposte ad alcune questue dell'ultimo mese. Per l'estero, invece, la Contessa stava facendo scrivere alcune lettere di convenevoli, di quelle che di quando in quando doveva spedire per mantenere relazioni distese con tutte le corti vicine, e una di condoglianze per la morte di Maddalena Gonzaga.
 “Ribadiamo quindi le nostre più sentite condoglianze e il nostro partecipato cordoglio – stava sillabando Caterina, lo sguardo lontano e le mani in grembo – per la prematura dipartita della nostra cara Maddalena...”
 Lasciò qualche secondo a Numai per riuscire a mettersi in pari, e intanto si trovò a fare una curiosa considerazione. Non che la povera Maddalena c'entrasse davvero qualcosa, ma il suo cognome, la sua parentela, per quanto non del tutto immediata, con Gabriella Gonzaga, aveva riportato alla mente di Caterina dei ricordi molto spiacevoli.
 Mentre Luffo faceva grattare la punta della penna sulla pergamena, Caterina ritornò con il pensiero ai giorni concitati in cui Gabriella Gonzaga si era presentata al palazzo di Porta Giovia, per perorare la sua causa e difendere la figlia da un matrimonio sciagurato e imposto con la forza.
 All'epoca Caterina non aveva capito che quell'opposizione fatta di Gabriella l'avrebbe condannata...
 “Mia signora...?” fece piano Luffo Numai, che si era finalmente portato in pari col dettato.
 Caterina fece un profondo respiro e, cercando di concentrarsi sul presente, riprese: “Vi rinnoviamo la nostra amicizia e la nostra vicinanza. Anche nostra sorella, Bianca Landriani, vuole esprimere il suo sentito rammarico per la sorte di vostra moglie e vi manda tutto il suo sostegno.” poi agitò la mano in aria: “E chiudetela con le solite frasi in cui siete tanto bravo.”
 Il segretario si dilungò in cordiali saluti e sentite dichiarazioni di affetto, poi lasciò lo spazio per la firma della Contessa e passò oltre.
 “Ora dovremmo rispondere al Consiglio degli Anziani di Faenza.” disse Numai, con voce incerta, ben rimembrando come la Contessa si fosse adombrata, nel ricevere la lettera dai faentini.
 Caterina si fece scura in volto anche quella volta: “Sì, è ora di rispondere.”
 Nella loro missiva, gli Anziani di Faenza avevano proposto di ufficializzare un 'legame che tanto alla fine si creerebbe comunque' tra la figlia di Caterina, Bianca, e il piccolo Astorre Manfredi.
 Caterina aveva deciso fin da subito come rispondere, ma aveva preferito prendersi un po' di tempo, per evitare di essere troppo dura con le parole. Per quanto disprezzasse il nuovo governo faentino, sapeva bene che dietro agli Anziani si celava il Magnifico e che con il Magnifico non si poteva scherzare.
 La sera stessa del giorno in cui aveva ricevuto la proposta ufficiale di stipulare un contratto di fidanzamento tra sua figlia e Astorre, ne aveva parlato anche con Giacomo
 “Che male ci sarebbe?” aveva chiesto il ragazzo, non vedendoci nulla di male.
 Per quanto non ne avesse esperienza diretta, sapeva bene che tra nobili era normale far fidanzare i bambini, in vista di una matrimonio che si sarebbe celebrato a distanza di anni. Era politica, così dicevano.
 “Bianca non ha nemmeno nove anni.” gli aveva ricordato Caterina, scuotendo con forza il capo.
 Giacomo, a quel punto, aveva intuito quali fossero le perplessità della sua donna, ma anche così non riusciva a capire dove stesse il problema: “Sì, ma Astorre ne ha ancora meno, dunque non c'è pericolo, per tua figlia. In più, dimmi se sbaglio, sarebbe un fidanzamento, per ora, non un matrimonio.”
 Caterina lo aveva guardato un momento, mentre le dita lunghe e sottili di lui cominciavano a massaggiarle la schiena, per farla rilassare. Non era facile spiegare a uno come Giacomo che lei non voleva impegnarsi con Faenza perché nutriva ancora astio nei confronti di quella città per colpa di quello che era stato fatto al Bergamino.
 Così ci aveva rinunciato e aveva concluso: “Per ora non mi voglio impegnare con Faenza. Per mia figlia voglio un uomo di qualità. Astorre è ancora troppo piccolo per capire che uomo diventerà.”
 “Però – aveva soppesato Giacomo, smettendo per un attimo di massaggiarla – sarebbe bello, no? Facendo sposare Bianca e Astorre, potresti unire le tue città con Faenza e...”
 “No.” l'aveva interrotto subito Caterina: “Astorre Manfredi potrebbe ottenere Imola e Forlì, non mia figlia Faenza. Ottaviano non avrebbe più nulla e i Manfredi riuscirebbero finalmente a strapparmi le mie terre senza dover nemmeno alzare una spada.”
 Giacomo aveva fatto una smorfia e aveva lasciato cadere il discorso, passando a qualcosa di molto più piacevole: “E questo piccolino?” aveva chiesto, accarezzando la pancia della Contessa: “Come sta?”
 “Dunque, mia signora?” domandò Luffo Numai, con pazienza.
 Aveva compreso che quel giorno la Contessa aveva la testa altrove e che essere troppo esigenti con lei non avrebbe portato a nulla. Avrebbero finito tardi di sbrigare la corrispondenza e basta. A volte un segretario doveva sapere essere paziente quanto un padre.
 “Dunque scrivete che declino l'offerta. Il fidanzamento per ora è fuori questione, ma scrivetelo in modo che non sembri un no definitivo. Obiettate dicendo che mia figlia, anzi, che il loro Astorre è ancora troppo piccolo e che ci sarà molto tempo per decidere queste cose.” decretò Caterina: “E concludete rinnovando la nostra più sentita alleanza, come sempre...”
 Luffo Numai annuì e intinse la penna nel calamaio, ben sapendo come imbastire una lettera del genere.
 
 “No, non credo che mio fratello farebbe mai la spia su una cosa del genere...” stava dicendo Giacomo, a voce bassa, appoggiato a uno dei pali per i cavalli: “Perché lo pensi?”
 Caterina si morse il labbro: “Perché a parte lui, l'altra persona di cui ho sospettato è mia sorella...”
 I due si guardarono un momento, senza sapere che altro dire. Agosto era al suo apice e il caldo rendeva il cortile d'addestramento invivibile, mentre l'umidità trasformava la maggior parte delle sale della rocca in un ambiente decisamente inospitale.
 Caterina aveva approfittato dell'ambiente assonnato di quel pomeriggio per andare nelle stalle a parlare con Giacomo. Difficilmente qualcuno li avrebbe visti e comunque nella rocca, ormai, a nessuno sarebbe parso poi così strano vederli chiacchierare assieme.
 “Non ti viene proprio in mente nessun altro che possa aver fatto la spia?” insistette Giacomo, incapace di credere che Tommaso, il fratello maggiore che tanto aveva stimato e venerato, potesse averlo tradito così.
 Caterina alzò le spalle, e con quel movimento, per un istante, si intravide il ventre rigonfio, sotto la veste.
 “Ieri ho visto Tommaso parlare con tuo figlio Ottaviano...” buttò lì Giacomo: “Non pensi che potrebbe...”
 Caterina scartò sul nascere l'idea. Anche se aveva scoperto il suo primogenito tenerla d'occhio di nascosto in più di un'occasione, non poteva pensare che un ragazzino come lui avesse avuto lo spirito di prendere carta e inchiostro e scrivere al Moro.
 “Ma cosa diceva tuo zio nell'ultima lettera?” domandò Giacomo, scacciando una mosca con la mano.
 Caterina sospirò e, guardando distrattamente i cavalli che sonnecchiavano lì accanto, rispose: “Per riassumertela in una frase, ha scritto: voi credete di portare le brache invece della sottana, ma il mondo non vi perdonerà certi errori.”
 Giacomo si era accigliato, incrociando le braccia sul petto. Da quando si erano conosciuti, il ragazzo si era fatto un pochino più massiccio. Il fisico esile da diciassettenne stava lasciando il posto a una struttura più solida, ma ancora armoniosa e in quell'estate, coi suoi diciannove anni, quasi padre e orgoglioso della sua donna, Giacomo non avrebbe avuto nulla da invidiare a nessun gentiluomo di città. O almeno, questo pensava Caterina ogni volta che si perdeva a osservarlo.
 “In pratica – parafrasò la Contessa, vedendo che gli occhi del ragazzo restavano un po' spaesati – mi ammonisce dicendo che se fossi un uomo, nessuno mi farebbe una colpa, se avessi un amante e magari pure un figlio fuori dal matrimonio.”
 Giacomo si puntellò contro il palo: “Dunque secondo te qualcuno gli ha anche scritto che aspettiamo un figlio?”
 Fu la volta di Caterina di corrucciarsi: “Se fosse così, non vedo chi altri potrebbe aver divulgato la notizia, se non mia sorella o tuo fratello...”
 “E che intendi fare per impedire loro di fare altri danni?” chiese Giacomo.
 Caterina ci aveva pensato a lungo, tanto che nel corso una breve discussione, durante un acceso scambio di battute in cui lei e Bianca si erano vicendevolmente dette che la rocca era troppo piccola per tutt'e due, la Contessa aveva anche proposto alla sorella di trasferirsi con il marito nella tenuta del Bosco. Non era una magione immensa, ma era più che dignitosa. Caterina l'aveva personalmente donata alla sorella come dote quando si era sposata, dunque era anche tempo che i due sposi vi andassero.
 Benché Bianca avesse in effetti provato a convincere Tommaso a consegnare le dimissioni per ritirarsi a vita privata al Bosco assieme a lei, il castellano aveva rifiutato immediatamente e così la cosa era naufragata subito.
 “Farò un ultimo tentativo bonario, ma poi dovrò fare a modo mio.” concluse Caterina, scura in viso.
 Giacomo le prese un istante la mano e gliela strinse, in segno di accordo e fiducia. Gli faceva un po' paura, quando parlava a quel modo, ma il suo essere tanto sicura di sé era parte del suo sconfinato fascino.

 Caterina aveva appena ordinato alla moglie di Bernardino di portarle il necessario per una tisana e la donna era uscita dal Paradiso veloce come un fulmine.
 “Come ho fatto a dimenticarmi le mie erbe...” si rimproverò Caterina, scuotendo il capo, contrariata per la propria sbadataggine: “Ho qui l'acqua calda e non le erbe... Ma dove ho la testa...”
 Giacomo, seduto sul divanetto poco lontano, non la stava ascoltando. Era rimasto folgorato da una verità che fino a quel momento non lo aveva mai colpito così tanto.
 Stava giocherellando con un nastrino che si era staccato da una delle vestaglie della Contessa e aveva seguito la scenetta che si era appena consumata davanti a lui con un interesse del tutto nuovo.
 Non potendosi più trattenere, mentre Caterina cominciava il suo rituale serale di bellezza davanti allo specchio, Giacomo constatò: “Deve essere bello, avere potere.”
 Caterina si bloccò, con la mano piena di crema profumata a mezz'aria e guardò il riflesso sfuocato di Giacomo nel piccolo specchio: “Tu sai cos'è il potere?” chiese, calma, ma allerta.
 Giacomo fece uno sbuffo divertito, alzandosi in piedi, tormentando il nastrino, annodandolo e tirandolo: “Dire agli altri cosa vuoi che facciano, e vederglielo fare!” fece schioccare il cordino in aria: “Come adesso. Hai detto alla tua cameriera di andarti a prendere le erbe per il tuo infuso, e lei è corsa fuori all'istante, senza poter nemmeno dire 'a'!”
 Caterina stinse le labbra, cominciando a spalmarsi il viso con la crema, e poi ribatté: “Questo è solo uno dei mille volti del potere.”
 “E gli altri quali sarebbero?” domandò Giacomo, molto scettico.
 Caterina restò un momento spiazzata da quella superficialità, ma si affrettò a rispondere, prima che tornasse la serva: “Avere potere significa anche dover sacrificare la propria vita privata per quella pubblica, prendere decisioni che potrebbero ripercuotersi contro di te o contro chi ami, e...”
 La voce di Caterina si era spenta improvvisamente, appena tutte le pene che la ragion di Stato le aveva arrecato le avevano riempito la mente.
 “E...?” la incalzò Giacomo, che teneva ancora tra le dita il nastrino, ma che non misurava più a larghe falcate la camera.
 “Ricordi Bergamino?” domandò Caterina, guardandolo con la coda dell'occhio.
 Giacomo gonfiò le guance, poi ammise: “Solo vagamente...”
 “Il mio potere l'ha ucciso.” spiegò la Contessa, senza mezzi termini.
 “Che intendi?” chiese il ragazzo, corrugando la fronte, mentre nel frattempo cercava di ricordare almeno che faccia avesse quel Bergamino di cui parlava la sua donna.
 “Che se non l'avessi mandato a Faenza, non sarebbe morto quel giorno. E ho potuto mandarlo perché ho esercitato il mio potere.” fece Caterina, sperando di essere abbastanza chiara.
 Giacomo stava abbassando gli angoli della bocca, in un'esternazione di mancata comprensione, quando la moglie di Bernardino rientrò al Paradiso, con le erbe della Contessa e così il discorso morì all'istante e non venne più sollevato da nessuno dei due.

   
 
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