Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: talkingdead    14/06/2016    0 recensioni
“ [...] Portavano lo stesso mantello, spiegavano le stesse ali e attingevano ossigeno dalla stessa ostinazione che li aveva spinti ad incontrarsi. I loro mantelli erano strappati, rovinati, e portavano con sé le cicatrici di battaglie vissute, eppure custodivano ancora lo stemma che dava loro ragion d’essere; le loro ali erano ferite e stanche, ma niente avrebbe impedito loro di continuare a volare. Puntare alto, andare lontano, avere un obiettivo: trovare qualcosa per cui proseguire. [...] ”
‹ ! › SPOILERS (capitoli 81-82) + missing moments.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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VOLARE LONTANO, INSIEME
RICORDATI DI COME SI FA A VOLARE
capitolo 02 - Levi (81)

Stringeva il mantello tra le mani, senza preoccuparsi di sciuparlo ma curandosi di non rovinarlo ulteriormente. Poco faceva di quella stoffa un indumento, e di certo non erano le pieghe e gli strappi. Era piuttosto quell’abitudine che gli imponeva di attaccarselo all’uniforme; la necessità di sentirsi libero, non più privo delle ali della libertà che aveva già provato a domare. Il suo sguardo era fisso su una striscia scura che ledeva come marciume quel verde che altresì sarebbe valso la speranza della gente, ma non la sua. Lui non vedeva nient’altro che la mera realtà; i sogni, per quello che lo riguardavano, erano già svaniti da tempo; al posto loro, le occhiaie scandivano il metro di quanto fosse sporca quella vita, incorniciando lo sguardo cinico, critico e severo delle difficoltà che già erano passate e di quelle che si sarebbero scomodate a tornare. Era  nuovamente rimasto solo.

“ Farai meglio a tornare tutto intero, Aniki. Ad ogni costo. ”
 
Aveva provato a pulire, con un lembo di quella stoffa così preziosa, le gote smorte di Isabel. Lo aveva passato con cura sulla sua pelle, svelto quanto la prontezza di doversi rialzare e tornare a combattere gli aveva imposto come ritmo. Si specchiava nei suoi occhi vitrei senza riuscire a vedere niente, e mentre l’angolo di quel mantello si tingeva inesorabilmente di rosso, la sua immagine scivolava come un’ombra nel cupo significato di quella morte: uno zero così tondo che occupava la mente e ingombrava le membra; uno zero al tempo stesso così spigoloso che faceva male. Quella morte che valeva molto per lui, e che, eppure, non era valsa a niente nella via verso il riscatto dell'umanità.

“E’ un ordine, Rivaille?”
 
La voce di Farlan gli giungeva ancora alle orecchie, come se l’eco di un timbro così famigliare fosse stata l’ossessione più estranea di qualcosa che l’avrebbe tormentato per sempre. E, in fondo, lui sapeva che sarebbe andata così. Quando glielo aveva chiesto, le sue ultime parole avevano mandato in tilt il cervello mirando a tutt’altra parte, sfregiando il cuore ma colpendo lo stomaco. Si era sentito scuotere da brividi che non avevano niente a che fare con la pioggia che era il principale innesco di quella disfatta. Un ordine, come poteva essere un ordine? Se fosse stato davvero ciò che l’aveva definito l’amico, sicuramente sarebbe stato tutto diverso. L’ordine, per Levi, non era dettato dal caos, ma dalla piena consapevolezza di avere tutto sottocontrollo; in quella situazione, quello era tutto fuorché un ordine. Non si era mai trovato davanti niente di più disordinato, e si sentiva come ad un bivio, lo sguardo offuscato da un’incognita più grande della scelta che gli si parava a pochi secondi di distanza,  mentre brandiva e muoveva alla cieca la sua fermezza e la determinazione nel tentativo, forse un po’ vano, di camuffare quella sicurezza che oscillava pericolosamente al ritmo di zoccoli impantanati nel terreno e di sillabe che rimanevano incastrate in gola. E mentre si allontanava, era sicuro di vedere i loro mantelli volare come le ali che avevano sempre desiderato. Ali rese pesanti dalla pioggia, che però invece di prendere il volo si schiantavano piano piano a terra.
 
Voi siete… io voglio…
 
Aveva già imparato a capire la differenza tra quello che voleva lui e ciò che erano loro. Lui, fino all’ultimo istante, aveva sperato di trarli in salvo da una situazione estrema, e aveva puntato verso l’ultimo nodo di quella corda che avrebbe significato la vittoria, ma non aveva potuto prevedere che ci fosse un altro estremo, dopo quel traguardo, che avrebbe permesso a quell’appiglio spazio e motivo sufficienti per ucciderli, tutti quanti. Seguire e trovare Erwin per eliminarlo gli era sembrata la giusta soluzione, e aveva fatto della pioggia la sua complice, senza aver messo troppo in conto che quella aveva già preso le parti nemiche e s’era fatta assassina, pronta a corrodere come l’acido due vite così preziose, dietro al fetore delle fauci spalancate di giganti travestiti da morte. Voleva solo proteggerli, e, credendo di averli semplicemente lasciati, aveva finito con l’abbandonarli. Avrebbe voluto più tempo, stare con loro e mantenere le sue promesse. Non c’era bisogno che esprimesse quelle parole: lo sguardo diceva ciò che lui non riusciva a intrappolare in un suono, e quando quello era nascosto dal cappuccio e dal mantello, ci pensavano i gesti e i ricordi a colmare la necessità di palesare tutto ciò. Nessuno, tra Farlan e Isabel, avrebbe mai osato sostenere il contrario e preteso di ignorare ciò che era scolpito ovunque: loro erano i suoi unici amici, il tesoro più grande di uno che aveva dovuto subire per anni le avances smoderate della miseria. Loro lo avevano compreso e si erano fidati.
E Levi si era ritrovato a strappare lo stemma ambiguo delle ali della libertà dal corpo esanime di entrambi.
Come si era poi arrangiato con Petra e gli altri: raccogliere i cadaveri e coprirli sotto la stoffa che li rendeva tutti uguali, tutti immobili, come oggetti. Punti e trofei di una partita giocata tra l’autodistruzione e l’annientamento da parte dei nemici. Loro si fidavano.

Bastava un colore sparato in aria per comprendere il pericolo: la strategia di Erwin era geniale, eppure non abbastanza sufficiente. Quei colori, nella mente di Levi, si offuscavano e si mescolavano tra di loro: non erano più quel verde, quel rosso o quel nero a seconda di ciò che incontravano. Era tutto uno scherzo, come se quei pigmenti si concentrassero sul grado di ordine che occupava la mente del caporale.  Ma non era più un problema, vero? Non sarebbero più serviti, eh, Erwin? No, perché lui avrebbe ucciso il Titano Bestia. E no, perché non ci sarebbe stato più nessuno da avvisare del pericolo dei Titani: chi fa da esca non può pretendere di vivere per sempre: eccoli, gli ultimi colori sparati contro il nemico, che segnalano la posizione, metro più metro meno, dove moriranno tutti!

Mentre lasciava che il sangue dei Titani lo raggiungesse, sporcandogli il volto e macchiandogli nuovamente l’uniforme, Levi cercava di limitare nel più breve tempo possibile la distanza tra lui e l’obiettivo. Dietro di sé non stava lasciando solo cadaveri putridi di bestie infami o quello che erano, ma anche amici, famiglie, compagni; nomi e volti da aggiungere alla lista infinita dei caduti. Una manovra più brusca delle altre gli permise di sopraffare un altro gigante, ma gli procurò anche un taglio sul braccio. Da quella ferita, il sangue cominciò presto a tracciare il contorno sempre più spesso del dolore che provava, e impregnò la stoffa intreccio dopo intreccio. Sentire il proprio sangue e la propria carne così esposta lo faceva sentire nudo, più vicino al suo momento finale, ma anche e specialmente più vivo. Quel brandello dell’uniforme gli ricordava di come, alla fine, tutto riconducesse alla solita trama, all’unico filo conduttore che intrecciava tutti gli altri, strappati dalla stessa matassa informe, e disposti così in un tessuto ordinato che li legava insieme e li annodava come per ricordare che nessuno di loro poteva fare a meno dell’altro. Isabel, Farlan, Petra, Auruo, Erd, Gunther, Hanji, Erwin – Quel reticolato di volti e ricordi era  davvero destinato a scucirsi?
Per l’ultima volta, guardò indietro, e ciò gli valse la constatazione più amara della sua vita che tornò a bussargli come se ancora si aspettasse qualcosa da lui: vide Erwin disarcionato, cadere da cavallo e non alzarsi più. Anche l’ultima persona che si era ripromesso di proteggere aveva finito per classificarla come un debito da aggiungere a tutto quello che la vita gli aveva tolto, o che lui aveva tolto alla vita. Poteva essere ancora vivo?

Voi siete… io voglio…
 
Avrebbe voluto tante cose, ma specialmente che nessuno di loro se ne fosse andato o che fosse rimasto, a seconda dei casi.
In quel momento poteva desiderare tante cose, ma quello che loro erano stava lì, inciso come un epitaffio: erano tutti, inesorabilmente morti.
La sua maledizione era diventata una danza macabra intorno allo sguardo cinico che aveva forgiato con la sconfitta: la morte si adagiava sulle sue occhiaie appesantendo lo sguardo e il cuore, gonfio di lacrime e rabbia che non sarebbero mai riemerse totalmente. Ovunque posasse le iridi grigie vedeva il nero della morte e il marciume dei giganti che lo accerchiavano. Aveva fallito ancora una volta: la sua era stata una dose eccessiva di fiducia riposta in una scelta sbagliata che gli era costata la vita degli ultimi amici. Eppure non poteva arrendersi, anche in quella situazione così tragica: il suo istinto di sopravvivenza si era appigliato alla consapevolezza di un ultimo sguardo amico che di sicuro avrebbe voluto incrociare di nuovo. Quegli occhi chiari che a lui mancavano; tutto ciò di cui aveva bisogno, la prospettiva secondo cui avrebbe comunque potuto ritrovare la speranza. Eren.
E all’improvviso si ricordò di come si fa a volare.
   
 
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