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Autore: Losiliel    11/06/2016    6 recensioni
Finwë e i suoi nipoti attendono a Formenos il ritorno di Fëanor, richiamato presso la dimora di Manwë per partecipare a un'importante celebrazione, quando la tragedia si abbatte su di loro.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Amras, Finwë, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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Per la stesura di questo racconto mi sono attenuta a Il Silmarillion e alla sezione The Annals of Aman di HoME - vol. 10 (Morgoth's Ring), tralasciando quasi completamente le modifiche esposte nella sezione The Later Quenta Silmarillion dello stesso volume.

 


 






CALANO LE TENEBRE

Capitolo 1

 

 

________________________
 

Nelyafinwë (Russandol) = Maedhros
Tyelkormo (qui chiamato anche Tyelko) = Celegorm
Curufinwë (Curvo) = Curufin
Ambarussa = Amras e Amrod
Morifinwë (Moryo, Carnistir) = Caranthir
Káno = Maglor

WARNING: per punti di vista molteplici, ma ben segnalati all'inizio di ogni sezione

_______________________

 

 

 

I

NELYAFINWË

 

 

Prima delle tenebre, arrivarono le grida.

Una moltitudine di grida, all'interno della sua testa.

Come poteva essere? Nelyafinwë non apriva mai la sua mente. Non l'aveva fatto con la madre, quando era piccolo, né con il fratello più caro. Non l'aveva fatto ai tempi della sua grande amicizia con il cugino.

Eppure ora qualcosa violava la barriera che aveva eretto a difesa dei propri pensieri: una disperazione improvvisa, che lo fece vacillare.

La penna che reggeva tra le dita sussultò, macchiando di inchiostro la lettera che stava scrivendo a sua madre, il periodico resoconto delle attività sue e dei suoi fratelli, che non poteva più farle di persona da quando erano confinati nella fortezza di Formenos.

Nelyafinwë abbassò le palpebre e si concentrò. In un attimo tornò a sigillare la mente.

Fu allora che si accorse che non tutte le urla erano all'interno della sua testa.

Sollevò lo sguardo dal suo lavoro, allontanando una ciocca ramata dal viso, e si tese in ascolto.

Nel clima di perenne allerta che si respirava in esilio, soprattutto ora che il padre era lontano, convocato dalle stesse Potenze che l'avevano bandito, il suo sconcerto fece presto a volgersi in apprensione.

Ripose la penna nella custodia, e si alzò rapido. Nella camera che gli era stata assegnata, quasi spoglia se paragonata a quella in cui era solito vivere in città, c'era un balcone esposto a nord che dava sul retro dell'edificio. Lo raggiunse e vi si affacciò.

I pochi abitanti della fortezza, gente di suo padre che aveva scelto di seguirlo nel suo allontanamento forzato, erano all'apparenza tutti radunati nel piazzale sotto di lui. Molti correvano in preda al panico, altri sembravano paralizzati dal terrore. Udì il pianto di un bambino che non riuscì a individuare, e il lungo, ininterrotto, ululato di un cane. Una donna urlò, indicando il cielo. Nelyafinwë seguì il suo sguardo e un brivido freddo lo percorse.

All'orizzonte il cielo manteneva ancora un certo chiarore, per quanto fosse già velato da un'insolita sfumatura grigiastra, ma proprio sopra di lui un'ombra cupa era scesa a coprire la volta celeste, come se la fonte di luce incessante che proveniva da sud fosse improvvisamente venuta a mancare. 

Trattenne il fiato, senza neppure accorgersene, mentre cercava di convincersi che quel fenomeno che sovvertiva le leggi di natura aveva altre spiegazioni oltre a quella evidente, che non riusciva ad accettare.

– Non è possibile… – mormorò poi, incapace di far fronte all'assurdo, e lasciò la stanza in poche rapide falcate, precipitandosi giù per le scale, saltando i gradini due alla volta.

Nelyafinwë aveva imparato che il modo migliore per reagire all'imprevisto era vincolarsi alla realtà e fare ciò che andava fatto. C'era sempre un modo corretto di agire o, almeno, uno meno sbagliato degli altri, e attenervisi era la via per non cedere alla paura. Era diventata un'abitudine per lui; quella che da fuori sembrava fredda razionalità, era il solo mezzo che conosceva per mantenere il controllo quando le cose si mettevano male. 

Ma davanti a ciò che aveva visto nel cielo, e a ciò che soggiornava appena oltre i confini della sua mente, anche le consuetudini più radicate vennero meno. Nelyafinwë si trovò ad attraversare di corsa la fortezza pronto a saltare sul primo cavallo e a precipitarsi a sud, verso la città, incurante del pericolo e del bando che gravava sulla sua testa, per accorrere in aiuto del padre, per accertarsi che la madre fosse illesa, o forse solo per non trovarsi a dover rimpiangere decisioni prese anni prima, più di quanto non stesse già facendo. L'allontanamento da Tirion era stato decretato da Námo in persona, ma altre separazioni era stato lui stesso a volerle, e non aveva mai smesso di pentirsene.

Non riuscì ad arrivare oltre il salone d'ingresso.

Finwë era lì, sull'uscio spalancato, stagliato contro la luce morente come l'ultimo baluardo di razionalità contro il sorgere della follia. Affrontava l'oscurità avanzante nel suo abito azzurro e indaco, alto e fiero come se ancora la sua testa fosse stata cinta dalla corona.

Al suo avvicinarsi si voltò. Nelyafinwë si fermò all'istante, sorpreso da ciò che vide sul volto del nonno: non paura o sconcerto, solo quella salda compostezza che sempre lo caratterizzava. Anche la sua voce era ferma e decisa quando parlò: – Ragazzo mio – disse, – abbiamo poco tempo.

– Cos'è accaduto? – domandò lui, cercando di ricomporsi per essere all'altezza del comportamento di chi aveva di fronte.

– Una catastrofe – dichiarò Finwë, e per un attimo sembrò cedere sotto un peso eccessivo persino per le sue spalle. Ma poi scosse la testa, come per recidere un contatto, e tornò a guardare il nipote dritto negli occhi.

– Abbiamo poco tempo – ripeté, – ecco cosa devi fare.

Il nonno poteva anche averlo chiamato "ragazzo mio", come faceva quando erano in famiglia e le formalità non erano necessarie, ma Nelyafinwë non faticò a riconoscere la voce del Re dietro quel tono secco e perentorio, e inconsciamente tutto il suo corpo si tese per ascoltarne gli ordini.

Tuttavia, col pensiero continuava a tornare a quelle grida che avevano invaso per un attimo la sua mente, come se, concentrandosi abbastanza, potesse riconoscerne una tra le migliaia.

Finwë sembrò accorgersene, perché gli si avvicinò e gli pose una mano sulla spalla: – Non temere per Fëanáro – lo rassicurò, – se fosse accaduto qualcosa a uno dei miei figli, lo saprei.

Nelyafinwë annuì. E si vergognò un poco, perché non era del padre la voce che stava cercando. Ma il nonno concluse: – Lo stesso vale per i tuoi cugini.

E, senza lasciargli il tempo di elaborare ciò che questa affermazione comportava, gli voltò le spalle e, tornando presso il portone, gli disse chiaro ciò che voleva da lui: – Devi mettere in salvo i tuoi fratelli e la nostra gente.

– Dove li devo condurre? – domandò Nelyafinwë che, in parte rassicurato dalle parole del nonno, stava velocemente tornando alle vecchie abitudini, anteponendo ciò che gli veniva richiesto a ciò che desiderava fare.

– C'è un posto a nord-ovest, poco oltre il bosco dove siete soliti cacciare. Un altopiano che ospita un Lago Lucente. – Il nonno gettò un'occhiata oltre l'uscio, verso il cielo, poi azionò il meccanismo che accendeva tutte le lampade che illuminavano il salone.

– Lo conosco – confermò Nelyafinwë, socchiudendo gli occhi davanti alla luce improvvisa. Non si era accorto che si era già fatto così buio.

– Raduna tutti – Finwë tornò verso di lui senza smettere di dettare ordini, – portate con voi armi e viveri, molte coperte, lanterne quante ne puoi trovare. Presto il buio sarà totale, e arriverà il freddo. Lascia i gioielli.

– Sì – rispose Nelyafinwë, mandando a memoria l'elenco. – E tu cosa farai… – chiese, – … signore? – aggiunse poi, ricordandosi che in quel momento era al Re che stava parlando.

Il nonno ignorò la sua domanda e continuò: – Assicurati che tutti i tuoi fratelli stiano bene e assegna loro dei compiti… 

– So cosa fare coi miei fratelli – Nelyafinwë afferrò il nonno per un polso, per paura che eludesse nuovamente la sua domanda.  – Tu che farai? – ripeté, sorpreso dalla propria audacia: non aveva mai osato interrompere il Re in questo modo, né aveva mai visto qualcuno fare altrettanto, salvo suo padre.

Ma Finwë, a quanto pareva, non aveva intenzione di eludere alcunché, perché rispose senza la minima esitazione: – Io lo aspetterò qui.

Nelyafinwë lasciò la presa. Per qualche motivo non si era aspettato una risposta così diretta, una risposta che, per di più, confermava il suo timore più grande: – È lui, vero?

– Sì – rispose il nonno, senza aggiungere altro.

Non c'era bisogno di ulteriori spiegazioni. Il Vala che aveva a lungo tentato di irretire suo padre aveva finalmente gettato la maschera su ciò che realmente bramava: l'opera più preziosa mai prodotta dalle mani di Fëanáro, e adesso stava venendo a prenderla.

Nelyafinwë cominciò a camminare avanti e indietro, ragionando ad alta voce: – Dobbiamo difenderli, dobbiamo custodirli… papà vorrebbe…

– Ragazzo mio – lo interruppe il nonno, – non avremmo la forza di proteggerli nemmeno se ci barricassimo nella fortezza armati di tutte le nostre armi, ed è troppo tardi per cercare di nasconderli altrove, ci è quasi addosso, e temo che non sia solo. Ma anche se lo fosse, non riusciremmo a sfuggirgli. Non dimenticare chi è.

Nelyafinwë riconobbe amaramente la verità alla quale era arrivato anche lui. Dopotutto gli stessi Valar non erano riusciti ad avere la meglio sul loro pari ribelle, nemmeno quando erano stati avvertiti del suo ritorno.

Si fermò davanti al nonno e solo lunghi anni di pratica nel contenere le proprie emozioni gli permisero resistere all'impulso di alzare la voce, o di stringere i pugni, o di manifestare la sua rabbia impotente in altri modi inopportuni.

– Quindi, non ci resta altro che… fuggire? – sputò fuori l'ultima parola, come un'imprecazione.

Ma Finwë si erse in tutta la sua altezza e un lampo attraversò i suoi occhi grigi screziati di celeste, occhi che riflettevano la potenza di colui che aveva condotto la sua gente attraverso terre popolate dalle ombre, che l'aveva governata sia sotto le stelle che alla luce benedetta, con coraggio, saggezza e quello spirito indomito che faceva di lui il primo di tutti i Noldor.

– Io sono Finwë Noldoran – disse, – e non cederò mai di un passo davanti a chi ha portato la sofferenza tra la mia gente.

Il significato di quell'affermazione colpì Nelyafinwë come un pugno nello stomaco.

– Allora…

Allora ti sacrificherai inutilmente, voleva dirgli, perché i Silmarilli andranno perduti in ogni caso, ma a causa della tua decisione mio padre soffrirà due volte, infatti di certo la tua vita è più importante per lui di tutte le gemme di questo mondo. Ma non riuscì a concludere la frase. Voleva credere che fosse così, voleva crederci con tutto il cuore, ma non ne era più tanto sicuro.

– Allora resterò con te – concluse, e nel dirlo ebbe la certezza di aver preso la decisione giusta.

Ma il nonno la pensava diversamente. – Nelyafinwë! – esclamò, enfatizzando la prima parte del suo nome come per sottolineare la gerarchia, – arriverà anche per te il momento di affrontare lo stesso nemico, ma non è ora. Adesso è il momento di obbedire al tuo Re.

Poi la sua espressione severa si ammorbidì un poco. – Tu sei un figlio della luce – disse, piano, e gli accarezzò una guancia, con un gesto carico di tenerezza, – ma io conosco l'oscurità, e non la temo. 

Nelyafinwë si trovò a guardare in quegli occhi sinceri, e all'istante seppe che era vero.

Allora provò ancora più forte la sensazione che il suo compito fosse proprio quello di restare a fianco del suo Re fino alla fine, e gli sembrò che nella sua vita non ci fosse poi più molto da perdere e che, anzi, se fosse rimasto, molte sofferenze sarebbero state risparmiate a lui e a tanti altri.

Ma poi il Re ordinò: – Ora va', ti affido i tuoi fratelli. Fëanáro avrà bisogno di tutti voi.

E Nelyafinwë chinò il capo in segno di obbedienza, o forse lo fece per indugiare un istante ancora contro la mano del nonno, in quell'ultima carezza.

Poi, come sempre, fece ciò gli veniva chiesto.

 

 

 

II

TYELKORMO

 

 

Quando Tyelkormo vide arrivare l'oscurità non ne fu sorpreso. Da diversi giorni le cose non erano come avrebbero dovuto essere. C'era una strana vibrazione nell'aria, come un'increspatura nel tessuto del creato, che rendeva gli animali irrequieti. Huan stesso non si allontanava mai dal suo fianco, e spesso si metteva a ringhiare, senza una ragione apparente.

Fino a qualche tempo prima, la sua reazione istintiva di fronte a queste anomalie, sarebbe stata chiedere consiglio al suo vecchio maestro, Oromë, colui che gli aveva insegnato, tra mille altre cose, come espandere le proprie percezioni per entrare in contatto con la natura che lo circondava.

Ma da quando il bando gravava sulla testa di suo padre, e ancor di più da quando le Potenze avevano fallito a catturare quell'infido doppiogiochista, nonostante fossero state avvertite dal nonno del suo ritorno, la fiducia di Tyelkormo nei Valar era calata drasticamente, e cominciava a nutrire forti dubbi anche sul suo mentore.

Non volendo addossare altre preoccupazioni ai fratelli, già tesi al limite della sopportazione, né tantomeno a Finwë, aveva chiuso la mente contro il turbamento del mondo e aveva atteso di vedere cosa sarebbe accaduto, aspettandosi il peggio.

E il peggio era arrivato il pomeriggio in cui erano calate le tenebre.

Lui si trovava nelle le scuderie, una costruzione di legno lunga e bassa, eretta sul retro della fortezza, e stava preparando il suo cavallo per raggiungere gli Ambarussa nel bosco.

Da quando il padre li aveva lasciati per quella strana convocazione, infatti, il piccolo aveva cominciato a mostrare segni di inquietudine e il gemello, con l'aria di superiorità che sfoggiava sempre quando il minore si mostrava incerto, come a voler sottolineare che potevano anche condividere l'aspetto ma oltre a quello poco o niente avevano in comune, aveva chiesto a Tyelkormo di accompagnarli a caccia per distrarlo. 

Gli Ambarussa erano partiti quel mattino per allestire il campo che li avrebbe ospitati per alcuni giorni e lui era impaziente di unirsi a loro; grazie a Eru l'esilio li costringeva a stare lontani dalla città, non a rimanere vincolati all'interno della fortezza. Non ne sarebbe uscito vivo, altrimenti.

Ma non appena mise piede fuori dalle scuderie, Huan, che lo seguiva da vicino, gettò il muso all'indietro e lanciò un ululato raggelante, che lo spinse a guardare in alto a sua volta. Il cielo sopra di loro aveva assunto una tonalità inconsueta, scura, ben diversa dal perlaceo di cui si tingeva quando Telperion si sostituiva al suo dorato compagno, o dal candore opaco di quando si rannuvolava per donare la pioggia alla terra. Era un fenomeno mai visto, inconcepibile. E sul quale non ebbe il tempo di ragionare perché, nello stesso momento, sentì le grida provenire dalla fortezza.

Tyelkormo lasciò il cavallo e cominciò a correre. Non in direzione dell'edificio principale, ma verso una piccola costruzione di mattoni, a pianta circolare, poco distante, dal cui tetto si innalzava un alto camino. Il fumo che ne usciva indicava senza possibilità di errore che chi stava cercando era lì.

Spalancò la porta della fucina, ignorando ciò che l'occupante della costruzione chiamava "la prima regola imprescindibile". Huan entrò al suo seguito, infrangendo un'altra serie di leggi non scritte.

– Curvo! – gridò alla figura di spalle, intenta al lavoro davanti al fuoco di forgia. – C'è qualcosa che non va.

– La tua presenza qui, tanto per cominciare. – Curufinwë si voltò verso di lui; tra le mani, rivestite da guanti che gli arrivavano fino al gomito, stringeva una lunga pinza di ferro. – Quante volte ti devo dire… – riprese, seccato, ma si interruppe quando il suo sguardo incrociò quello del fratello. Come sempre a Curvo bastava una singola occhiata per registrare ogni cosa e capire al volo tutto quello che c'era da capire.

Tyelkormo riconobbe quell'impercettibile contrazione della mascella, segno dello sforzo che il fratello stava facendo per mantenere il volto impassibile e, forse per la prima volta nella sua vita, lo vide fallire. – Papà… – sfuggì dalle labbra tese di Curvo.

– Papà se la cava benissimo da solo – tagliò corto Tyelkormo.

Vedere l'incertezza sul viso del fratello era inconsueto e spaventoso come… come assistere alla discesa delle tenebre, appunto. Tyelkormo distolse lo sguardo per concedergli il tempo di ricomporre la sua espressione indifferente senza metterlo in imbarazzo, poi tornò a fissarlo.

Agli occhi di tutti Curufinwë era tale e quale il padre e lì, nella penombra della stanza, con i capelli scuri legati in un'unica treccia, le braccia muscolose che terminavano nei guanti di pelle spessa, il torace coperto unicamente dal grembiule di cuoio, anche lui doveva ammettere che la somiglianza era impressionante. Persino la piega degli occhi, che gli conferiva uno sguardo sprezzante, ricordava quella del padre. In suo fratello era solo un po' più artefatta.

Ma Tyelkormo, forse per la sua capacità di percezione affinata in anni di allenamento o per una particolare predisposizione verso quel fratello, aveva imparato ad andare oltre l'aspetto fisico, oltre quella maschera di arroganza e di superbia che sempre l'altro sfoggiava. 

Ciò che vedeva lui, quando guardava Curvo, era un animale in gabbia. Sbarre costruite da lui stesso per proteggersi dal mondo intero, che avevano finito per intrappolarlo in una recita dell'Elda di cui portava il nome.

Tyelkormo sperava che prima o poi quella prigione sarebbe crollata, che suo fratello sarebbe stato libero di essere ciò che realmente era: un degno erede di suo padre, non la sua copia malriuscita. E non smetteva mai di provocarlo, per far sì che ciò accadesse, per non lasciare che si arrendesse ad essere nient'altro che il riflesso di un Elda, per quanto il più famoso, ma che facesse emergere la propria grandezza.

Ma ora, nel vedere sul volto di Curvo l'incrinarsi di quella maniacale compostezza, si chiese per la prima volta se non sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano, se quella prigione non fosse già divenuta un rifugio, e le sbarre un sostegno, e se il loro infrangersi non avrebbe arrecato al fratello non la liberazione, bensì la caduta definitiva.

Durò un istante, poi Tyelkormo scosse la testa, nel modo tutto suo di scacciare i pensieri scomodi; ciocche di capelli chiari gli ricaddero sul viso e se ne allontanarono. Veloce come era arrivata, la malinconia scomparve e lui tornò alla realtà. Non c'era tempo da perdere in inutili elucubrazioni.

Rapido, si avvicinò a una finestra e ne scostò la tenda, invitando Curvo a guardare fuori con un cenno del capo: – Cosa pensi stia succedendo? – domandò.

Suo fratello era il più giovane di loro, esclusi i gemelli, ma era anche il più svelto in quanto a capacità di analisi, secondo forse solo a Russandol. Tyelkormo non dubitava che lui avesse già la risposta. 

Curvo si tolse rapidamente i guanti e si avvicinò anch'egli a una finestra (non quella presso cui stava lui, notò Tyelkormo con una punta di amarezza), vi si affacciò e guardò il cielo. 

– Non lo so – rispose, con l'aria di chi aveva già fatto una decina di ipotesi e ne stava valutando le conseguenze. 

I due si scambiarono una breve occhiata e, in un attimo, si misero in azione, guidati quella profonda intesa che esisteva da sempre tra loro, nonostante il minore lo negasse.

Tyelkormo individuò la casacca rossa di Curvo appesa a un piolo e gliela tirò. Il fratello, che nel frattempo si era tolto il grembiule e l'aveva scagliato sul tavolo da lavoro, la prese al volo e la indossò con un ampio movimento circolare, che servì ad avvicinarlo a un ripiano su cui erano appoggiate alcune spade appena affilate. Tyelkormo richiamò Huan presso di sé con un cenno del capo, mentre protendeva il braccio destro in direzione del fratello, la mano aperta. Curvo, con la veste slacciata che gli volava attorno come un mantello, afferrò due spade e con un lancio preciso fece finire l'elsa di una delle due dritta nella mano che la attendeva.

Il tutto era durato quanto un battito di ciglia.

– Ma qualsiasi cosa sia, non ci coglierà impreparati – concluse Curvo, con decisione.

Tyelkormo soppesò la lama, e un lampo di sfida si accese nei suoi occhi. Con un'arma in pugno tutti i suoi sensi si allertarono all'istante. Ogni dubbio, ogni timore, ogni incertezza svanì davanti alla possibilità di affrontare qualsiasi minaccia a viso aperto, a fianco del fratello. Fu percorso da un brivido di eccitazione, sentì tutti i muscoli tendersi e percepì l'essenza di Huan che splendeva come fiamma poco distante. 

E quando Curvo gli passò accanto diretto alla porta, Tyelkormo fu investito dal calore della sua pelle a lungo esposta al fuoco, dall'ondata di rabbia che il fratello portava con sé per sottomettere la paura, e dal suo odore, di faville e metallo fuso.

– Seguimi – disse Curvo, come chi sapeva che sarebbe stato obbedito, e uscì.

Tyelkormo non se lo fece ripetere.

 

 

 

III

MORIFINWË

 

 

Morifinwë sollevò lo sguardo dal progetto al quale stava lavorando, con la chiara sensazione che qualcosa non andasse. In piedi, davanti al tavolo del laboratorio su cui era disposto un modello in gesso delle mura della fortezza, si passò una mano tra i lunghi capelli scuri, lasciandovi strisce di polvere bianca.

Gli sembrò di sentire un lamento insistente ai margini della percezione, che si affrettò a escludere dalla mente, e notò un leggero calo della luce, che attribuì a un improvviso rannuvolamento.

Non aveva tempo da perdere. Si era ripromesso di terminare il progetto per la fortificazione delle mura prima del rientro di suo padre, che poteva avvenire da un momento all'altro, per quanto ne sapeva lui. Morifinwë non aveva idea di quanti giorni sarebbe durata quella farsa.

Per un attimo ripensò a quanto si era indignato nel vedere Fëanáro partire così, disadorno, quasi dimesso, come un qualunque Elda di basso rango (anche se, trattandosi di suo padre, non avrebbe mai potuto passare per un Elda qualunque, a prescindere dal rango). Poi le parole di Curvo, stranamente prive di sarcasmo, gli avevano chiarito il motivo di quella scelta: "Mai concedergli quello che vogliono, se li vuoi mettere in difficoltà." E lui aveva capito: tra suo padre e le Potenze ormai era scontro aperto.

Morifinwë scosse la veste amaranto per allontanarne la polvere di gesso, ottenendo solo di aggiungervi altre chiazze chiare. Ogni volta che gli capitava di ripetere quel gesto, gli sembrava di sentire ancora sua madre che gli diceva di indossare almeno un grembiule prima di lavorare la pietra. Si sforzò di abbandonare quel pensiero, che non avrebbe portato altro che dolore, e di tornare a concentrarsi sul suo lavoro.

Ma in quel momento capì cosa l'aveva distratto. Non un contatto mentale indesiderato, non l'insolito calare delle ombre, ma una voce.

Russandol stava gridando. Lo sentiva impartire ordini dalla finestra aperta sul cortile.

Morifinwë si mise in ascolto, facendo inconsciamente scorrere il labbro inferiore tra i denti. Il maggiore dei suoi fratelli era capace di farsi obbedire senza mai alzare la voce, bastava che dicesse una parola e tutti erano lì a pensare che fosse la cosa più ragionevole da fare. Se ora stava gridando, questo poteva significare una cosa soltanto: erano in guai grossi.

Tuttavia lui non era uno che si faceva prendere dal panico con facilità. Aveva delle certezze e, nonostante tutto quello che era successo negli ultimi anni, ancora ci si aggrappava testardamente, sfoggiando di volta in volta indignazione, o indifferenza, a seconda del caso, quando provavano a contraddirlo.

Una di queste certezze era che nulla di irrimediabile poteva accadere nella Terra Benedetta.

Le difficoltà a cui tutti loro potevano andare incontro nel Reame Beato non erano nulla se paragonate a quelle che molti dei suoi simili avevano dovuto affrontare quando abitavano nelle Terre ad Est. Aveva letto molti testi che ne parlavano, e conosceva diverse persone, tra cui suo nonno, che erano nate e avevano vissuto per lungo tempo in Endor. Si era fatto raccontare cosa significava vivere dove la luce era scarsa, dove bisognava faticare anche per trovare il cibo, dove si aggiravano creature malvagie e le belve feroci vagavano libere, e la terra stessa era ostile. Gli avevano parlato di venti capaci di sradicare gli alberi e di tuoni che provenivano dal sottosuolo, che potevano spaccare il terreno come fosse legno secco.

Quelle erano cose di cui preoccuparsi, e di cui si sarebbero preoccupati, pensò Morifinwë con un brivido misto tra la paura e l'eccitazione, se suo padre avesse continuato ad andare dritto sulla strada che aveva intrapreso. Ma qui niente di grave poteva loro accadere. Qui, all'ombra del Taniquetil, dove il Signore del Respiro di Arda si diceva fosse in contatto con lo stesso Eru, tutto era sotto controllo.

Eppure adesso sentiva Russandol che gridava, e non c'era certezza che potesse cancellare questo fatto.

Lasciò il tavolo e si affacciò alla finestra. Il laboratorio prendeva un'ampia sezione del piano terra dell'edificio e delimitava il lato ovest del piazzale, che in quel momento era più affollato del solito. Molte persone andavano e venivano trasportando oggetti che ammassavano sul pianale di un carro. Morifinwë riconobbe provviste, pellicce, molte lampade e altri pacchi di cui non riuscì a indovinare il contenuto. Ad un tratto vide Curvo, con la veste insolitamente in disordine, e Tyelko, seguito da Huan, arrivare insieme con un carico di armi.

Morifinwë si sporse per cercare il maggiore dei suoi fratelli, seguendone il suono della voce, e lo trovò poco distante, di spalle, alto e sicuro, a dirigere quel caos apparente senza mostrare incertezze.

Come se avesse percepito la sua presenza, Russandol si voltò e lo vide.

– Moryo, per tutti i Valar! – gridò, – recupera Káno e venite ad aiutarci!

Morifinwë si accorse solo in quel momento dell'assenza di Káno, e forse fu proprio questo che lo spinse a non perdere altro tempo e ad affrettarsi a eseguire ciò che gli veniva chiesto. I due maggiori avevano sempre avuto un rapporto speciale, ma da quando erano a Formenos sembravano diventati inseparabili. Káno difficilmente lasciava il fianco di Russandol.

Lanciò un ultimo sguardo al modello abbandonato sul tavolo, con la spiacevole sensazione che il suo lavoro incompiuto sarebbe rimasto tale, e si precipitò fuori dal laboratorio, su per le scale, per attraversare la fortezza fino alla stanza del fratello.

Káno aveva la camera più grande, non solo per poter tenere con sé i suoi numerosi strumenti o per una questione di acustica, come aveva detto al padre per giustificare la sua richiesta, ma perché per lungo tempo era stato convinto che la moglie l'avrebbe raggiunto in esilio. Non era stato così, nessuna di loro l'aveva fatto.

Morifinwë avanzò con cautela. Era una stanza molto accogliente, e, di solito, molto luminosa, perché aveva un'ampia terrazza rivolta a sud, affacciata sul viale d'accesso che tagliava il parco per arrivare dritto al cancello tra le mura. Ora la luce era così scarsa che i mobili emergevano come sagome amorfe dalle ombre: il letto, una lunga cassapanca, un tavolo dalle linee aggraziate, la grande arpa in un angolo, un divano coperto da cuscini dai colori ormai spenti.

Nessuna traccia di Káno. Morifinwë fece per tornare sui suoi passi, quando la sua attenzione fu attratta dall'arco che dava sul terrazzo, attraverso il quale, come in uno specchio distorto che trasformava la realtà nel suo opposto, sembrava entrare la tenebra invece che la luce.

Lo oltrepassò, sentendo le proprie certezze che pian piano andavano in frantumi. Ciò che vide lo sconvolse al punto che sulle prime non si rese nemmeno conto di aver trovato chi stava cercando. 

L'orizzonte, perennemente acceso dall'uno o dall'altro Albero, o dal fondersi delle due radianze in quel miracolo di sfumature di cui l'occhio non si sarebbe mai saziato, ora era un ribollire di dense nuvole nere, come polvere di carbone fattasi liquida, un'eruzione pulsante dal cui cuore si dipanavano grigi tentacoli che invadevano il cielo, come dita scheletriche che ghermivano la luce.

Davanti a questo incubo fattosi reale, Káno si ergeva immobile. Le mani avvinghiate alla ringhiera, gli occhi spalancati sulla catastrofe, i capelli onde scure che assecondavano il soffio incostante di un vento malato. 

Non un battito di palpebre, non un alzarsi e abbassarsi del torace al ritmo del respiro sotto la sua camicia leggera, che si gonfiava quando l'aria penetrava a raffiche dallo scollo sul petto. Morifinwë fu scosso da un tremito e si accorse solo in quel momento di avere freddo.

– Káno! – esclamò, sperando contro ogni logica che bastasse questo per strappare il fratello da quella stasi innaturale.

Ma l'altro non diede segno di averlo sentito.

Morifinwë esitò. 

Non sapeva mai come reagire davanti alle richieste d'aiuto, e ancor meno sapeva reagire quando l'aiuto, seppur necessario, non veniva richiesto. Semplicemente, non era mai stato il suo ruolo. In famiglia c'era Tyelko al quale appoggiarti, se finivi in guai che non volevi arrivassero alle orecchie dei genitori, Káno se avevi bisogno di conforto, Curvo per lo studio (posto che avessi qualcosa da dargli in cambio) e Russandol per tutte queste cose insieme. Morifinwë non era avvezzo al ruolo dell'aiuto. Era più abituato a quello di colui che si tiene in disparte.

Quando era nato, i suoi tre fratelli erano già piuttosto grandi e lui era rimasto un po' isolato. Non che gli fosse importato poi molto, a lui non dispiaceva affatto starsene solo, di quando in quando. I rapporti con gli altri, li trovava faticosi. Preferiva passare per un insensibile, piuttosto che esporsi nel tentativo di comunicare le proprie emozioni, preferiva sembrare meno intelligente di quello che era, che affannarsi a trovare le parole giuste per esporre i concetti.

E anche se il suo carattere introverso col tempo si era ammorbidito, soprattutto a causa dell'esuberanza incontenibile di Tyelkormo che aveva finito per coinvolgerlo quasi di forza nella vita dei fratelli più giovani, nei confronti dei due maggiori la soggezione non era mai stata superata completamente, e provava per loro ancora un po' di quella riverenza che di solito si riserva ai genitori. 

Il che gli rendeva più difficile affrontare la situazione attuale. Era anomala, scomoda, a ruoli invertiti.

Torturandosi tra i denti il labbro inferiore, cercò di pensare a cosa avrebbe fatto Russandol, e non riuscì a darsi una risposta. Pensò per un attimo di andare a chiamarlo, ma l'orgoglio lo bloccò.

Alla fine, sull'orlo del panico, urlò: – Che cos'hai? 

Che idiota, lo sapeva benissimo che cosa aveva. Quell'involontario tentativo di intrusione mentale, che lui aveva scacciato senza nemmeno pensarci, in suo fratello doveva aver preso il sopravvento. Káno era sempre stato molto propenso all'apertura della mente, ricettivo verso tutti. Troppo disponibile. Troppo fiducioso. 

– Devi chiuderli fuori! – gridò, col terrore che cresceva, non osando ancora toccarlo. 

Alla fine, colto dalla disperazione, gli afferrò i polsi e gli strappò le mani dalla balaustra, tirandolo verso di sé per evitargli di cadere in avanti. Káno, perdendo la presa gli finì addosso. Rialzando la testa dal suo petto, il fratello gli rivolse un'occhiata confusa: – Russa… – cominciò, – Moryo?

– Ehm, già. – Morifinwë arrossì. Farei volentieri a meno anch'io di essere qui. Voleva dirgli, con asprezza.

Invece chiese: – Come stai?

– È… è passato – balbettò Káno, con l'aria di stare anche peggio di prima. Brividi sulla sua pelle e la fronte imperlata di sudore, gli occhi colmi di spavento. Poi aggiunse: – Grazie, Carnistir.

Morifinwë indietreggiò di un passo, a disagio per l'intimità evocata da quel nome e per le parole di gratitudine, che non era abituato a ricevere. Stringeva ancora i polsi del fratello e temette di essere sul punto di fare qualcosa di stupido, come abbracciarlo, o tirargli uno schiaffo per riportarlo alla realtà con modi più drastici, ma prima che potesse decidersi, Káno mormorò: – È la fine del mondo.

– Non lo è affatto – reagì Morifinwë, fingendo spavalderia. Era un atteggiamento talmente radicato in lui, che nemmeno si accorse di quanto risultava fuori posto.

– Papà sistemerà tutto – insistette, e, nel pronunciarle, si accorse di non credere a una sola parola. – Oppure lo farà il nonno – si corresse.

Ma Káno scosse la testa, si sfilò dalla sua presa, e lo precedette di corsa nel corridoio.

 

 

 

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Note finali

01.
Grazie a tutti per aver letto! E un grazie particolare alle ragazze che in questi giorni, con i loro consigli o con le loro parole incoraggianti, mi hanno dato fiducia per procedere con la scrittura: Kanako91, Melianar e Tyelemmaiwe.

02.
Nomi e titoli
Fëanáro = Fëanor
Noldoran = Re dei Noldor
Signore del Respiro di Arda = Manwë

03.
Maedhros e Celegorm fanno riferimento a un episodio narrato nel Silmarillion. Quando Melkor, dopo un periodo di latitanza, si presenta a Formenos e viene respinto malamente da Fëanor, Finwë invia dei messaggeri a Manwë per riferirgli dell'accaduto, ma Oromë e Tulkas non fanno in tempo a mettersi sulle sue tracce.

04.
Il Lago Lucente
"Le rugiade di Telperion e la pioggia che cadeva da Laurelin, Varda le conservava in grandi tinozze simili a laghi lucenti, che per tutta la terra dei Valar erano come sorgenti di acqua e di luce". (Quenta Silmarillion, cap. 1 - L'inizio dei giorni)

05.
Tolkien sostiene che la trasmissione del pensiero sia rafforzata da alcune condizioni di urgenza, tra cui dolore e paura. Ho immaginato che gli Eldar, davanti alla morte degli Alberi, abbiano provato entrambe le cose in modo così intenso da comunicarlo involontariamente a tutti i loro simili. In ogni caso Tolkien precisa anche che "se, accorgendosi di stare ricevendo un pensiero, la mente si chiude, nessuna urgenza o affinità permetterà al pensiero del trasmittente di entrare". (Ósanwe-kenta)

 

  
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