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Autore: Captain Willard    09/06/2016    3 recensioni
Gabriel Gracelyn ha quarantadue anni e si accontenta di lasciarsi passare la vita accanto: l'amore per la sua fidanzata è ormai appassito, la musica non gli dà più soddisfazioni ed è stanco delle solite facce, della solita ipocrisia, di un'esistenza apatica che lo tiene avvinto.
È quando meno se lo aspetta che le fondamenta delle sue abitudini vengono scosse nel profondo: una ragazza a una festa dove entrambi si sentono estranei, un incontro atteso e inaspettato che lo costringe ad affrontare i fallimenti di una vita piena di successi; occhi verdi come i prati d'Irlanda, a guidarlo verso qualcosa di diverso. Sbagliando e cadendo, ma sempre rialzandosi.
“E pensò che forse si era perso più di quanto voleva credere, in tutti quegli anni.”
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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7

- underneath the waves -

 

 

 

 

«Sei sicuro di non aver fatto qualche cazzata?» insistette Fabio, facendo cenno al cameriere di portare un altro giro di birre. Gabriel si prese la testa tra le mani, esasperato.

«Per l'ennesima volta: no! Non ho fatto niente

«Ma proprio sicurissimo?» intervenne Alberto, lanciandosi in bocca qualche nocciolina. Il collega lo fulminò con lo sguardo, fece per insultarlo ma preferì tornare al proprio cruccio, mettendo la faccia sul tavolo.

Fabio sbuffò. «Come sei melodrammatico.»

«Disse colui che aveva portato il lutto per un mese, per il padre del Re Leone.» bofonchiò Gabriel.

«Ehi, avevi promesso di non dirlo a nessuno!» protestò sonoramente il biondo mentre il sassofonista si ammazzava dalle risate.

«Sì, e tu avevi promesso a tua moglie che non avresti più mangiato la panna spray direttamente dalla bocchetta. Direi che sei avvezzo al tradimento.»

«Sì, be', quando rimani vedovo la panna montata diventa un grande conforto improvvisamente» borbottò l'ometto, accogliendo con sollievo la pinta che il cameriere gli posò davanti.

«Magari è il sesso» ipotizzò Alberto, scolandosi metà della propria Guinness in un sorso. «Le rosse sono focose, forse non le basti.»

Evitò per un pelo una sberla di Gabriel, quest'ultimo tornò alla sua posizione afflitta e gemette. «No, anche quello va alla grande.»

 

Non mentiva: per due settimane era stato un vero paradiso.

Maebh l'aveva trascinato in escursioni, al cinema, di nuovo coi Late Nighters, persino in un cimitero sconsacrato; Gabriel non si era mai divertito così tanto, e mai si era sentito tanto giovane e pieno di energie: Maebh cercava il suo corpo ed era ricambiata con altrettanto ardore, non importava dove fossero, se in un letto, tra le foglie secche o nel retro di qualche locale. Sì, il sesso andava decisamente alla grande.

«Io proprio non capisco. Tutto sembrava andare benissimo, poi lunedì le scrivo come tutte le mattine per chiederle di vederci, e lei che mi risponde? Oggi non sono dell'umore. Dico, va bene, è successo qualcosa? Lei risponde: niente. Mi fa imbestialire ma decido di essere paziente.»

«E oggi sono cinque giorni che aspetti, giusto?» concluse Fabio.

«Esatto.»

«E lei non si è più fatta viva.»

«No. Le ho scritto ma non mi ha risposto. Ho provato a chiamarla, niente.»

Alberto sbuffò. «Ma scusa, perché non chiedi a Loren? Magari sa qualcosa.»

Gabriel sollevò la testa. «Non ci avevo pensato! Parla con lei!»

«Non credo proprio! Sono affari tuoi, te la sbrighi da solo. Io me ne lavo le mani.» Accompagnò le parole con il gesto, Fabio prese a sghignazzare.

«Ha ragione, questa Loren è la migliore amica della tua donna, giusto? Be', chiamala, tasta il terreno, chiedi come far sbollire l'incazzatura alla rossa, quali fiori portarle...»

«Le piacciono i girasoli ma non è stagione» gemette Gabriel. L'agente gli arruffò i capelli bonariamente.

«Si fa per dire, salame. Ora, possiamo per favore rilassarci un poco e bere in santa pace?»

«Sei crudele» borbottò il pianista, alzando il capo quanto bastava per bere un sorso di birra.

«No, sono giusto. Su, un brindisi a Gabriel e Rossa, affinché tornino presto in armonia e facciano sesso selvaggio.»

«Amen!» si unì devotamente Alberto, facendo cozzare i loro bicchieri.

«Si chiama Maebh» ricordò loro con un grugnito il pianista, sorseggiando mogio la birra.

«Sì ma ci voleva un soprannome.»

«Io la chiamo stella del County Down, come la canzone.»

Fabio si bloccò col bicchiere a mezz'aria, lo posò di nuovo sul tavolo e giunse le mani davanti a sé. Era a dir poco sconvolto. «Gabriel, ho capito qual è il problema.»

L'uomo drizzò le orecchie, attento. «Quale?!»

Fabio piegò le labbra in un ghigno sornione. «...Quel soprannome ridicolo!»

«...Sei licenziato.»

 

***

 

 

«Non mi sei di grande aiuto.»

«Non posso dirti niente, devi chiedere alla diretta interessata.»

«Sì, ma non mi parla! Ha tagliato le comunicazioni e io non so che fare.»

La moretta spalancò la tenda del camerino e gli piroettò davanti in un tubino color borgogna. «Come sto?»

Gabriel sospirò, un'emicrania lancinante a tormentarlo. «Bene, così come negli altri sette vestiti. Tornando alle questioni importanti...»

La ragazza si richiuse nel camerino per cambiarsi d'abito. «Credimi Gabe, puoi fare solo in due modi. Opzione numero uno: chiudi questa storia con Maebh. Opzione numero due: porti pazienza. Tanta

«Non sono pazzo, come potrei mai lasciar perdere la tua amica?!»

«Allora pazienti. Visto? Risolto.»

«Se solo tu mi dicessi perché devo pazientare...»

Sentì Loren sospirare, tacere per un momento, indecisa. «Ci sono cose che non è mio diritto raccontarti. Ti basti sapere che è un periodo, ma non posso darti garanzie su quanto effettivamente durerà. Ma lei... ha i suoi buoni motivi.»

«E allora perché non me li ha detti?» sussurrò l'uomo, più rivolto a sé stesso che alla ragazza. Non si accorse che lei era uscita dal camerino finché non si inginocchiò davanti al pouf dove stava seduto. Era mezza svestita ma a nessuno dei due creò imbarazzo; Loren sorrise d'un sorriso triste e gli diede un'arruffata amichevole ai capelli.

«Gabe... è complicato.»

«Ti prego, dimmi dove posso trovarla. A casa non risponde. Al lavoro non c'è.»

«Gabe...»

Gabriel era sull'orlo delle lacrime. «Ti prego

 

***

 

 

La vibrazione del cellulare lo fece trasalire. Guardò il display: Fabio. E ti pareva.

«Che cazzo vuoi.»

«DOVE CAZZO SEI?!»

«Cosa? Ma... perché?»

«Perché avevamo detto di vederci in studio mezz'ora fa. Dove sei finito, Alissa ti ha sgamato e ti ha staccato le gambe?»

«Scusa Fabio, mi sono dimenticato, io-»

«No! Non è un comportamento professionale questo Gabe, quando vieni qui ti faccio il culo così tanto a stelle e strisce che ti appendono sopra la Casa Bianca!»

«Fabio...»

«E io scemo che ancora ti do corda dopo tutti questi anni. Ma chi me lo fa fare?!»

«Fabio, calma, io-»

«TU COSA?»

Il pianista sospirò, passandosi una mano sul viso. Quando rispose, la sua voce rivelava tutta la sua preoccupazione. «Sono al cimitero.»

 

Ci fu una pausa così lunga che pensò fosse caduta la linea, poi udì l'agente schiarirsi la gola, tentennare. «Che... insomma, che ci stai a fare? È successo qualcosa?»

Scosse la testa, poi si ricordò che lui non poteva vederlo. «No, o meglio... non lo so. So solo che Maebh è qui, devo parlarle.»

«Va bene. Fai con calma, rimandiamo a domani.»

«Grazie.»

«Ma ti pare. Riguardatevi.» Chiuse la chiamata. Gabriel esalò un altro sospiro, più cupo, più soffocante. Si avvicinò allo scooter di Maebh, parcheggiato lì vicino; accarezzo la vernice turchese sgraffiata, toccò il minuscolo elefantino di peluche appeso al manubrio. Si chiese d'un tratto se non fosse meglio lasciar perdere. Lui cercava solo una momentanea scappatoia da una vita che non gli apparteneva, non altri problemi, altri vincoli. Scosse la testa, si sarebbe preso a schiaffi da solo. Quand'era diventato così tanto povero di se stesso?

Non indugiò oltre e si incamminò verso l'ingresso del cimitero, immergendosi nell'ombra fresca dei cipressi.

 

 

***

 

 

Il fazzoletto ormai fradicio le si strappò tra le mani. Tirò su col naso e rovistò nello zaino, ma non ne aveva altri.

«Tieni.»

Sussultò, si voltò lentamente. Le sembrava impossibile che lui fosse lì, ma eccolo. Stretto nella giacca di lana blu, quella che gli faceva sembrare lo sguardo ancora più profondo. Gabriel aveva occhi sempre insondabili, abissi che sembravano rivelare solo a lei cosa si celasse sotto la superficie, ma in quel momento si scoprì incapace di leggere il suo sguardo. Forse per le lacrime che offuscavano il proprio, forse perché aveva paura di quel che vi avrebbe trovato.

Accettò il fazzoletto che lui le porgeva.

 

«Sei l'unico uomo sotto i cinquant'anni a usare ancora il fazzoletto di stoffa, lo sai?» provò a scherzare, ma la voce le uscì come un pigolio. Nascose il viso nel tessuto, desiderando ardentemente di poterci sparire dentro.

Gabriel sorrise anche se lei non lo guardava e si inginocchiò al suo fianco, incurante dell'erba bagnata che prese a inumidirgli i jeans. «Lo so, stella.»

Non la toccò, ma per Maebh il suo tono quieto valeva più di mille carezze. Era la voce di chi comprende, di chi sa aspettare. Di chi aspetterebbe per tutta la vita, se ne valesse la pena. Lei non disse nulla e lui non aggiunse altro; semplicemente, restarono lì. La ragazza indugiava con lo sguardo sulle foglie dell'edera che ricopriva la tomba, le gocce d'acqua sospese.

Gabriel osservava la fotografia: un'istantanea felice, un frammento di matrimonio preso e fermato nel tempo. Nell'uomo riconobbe le mani sottili di Maebh, le lentiggini, i capelli di sirena. La donna aveva la sua stessa bocca, quelle fossette. La dolcezza dello sguardo, il modo in cui l'angolo del sopracciglio destro si sollevava leggermente quando sorrideva.

«Aedan e Maia McKenna» lesse sottovoce, soffermandosi sulle date scritte sotto. Non avevano nemmeno quarant'anni.

«Mi hanno avuta molto giovani» mormorò Maebh, stringendosi le ginocchia al petto. Il pianista non disse nulla ma si girò a guardarla, incoraggiandola a proseguire.

«Mamma aveva sedici anni, papà diciotto. Si erano conosciuti in vacanza, al mare. Pensavano di mantenere i contatti giusto come amici, invece sono arrivata io a scombinare le cose. Erano incoscienti, incauti, ma non si sono tirati indietro davanti alla responsabilità di una figlia. Non avrei potuto chiedere genitori migliori di loro.»

Sorrise, sentendo la pelle tirare per le lacrime che si erano seccate. «Gabriel, che ti ha detto Loren? Perché è stata lei a mandarti qui, no?»

Lui annuì. «Sì, ma non mi ha detto nulla. È una buona amica.»

«Già...» sussurrò Maebh, posando la testa sulle gambe. Chiuse gli occhi.

«Vuoi che me ne vada?»

«No, non andartene.»

«Neanche se ti chiedo delle risposte?» insistette l'uomo, sentendosi come un acrobata senza rete di sicurezza. Conosceva ancora così poco di Maebh, era un salto nel buio e trattenne il respiro.

Finché la sirena sospirò.

«Vorrei che le cose fossero andate diversamente.»

 

Tenne gli occhi chiusi ma allungò una mano a cercare la sua. Gabriel gliela strinse tra le proprie, era gelida, tremante. Chissà da quante ore stava lì, sul prato fradicio di pioggia.

«Quando avevo diciassette anni conobbi Leonardo. Io ero un'ingenua ragazzina, lui stava all'ultimo anno di liceo e mi sembrava lontano anni luce. Fatto sta che a una festa mi notò, si mise a parlarmi, fare il galante. Per alcuni mesi ci frequentammo, mi presentava ai suoi amici, diceva che ero la sua ragazza e io pensavo di stare in una favola, ma-...»

Un singhiozzò le spezzò la voce, la rabbia con cui cercava di soffocare le lacrime strinse il cuore a Gabriel.

«Mi sbagliavo. Con lui ho avuto le mie prime esperienze sessuali, era un po' brusco e impaziente, ma mi dicevo che era normale. Che i ragazzi sono così. Poi ha iniziato a essere insistente, possessivo. Violento. Alzò le mani un paio di volte ma io non dissi niente a nessuno, si era trattato di due schiaffi e lui diceva di non fare la stupida, che me li meritavo. Io ero innamorata persa, cieca davanti alla verità. Non avrei mai dovuto dirgli che ero incinta.»

 

Fu come una doccia fredda per Gabriel. «Che cosa

Maebh annuì a malapena, i singhiozzi le scuotevano le spalle senza più controllo. «Gli chiesi di vederci al solito parco, non ero sicura di volere un figlio e volevo parlarne con lui. Quando gliel'ho detto è diventato un altro: aveva un coltello a serramanico, mi ha colpito al viso, io sono caduta e lui mi prendeva a calci nel ventre e non smetteva, non smetteva, non smetteva...» gemette, abbandonandosi al pianto. Gabriel avrebbe voluto stringerla a sé, asciugarle le lacrime, prenderla e portarla via da tutto quel dolore ma rimase con le braccia inerti, una macchina a cui mancavano dei pezzi. Lui non sapeva dare conforto, non era mai stato educato all'amore. Come si fa a portare via qualcuno che è così lontano, dove non puoi raggiungerlo? Come fai a superare un abisso di tale dolore senza caderci dentro?

 

Restò così, sentendosi sbagliato e mancato, finché il pianto dirotto di Maebh non si fu un poco chetato, più per stanchezza che per sollievo.

«Che è successo poi?»

«Sono intervenuti alcuni passanti, l'hanno fermato, hanno chiamato l'ambulanza. O almeno questo è quello che mi è stato raccontato, io ero svenuta e mi sono risvegliata solo la sera dopo. C'era questo dottore, lui era così buono e gentile e mi ha tenuto mentre piangevo, quando mi ha detto che avevo perso il bambino e che probabilmente non avrei potuto avere altri figli. E non era finita.»

Alzò una mano a indicare la data di morte dei genitori. «Sedici ottobre. Quel giorno non ho perso solo un figlio ma anche i miei genitori, che stavano venendo da me in ospedale. Tutti mi dicevano che io non c'entravo, che era stato un incidente, ma mi sentivo in colpa come se fossi stata io a guidare quel camion. Cesare... lui era un amico di famiglia, e anche se ero diventata da poco maggiorenne gli sono stata affidata, mi ha aiutata ad affrontare il processo contro Leonardo. È grazie a lui se non mi sono ammazzata, tanto stavo male.»

«...Quel bastardo è andato in prigione, vero?»

«Sì. Avrebbe dovuto fare cinque anni, invece dopo due l'hanno rilasciato per buona condotta.»

«Buona condotta!» urlò Gabriel, scattando in piedi. Strinse i pugni spasmodicamente, serrando i denti. «Buona condotta» ripeté, ringhiando come una bestia.

«Era un ragazzo di buona famiglia» sussurrò lei, come se fosse una spiegazione sufficiente a calmarlo.

«Lo ammazzo!» sbottò lui, lei trasalì come se le avesse dato uno schiaffo. Parve rendersi conto solo ora di come potesse sembrare, furioso e scarmigliato, lo sguardo cattivo, i pugni stretti. Distolse lo sguardo, trasse un respiro profondo per calmarsi. «È per questo che ti comportavi così. Per l'anniversario.»

Maebh annuì appena, si alzò e raccolse lo zaino. «Ogni anno mi dico che andrà meglio, ma fa sempre male.» Aveva gli occhi rossi e gonfi, le labbra screpolate, era il fantasma di se stessa e lui ebbe paura che potesse spezzarsi come un fiore essiccato. «Lasciami perdere, Gabriel.»

«Non voglio farlo.»

Maebh parve vacillare, lui le fu subito addosso e la abbracciò, stringendola forte, stringendola come se un solo centimetro di distanza avrebbe potuto ucciderlo. La ragazza provò debolmente a respingerlo, ma non aveva più forze. Mugolò contro il suo petto. «Non hai bisogno di una come me.»

«Ma tu hai bisogno di me.»

«No» replicò lei, più rigida, più dura. La sua piccola orgogliosa. «Io non ho bisogno di te. Ce la faccio anche da sola.»

 

Lo so. È per questo che mi sto innamorando di te.

Ma non lo disse. Gabriel era stato molte cose, ma mai coraggioso. E pure, nonostante le parole lasciate sospese, nonostante avesse imparato da poco il significato di dare – era come rinascere, scoprire una pelle nuova e sensibile sotto la durezza di anni - parve essere stato capace di raggiungere la sirena, chiamarla a sé nonostante le sofferenze che la stringevano.

Maebh sospirò, non piangeva più. «Portami via.»

Il marinaio la strinse a sé, sollevandola tra le braccia e mentre si allontanavano dalla pioggia e da quella terra gelata, si chiese se un giorno sarebbe riuscito a portarla via davvero, in un posto migliore. Meno dolore, meno rimpianti...

Era stato molte cose, ma mai un sognatore. Forse era il momento di cambiare.

 

 

***
 

 

Dieci minuti.

Alissa li aveva contati secondo per secondo, senza distogliere lo sguardo dall'orologio. Dieci minuti. Trasse alcuni respiri profondi, lenti. Doveva stare calma, come sempre. Tutto qui. Era semplice.

Allungò una mano verso il lavandino, a tentoni prese lo stick.

Va tutto bene.

 

Aprì gli occhi, il suo sguardo colse con sollievo due linee blu. Si portò una mano alla bocca a soffocare un singhiozzo, ma non riuscì a fermare le lacrime, il trucco le si sciolse ma per la prima volta, nei suoi trentacinque anni di vita, non le importava.

«Sarò madre» disse ad alta voce, come per accertarsi che non fosse tutto un sogno. L'aveva voluto così tanto. Tutto sarebbe andato bene, d'ora in poi.

Sarò madre.

 

 

***

 


 

 

Eh. Come direbbe il mio insegnante di ginnastica del liceo: mo' so cazzi.

 

Star of the County Down: antica ballata irlandese, narra dell'amore di un uomo per una ragazza così bella da essere chiamata «stella» della Contea di Down. [https://www.youtube.com/watch?v=jXLnSkGmTdQ]

  
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