CAPITOLO 11
Questa è la prima volta che la mia memoria vacilla, in questo
mio voler ripercorrere i miei ricordi di un passato ancora piuttosto recente.
Non avevo chiaro neppure al momento in cui il fatto si svolse
se io avessi inteso bene e se avessi realmente vissuto quel flash di scene, e
se per davvero avessi origliato qualcosa d’importante. Ma, alla luce dei fatti
futuri, sono sempre convinto che sì, io quella notte avevo sentito bene e nulla
era frutto della mia immaginazione.
Stava di fatto che, dopo essermi leccato le mie ferite
interiori e aver studiato un po’, perlopiù letto poiché i miei sentimenti e la
mia umiliazione non mi permettevano di concentrarmi troppo, quella stessa sera
in cui avevo dovuto far fronte all’invasione del mio rifugio e alla violenza
del mio nemico riuscii ad addormentarmi senza difficoltà, quasi a sorpresa.
Calai quindi in un sonno leggero, agitato e ricco di sogni, che tendevano a
tramutarsi in incubi.
Attorno a metà nottata, mi svegliai di soprassalto, senza
però uscire dal mio stato di pesante sonnolenza, e guidato da un impellente
bisogno di andare in bagno, fui costretto ad uscire dalla mia stanzetta.
Tenendo socchiusi gli occhi e muovendomi per casa senza accendere le luci, in
modo da non risvegliare totalmente i miei sensi, mi affidai alla luce fioca dei
lampioni che, entrando dalle finestrelle della scala, illuminava pacatamente i
luoghi che dovevo attraversare.
Per raggiungere il bagno, dovevo affrontare un percorso un
po’ scomodo, poiché esso si trovava al piano inferiore, visto che quello al
piano superiore era a disposizione dei nostri affittuari, quindi scesi le scale
con lentezza, sempre tenendo gli occhi socchiusi, e come un automa giunsi
finalmente al bagno.
Fortunatamente, non mi gettai subito sulla maniglia della
porta, poiché udii un parlottio proveniente dal suo interno. Credevo si
trattasse di mia madre, eppure non l’avevo mai sentita parlare da sola, e
bisbigliare in quel modo così concitato. E la voce mi sembrava maschile.
Allungai la testa ed appoggiai il mio orecchio destro contro
il legno della porta; il parlottio mi giungeva attutito, quasi distante, eppure
qualche frase la potei udire chiaramente. E, ovviamente, potei anche capire che
non era mia madre colei che si era chiusa dentro al nostro bagno, bensì
Federico. Il suo bagno era al piano superiore, e il fatto che si recasse nel
nostro mi dava molto fastidio, e non potei non chiedermi il perché di quella
scelta.
In realtà, feci in fretta a conoscere la risposta. Il bagno a
disposizione sua e dei suoi familiari era posizionato al lato opposto della mia
stanza, ed era appiccato alla camera dei suoi genitori. Quindi, se lui voleva
chiacchierare al telefono senza essere udito, il nostro bagno al piano
inferiore si rivelava essere per davvero il luogo perfetto, poiché lì dentro
poteva nascondersi senza essere scoperto, visto che raramente sia io che mia
madre ci alzavamo durante la notte, a volte anche a costo di lottare un po’,
imparando a resistere ai bisogni pur di non sfatare la nostra pigrizia notturna
e di non perdere il sonno.
Mestamente e cercando di non fare rumore, avvicinai il mio
orecchio al legno della porta, e potei udire la voce stanca ed assonnata del
mio coetaneo, che cercava di convincere qualcuno a far qualcosa. Il tutto mi
era ignoto.
‘’Te l’ho detto, oggi pomeriggio mi è arrivata quella roba…
nessun rischio, dai! Se volete… no, per ora ho parlato anche troppo, magari ci
accordiamo domani… a domattina, ora ormai è notte fonda e voglio andare a
chiudere un occhio…’’.
Udendo quelle parole, dopo essere rimasto per un po’ ad
origliare, mi ritrassi dalla porta, e a passi felpati mi diressi prontamente
verso il piano superiore. A quanto pareva, Federico stava per concludere una
qualche conversazione telefonica, e non volevo farmi trovare nei paraggi del
bagno o in giro per casa.
Il mio cuore batteva all’impazzata mentre, con attenzione,
cercavo di raggiungere la mia stanza da letto, ed avevo il timore che i suoi
battiti facessero frastuono come i tuoni di un temporale, dal tanto che
risuonavano nel mio petto e nella mia mente.
Salii rapidamente le scale, giusto in tempo per udire il
rumore attutito della serratura del bagno del piano inferiore che scattava, e m’infilai
nella mia camera richiudendo in fretta la porta, stando sempre attento a non
fare alcun genere di rumore.
Solo quando mi fui nuovamente barricato al sicuro, e fui
certo che il mio nemico non doveva essersi accorto di essere stato spiato, tirai
un sospiro di sollievo, mentre il mio cuore pian piano quietava i suoi battiti
folli.
Tornai in fretta sotto le coperte, ormai incurante del
bisogno fisico che mi aveva spinto a scendere al piano inferiore, e spensi la
luce, coprendomi per bene con le lenzuola e riflettendo. In realtà i miei
bisogni li potevo ancora sentire in tumulto dentro me, mentre mi rivolgevano
qualche dolorosa richiesta, però in modo meno impellente, poiché la mia mente
era tutta concentrata sul discorso che avevo avuto modo di udire poco prima.
Federico di certo si era nascosto a parlare al cellulare
dentro al nostro piccolo bagno per essere sicuro di non venir udito dai
genitori, nascondendosi anche nel luogo meno trafficato di casa mia. Inoltre,
solo in quel momento mi venne da chiedermi cosa intendesse il mio coetaneo con
la parola roba. E poi, quel pomeriggio era andato a pranzare fuori con amici,
non a prendere qualcosa. A meno che tutto non fosse poi così limpido e chiaro
come avevo voluto vederlo io fino a quel momento, ma che si trattasse proprio
di quel genere di roba.
Volli allontanare quella supposizione malevola, forse
eccessiva e dalla parvenza ancora infondata.
I movimenti loschi del mio nemico, le domande di Roberto che
mi avevano tormentato durante il pomeriggio del giorno precedente, le chiamate
segrete, la prepotenza in generale, tutto ciò non mi lasciava tregua e si
sovrapponeva nella mia mente. I miei pensieri erano diventati tutto a un tratto
una sorta di vortice, che mi spingeva giù, verso un punto a me sconosciuto.
Senza poter riflettere oltre, tornai a sprofondare nuovamente
in un sonno agitato, che mi avrebbe lasciato poi piuttosto confuso al risveglio.
Quando mi svegliai, la mattina successiva, fuori il sole
stava sorgendo e gli uccellini cinguettavano sul tetto.
Tutto aveva una parvenza normale, tutto tranne me. I miei
occhi erano infossati, stanchi e dilaniati da una nottata colma di incubi,
dominata da un sonno agitato ed inclemente, senza contare tutto il resto delle
difficoltà. E senza pensare a ciò che avevo udito.
Esordii scrollando le spalle, e preparandomi per andare a
scuola, anche se, inutile ormai dirlo, rischiavo di collassare sul posto e di
riprendere a dormire. Eppure, quella nottata mi aveva lasciato un retrogusto
amaro, e, visto che nella mia mente gli incubi si confondevano con la realtà,
mischiandosi abilmente, giunsi persino a pensare di aver sognato di essere
andato in bagno. D’altronde, il mio aguzzino mi aveva fatto del male anche la
sera prima, e quindi la mia mente estremamente suggestionata doveva aver
riprodotto in modo verosimile tutto ciò in un semplice sogno.
Mi autoconvinsi di ciò, e comunque la mia irritazione riposta
nei confronti del giovane Arriga mi spingeva anche a farmi gli affari miei e a
cercare di indagare o fantasticare il meno possibile su di lui, e di girargli
alla larga senza stare a farmi troppi viaggi mentali, che come in quel caso
apparivano assurdi.
Molto probabilmente avevo sognato tutto, e se così non fosse
stato non era affare mio. Certo, mi scocciava per il fatto del bagno occupato,
ma non mi restava altro da fare che sperare nel fatto che le successive notti
non si fosse riverificato quello stesso problema.
Deciso a sotterrare tutto quanto, mi affrettai a scendere al
piano inferiore con lo zaino in spalla, giusto in tempo per bere due sorsi di
latte e trangugiare una di quelle brioches ipercaloriche che tanto piacevano a
mia madre, per poi salutare rapidamente Roberto, che in giardino si gustava il
timido sole di ottobre.
‘’Di fretta, questa mattina?’’, mi pungolò l’uomo. Temendo
che potesse attaccar bottone per tornare a chiedere del mio stato di salute e a
farmi rievocare gli eventi della sera precedente, non gli diedi assolutamente
corda e sveltii il passo.
‘’Come sempre’’, mi limitai a dirgli, abbandonando
frettolosamente il mio giardino. Sapevo che mi stavo comportando in modo non
molto educato, ma non riuscivo a fare altrimenti, e un po’ mi dispiaceva per
quell’uomo che invece in fondo mi stava simpatico, oltre che sempre pronto a
dimostrarsi premuroso nei miei confronti.
A passo rapido, dopo che ebbi effettuato la prima svolta, mi
ritrovai a rallentare, solo per riprendere fiato.
Giunsi comunque a scuola con un po’ di anticipo, arrivando in
modo calmo e tranquillo nel piazzale antistante l’edificio. E lì mi attendevano
nuovi eventi.
Notai fin da subito che l’atmosfera era strana; tutti i
ragazzi dell’istituto che erano già presenti sul posto formavano dei piccoli
capannelli, allo stesso modo dei cospiratori. Logicamente, i vari gruppi parevano
essersi riuniti per chiacchierare di qualcosa di recentemente accaduto.
In cinque anni di frequentazione, di fronte al mio liceo
c’era stato quel clima teso solo poche volte, perlopiù nei giorni di sciopero,
quando si cercava di convincere i pochi compagni restii a salire sul primo
autobus e a dar buca alla scuola, e quando era accaduto qualcosa di brutto ad
alcune personalità eminenti o molto conosciute nell’ambiente scolastico. Quella
mattina, così davvero tanto lontana dal clima disteso e pacifico che regnava
quasi ogni giorno a quell’ora, era davvero molto strana.
Mentre mi muovevo in cerca di Alice, che avevo scorto di
sfuggita poco distante, mi ricordai che il giorno precedente non avevo scritto
neppure un messaggino a Jasmine, per sincerarmi del suo stato di salute; quasi
mi fermai a dare una testata contro un vicino lampione, rimproverandomi per la
mia sbadataggine, scusandola con il fatto che ero rimasto vittima dell’ennesimo
attacco del mio aguzzino, e pure nel mio rifugio quella volta.
Mi ritenni imperdonabile, e brontolando mi ripromisi di
scriverle entro le due del pomeriggio di quello stesso giorno. Stavo anzi per
afferrare il mio cellulare, un vecchio Nokia Lumia che aveva visto giorni
decisamente migliori, in modo da poter rimediare subito alla mia dimenticanza,
ma il clima teso che mi circondava tornò ad allontanarmi dal mio intento,
guadagnando la mia attenzione. In qualche gruppetto regnavano le risatine, in
altri i toni cupi e sommessi.
Alice non mi aveva notato e continuava a muoversi da sola nel
mezzo della folla, e mentre la raggiungevo scorsi in lontananza Federico, che
naturalmente era assieme al suo solito trio, che un tempo credevo di conoscere
tanto bene e di apprezzare. I quattro ragazzi ridacchiavano e scherzavano tra loro,
parevano rilassati.
Tornai a concentrarmi su Alice, che nel frattempo avevo
raggiunto alle spalle e senza che lei se ne accorgesse, per poi sfiorarle delicatamente
un braccio. La ragazza sobbalzò al mio contatto.
‘’Oh, Antonio!’’, disse poi, una volta tranquillizzatasi
dalla mia comparsa a sorpresa.
Mi sorrise dolcemente. Anch’io le sorrisi.
‘’Jasmine non viene neppure oggi a scuola, non so quando
rientrerà… ha le placche, mi sa’’, aggiunse, con tono deluso e dispiaciuto.
Mi parve di sentir rigirare il coltello nella piaga, e tornai
a darmi dello stupido. Quella ragazza per me era bellissima, stupenda e
gentilissima. Ancora non riuscivo a farmene una ragione del come avessi fatto a
dimenticarmi di fare quel passo avanti che volevo effettuare il giorno prima.
Il destino mi aveva lasciato un altro po’ di tempo a disposizione per farlo, ma
comunque la mia rabbia e il mio nervosismo furono parzialmente rivolti a
Federico.
Non avevo mai odiato con intensità nessuno in vita mia, ma in
quel momento mi sorpresi ad odiare parecchio quel mio coetaneo, quasi a
ribollire di rabbia solo a pensarlo. Eppure, non avevo il coraggio per fare
altro ed oppormi alle sue prepotenze.
‘’Mi spiace, pomeriggio le scrivo, così sento come sta.
Piuttosto, che è accaduto questa mattina? Mi sembra tutto così insolito’’,
dissi, cercando di deviare il discorso e percorrendo l’intero piazzale con lo
sguardo.
‘’Sai che ho udito strane cose, poco fa? Proprio due minuti
fa mi ha raccontato qualcosa Angela, quella di terza b. Non ci ho capito molto,
ma a quanto pare Federico deve averne compiuta un’altra, questa volta con
l’ausilio dei suoi tre amichetti’’, si limitò a rispondermi Alice, anche lei
osservando gli altri. Di tanto in tanto, qualche risata di elevava da alcuni
gruppetti, dove i vari componenti erano tutti occupatissimi a tenere gli
sguardi fissi sugli schermi dei loro cellulari.
‘’Uhm…’’, mormorai, pensieroso, chiedendomi se tutto ciò
aveva qualcosa a che fare con quello che forse avevo sognato durante la notte.
‘’Ne sai qualcosa di più, tu?’’, mi chiese, ma io scossi la
testa. Provai a ricordare qualche frase forse udita durante la nottata ma non
riuscii a collegare nulla all’ambiente scolastico.
Alice allora scrollò le spalle, come per volersi lasciare
scivolare addosso ogni altro pensiero riguardante Federico, per poi sorridermi
di nuovo, timidamente.
‘’Oggi ho ben due verifiche. Le prime dell’anno! Mamma mia,
giuro che tremo solo a pensarci…’’, tornò a dire la mia amica, per poi
rabbrividire per davvero.
‘’Stai tranquilla, sono certo che andrà tutto bene. E poi,
non hai mai avuto problemi di nessun genere a differenza di altri’’, cercai di
tranquillizzarla, mostrando un sorrisetto tremolante e mettendola
indirettamente al corrente delle mie difficoltà a raggiungere le sufficienze
nei precedenti anni scolastici.
‘’No, non posso stare tranquilla. Oggi ho anche la verifica
di matematica, e come se non bastasse ho anche un po’ di mal di testa’’,
aggiunse, senza sorridere quella volta.
Scese il gelo su di noi; la matematica era il grande incubo
di chiunque, al liceo.
Non avevamo insegnanti particolarmente validi in quella
materia così complessa, ma essi apparivano comunque molto esigenti soprattutto
nelle verifiche scritte, che quasi nella totalità dei casi finivano per essere
valutate ampiamente sotto la soglia della sufficienza. Anche i più bravi in
tutte le altre materie vacillavano abbondantemente in matematica, finendo per
crollare sotto il peso di tutti quei calcoli astrusi.
Provavo pena per la mia povera amica, e non la invidiavo
affatto, ma ciò portò pure me a tremare. Sapevo che ben presto sarebbe stato il
turno della mia classe, e in quella materia non ero riuscito a concludere
praticamente nulla.
I compiti a casa non lo facevo quasi mai; l’insegnante non
controllava se erano stati svolti, ed io non me ne preoccupavo, preferendo
dedicare il mio tempo al pianoforte. Ma quando poi mi trovavo con la verifica
sotto al naso e non ero in grado di risolvere nulla, molto spesso mi veniva da
lasciarmi andare ad un pianto silenzioso ed impotente, anche se poi logicamente
mi trattenevo.
Però, sapevo che era inutile disperarsi sul latte ormai
versato, e quindi l’unica cosa che potevo fare era cercare di ripromettermi di
prepararmi meglio per il compito in classe successivo, e di impegnarmi a
svolgere gli esercizi e i compiti a casa, cosa che puntualmente non facevo. E,
allora, la medesima situazione della verifica consegnata pressoché bianca si
riverificava con costanza, ogni mese e per anni.
Questa vicenda si è poi tramutata in uno dei miei incubi più
ricorrenti; ancora oggi, quando ho un sonno agitato, mi ritrovo in quella
stessa aula e con grande realismo scorgo quelle fotocopie colme di numeri e di
concetti che non so gestire, dominato da una lugubre impotenza e
dall’incapacità di fare qualcosa. Solo, incapace di muovermi dalla sedia,
trascorro intere notti a rivivere quei momenti che, effettivamente, dovevano
avermi segnato moltissimo nell’istante in cui li vivevo.
Tuttora spero che, prima o poi, questo incubo ricorrente
possa sparire dai miei sogni, ma ne dubito, vista la costanza con cui esso si
ripresenta. Nulla viene dimenticato tanto in fretta, così come non ho mai
dimenticato finora l’espressione che aveva sul volto la mia cara Alice quella
mattina, che si preannunciava così lugubre e tesa sotto tutti gli aspetti.
Non riuscii a dirle altro, o a parlarle dei miei problemi in
quella materia, poiché la campanella suonò e fummo costretti a dividerci, per
dirigersi nelle nostre classi. La mia amica era così triste e agitata che
pareva che stesse per essere condotta al patibolo.
E così, senza alcun buono auspicio, entrai nella mia sezione
e mi preparai ad affrontare la nuova mattinata scolastica.
Non sapevo ancora il perché, ma i miei compagni di classe in
quel periodo parevano essere diventati più gentili, nei miei confronti. Se fino
a qualche tempo prima nessuno manco mi salutava, ed era come se fossi un
fantasma e non esistessi, in quei giorni qualcuno cominciò a rivolgermi qualche
superficiale buongiorno, o mi rivolgeva qualche frase di rito.
Niente di che, ma era un passo in avanti che a mio avviso non
avevo in alcun modo cercato di compiere con le mie forze, visto che avevo
gettato la spugna già durante il primo anno, quando tutti mi prendevano in giro
per il rossore che compariva sul mio viso quando dovevo parlare con qualcuno di
loro, ma tuttavia la situazione che si stava creando non mi dispiaceva affatto.
Anzi, il gracile Francesco aveva pure cominciato a rivolgermi qualche sorriso,
come se l’evento di bullismo al quale entrambi eravamo stati sottoposti dallo stesso
aguzzino ci avesse avvicinati.
Se il quasi insormontabile divario tra me e gli altri
componenti della classe si era ridotto di qualche millimetro, quello tra me e
Federico continuava ad essere violentemente insostenibile.
Per far capire chiaramente che con me non voleva averci nulla
a che fare, umile sfigato com’ero, ogni mattina aveva preso l’abitudine di
staccare leggermente il suo banco dal mio. Un gesto simbolico, un’espressione
senza parole che mi faceva capire che per lui ero solo uno scarto, e che ai
suoi occhi dovevo apparire come l’essere più indegno del mondo.
Non mi dispiaceva comunque stargli lontano, e in classe tutti
lo guardavano in modo diverso rispetto al primo giorno in cui si era
presentato. Anche lui a modo suo stava diventando una sorta di emarginato,
all’interno dell’ambiente scolastico, e le uniche persone con cui era riuscito
a legare erano proprio Giulio, Luca e Davide, ed ormai erano diventati i suoi
unici compagni fissi durante le brevi pause.
Come ogni mattina, le lezioni iniziarono in fretta e in modo
noioso, mentre per il momento continuavo ancora a ringraziare il Cielo per il
fatto che nella nostra classe i vari professori erano stati molto clementi fino
a quel momento, e solo pochi avevano iniziato ad interrogare e ad appuntare sui
registri qualche verifica scritta.
La prof Carlucci quella mattina sarebbe tornata a parlare di
Leopardi, cosa che ormai faceva dall’inizio della scuola, affermando di non
voler lasciare nessun punto interrogativo su quel grand’uomo che si era reso
immortale grazie ai suoi scritti. Le sue poesie non mi piacevano molto, lo
ammetto, poiché le trovavo spesso troppo articolate, e magari eccessivamente
complesse, e ciò si scontrava con l’idea che avevo della poesia, ovvero che
essa dovesse essere una forma semplice di espressione. Ma non ho mai voluto
sminuire quel grandissimo poeta, che tuttavia non mi dispiaceva studiare.
Con la coda dell’occhio notai che Federico aveva cominciato
fin dall’inizio delle lezioni a giocare col suo cellulare, e mi chiesi se in
quelle tre settimane di frequentazione avesse mai sfiorato una penna con un
dito. Si era fatto coraggioso, e spesso, come in quel momento, paciugava col
suo attrezzo elettronico ben posizionato sul tavolo, protetto dalla vista della
prof dalla borsa a tracolla scura, sempre adagiata sul banco e tirata
leggermente su come se fosse una barriera protettiva.
Non gli prestai ulteriore attenzione, e mi sopii, lasciando
trascinare i miei pensieri lontano, lungo il tortuoso percorso poetico di
Leopardi.
Immerso nelle spiegazioni della prof, e cercando di stare
attento e di assimilare più informazioni possibili, per poi dover studiare di
meno una volta giunto a casa, sobbalzai quando scoppiò un putiferio
inaspettato, ma che non mi dispiacque per nulla.
‘’Professoressa Carlucci, un suo studente non fa altro che
giocare al cellulare’’, disse improvvisamente una voce, frantumando il silenzio
che regnava nell’aula, interrotto solo dal roco tono monocorde dell’insegnante.
Il tempo parve fermarsi, e mi voltai indietro di scatto,
seguendo il suono di quella voce che aveva interrotto le spiegazioni, notando
che apparteneva a una delle due insegnanti di sostegno che, di tanto in tanto,
seguivano una mia compagna, Clara. Entrambe entravano poco in classe, visto che
Clara aveva seri problemi a concentrarsi e a seguire lo svolgimento delle
lezioni, e quindi seguiva parzialmente un programma più semplificato, restando
in classe con noi solo alcune ore al giorno.
Nessuno aveva notato che l’insegnante di sostegno era entrata
in classe assieme alla nostra compagna, poiché erano state molto silenziose ed
avevano utilizzato la porta secondaria situata nell’ampio retro dello stanzone,
di cui potevano usufruire in modo da poter entrare e uscire senza dover
interrompere le lezioni con il loro passaggio, visto che la porta principale
dell’aula era situata proprio alla sinistra dell’insegnante e di fronte agli
alunni.
Ebbene, l’insegnante di sostegno, una donnina minuta e
dall’aspetto gentile ma deciso, stava proprio segnalando Federico alla
professoressa.
Vidi il mio nemico che, a pochi centimetri da me, era stato
colto di sorpresa, e con rapidità si era lasciato sfilare il cellulare tra le
mani, per poi spegnerne lo schermo e cercare di infilarlo all’interno della
tracolla, ma ovviamente a quel punto non poteva più fare altro senza essere
visto, poiché tutti quanti lo stavamo fissando.
La professoressa Carlucci, che era sempre stata più cortese
ed accomodante nei confronti del nuovo arrivato, forse nel vano tentativo di
farlo sentire più a suo agio in quell’ambiente nuovo, quella volta lo osservava
con un’espressione attonita e colma di rancore talmente tanto sorprendente che
ancora oggi la ricordo come se l’avessi avuta di nuovo di fronte a me.
Con lentezza, si mosse verso Federico, che se n’era rimasto
totalmente spiazzato ed inerme, senza neppure più cercare di insabbiare i
fatti, e allungò una mano, afferrando il cellulare. Osservò per un attimo il
magnifico Samsung, mentre tutti i presenti se ne stavano in silenzio a gustarsi
la scena, prima di parlare.
‘’Questo è sequestrato. Eravamo stati chiari sul fatto che in
ambiente scolastico è severamente vietato utilizzare il cellulare, per
qualsiasi futile motivo. Ora annoto l’evento nel registro, e per riavere il
telefono dovrai far venire a scuola un tuo genitore, in modo che possa prendere
atto del tuo atteggiamento scorretto e che possa parlare con me, la
coordinatrice di classe’’.
Sentenza severa ed apparentemente inappellabile.
‘’Non è la prima volta che lo vedo mentre gioca col telefono.
Anzi, l’ho visto quasi tutte le volte che sono venuta in classe’’, aggiunse
l’insegnante che aveva segnalato il misfatto, quasi infierendo.
Federico si voltò indietro e la incenerì con un’occhiataccia,
prima di tornare a fissare la prof Carlucci, ormai davvero molto irritata.
Sapevamo tutti che era sempre parecchio severa, e che non si faceva problemi a
rispettare il regolamento scolastico e a distribuire sanzioni appropriate ma
pesanti. Tuttavia, si trattava di sanzioni giuste.
‘’Prof, sono maggiorenne. Me lo riprendo il telefono, mi
metta pure una nota. E lei si faccia gli affari suoi, non è una mia
professoressa!’’, concluse il furioso Federico, addentando l’insegnante di
sostegno.
‘’Tu non puoi nulla. E non azzardarti a rispondere in questo
modo agli insegnanti di questo istituto, o ti mando direttamente nell’ufficio
della preside. Per quanto riguarda il resto, fai venire qui a scuola i tuoi
genitori, perché ho come l’impressione che tu non ti stia comportando in modo
corretto, in alcuni casi, e vorrei poter parlare a quattr’occhi con loro. Anzi,
li vado a chiamare subito dalla segreteria’’, disse la professoressa, implacabile
e senza lasciar parlare il colpevole, facendo cenno all’insegnante di sostegno
di non rispondere in alcun modo alle provocazioni. Si doveva essere sentita
presa in giro dal nuovo arrivato, e non l’avevo mai vista così tanto arrabbiata.
‘’No…’’, si lasciò sfuggire il mio nemico, con un ultimo
rantolo colmo di disperazione.
La prof uscì nel corridoio, affidandoci per un attimo alla
sorveglianza dell’insegnante di sostegno, ed andò a contattare Roberto e Livia.
Non mi sembrava vero; guardavo estasiato il mio nemico, per
poi riabbassare gli occhi sui miei libri, per non farmi sfuggire un sorriso. Mi
dispiaceva tantissimo per Roberto, ma ritenevo che quella fosse la giusta
punizione per Federico, che dal canto suo rivolgeva occhiate furenti
all’insegnante che l’aveva denunciato alla prof.
Per la prima volta dopo alcune settimane, per un po’ mi
sentii meglio, crogiolandomi nell’ansia e nell’agitazione del figlio degli
inquilini di mia madre, che tante volte si era mostrato perfido ed implacabile
con me, e in quel momento gli stava venendo reso una minuscola parte del conto
da pagare.
Mi sentivo perfido come non mai, ma quella volta non mi
importava davvero. Avevo solo una gran voglia di sorridere.
NOTA DELL’AUTORE
Continuo a ringraziare chiunque stia seguendo e sostenendo il
racconto. Davvero, grazie di cuore per la fiducia che riponete in me e nei miei
scritti.
Ancora grazie, e buona giornata! A lunedì prossimo J