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Autore: GirlWithChakram    17/06/2016    5 recensioni
Max Caulfield, neolaureata, è riuscita ad ottenere la possibilità di lavorare per la nota rivista di arte "FRAME", creata e gestita da Mark Jefferson, suo professore ai tempi della Blackwell Academy. Trovandosi con il compito di individuare un artista emergente da portare sotto i riflettori, la giovane non ha idea che il destino metterà sul suo cammino, nel modo più inaspettato, una pittrice dal passato problematico. Cosa accadrà quando l'arte porterà a convergere le loro vite altrimenti destinate a non incrociarsi mai?
[Pricefield]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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II: Alluring Roses’ Thorns | Affascinanti spine di rose
 
Uno scossone mi destò, strappandomi da un sogno troppo confuso per essere ricordato con precisione. Stavo camminando da qualche parte, dentro un edificio, quando aveva iniziato a piovere dal soffitto, ma non avevo fatto in tempo ad alzare la testa che ero ormai sveglia.
«Max!» gridava il mio coinquilino, scuotendomi «Devi andare al lavoro!»
Il mio cervello iniziò a funzionare all’improvviso udendo quelle parole. Non potevo essere in ritardo già il primo giorno.
«Merda!» imprecai «Che ore sono?»
«Le otto e mezza» rispose, facendo un passo indietro, cosicché potessi alzarmi «Se ti sbrighi, posso guidare come un matto e farti arrivare in tempo, ma devi essere pronta tra meno di un quarto d’ora.»
«Agli ordini!» esclamai, scattando in bagno.
Dieci minuti dopo ero nuovamente in camera, mi stavo infilando le scarpe e nel frattempo lavando i denti. L’operazione era tutt’altro che semplice: rigiravo lo spazzolino in bocca, con la schiuma che rischiava di colare a macchiarmi la camicetta, mentre le mani erano impegnate a stringere i lacci delle scarpe che non volevano proprio collaborare.
Saltellai ancora una volta fino in bagno, rischiando di rovesciare la bacinella e di schiantarmi contro il bordo rialzato della doccia, non riuscii a comprendere quale forza invisibile mi permise di restare in piedi.
Arrivai al lavandino e sputai spazzolino e schiuma, sciacquando rapidamente il tutto, poi mi spruzzai il viso e lavai le mani. Le asciugai addosso a Warren che mi seguiva come un’ombra, incitandomi a far presto.
«Andiamo» dissi, agguantando la borsa e la giacca, uscendo sul pianerottolo.
Ero talmente sovrappensiero che quasi non mi accorsi di aver urtato una persona che stava salendo le scale.
«Guarda dove vai, idiota!» urlò un uomo.
Mi soffermai a guardarlo per pochi istanti. Aveva una zazzera biondo sporco che faceva compagnia ad una barba ispida, indossava abiti anonimi e stringeva al petto uno zaino logoro.
«Fatti da parte, stronzo» intervenne Graham, spuntando alle mie spalle.
«Ragazzini balordi» commentò ancora lo sconosciuto, riprendendo l’ascesa «Muoviti, Pompidou!»
Un istante dopo, un cane meticcio, scodinzolando, raggiunse il padrone.
«Non sono permessi animali nel condominio» fece presente il mio amico in tono polemico.
«Cosa fa il mio cane non è affar tuo, moccioso» replicò l’altro «Andate all’inferno.»
Afferrai Warren per una manica, facendogli segno di lasciar perdere e tirandomelo dietro nello scendere le scale.
Arrivammo all’automobile e ci fiondammo verso il palazzo di FRAME.
Il mio coinquilino mi lasciò esattamente di fronte al portone, permettendomi di scattare con un balzo verso l’interno, alla volta dell’ascensore.
Dovetti aspettare un minuto prima che le porte dell’elevatore si spalancassero con il tipico ding. Entrai, realizzando di essere rimasta praticamente in apnea per tutto quel tempo. Tirai un profondo sospiro di sollievo, che durò fino a che non raggiunsi il quattordicesimo piano.
La mia corsa riprese, portandomi al banco dietro cui Taylor era già sistemata, intenta, questa volta, a limare le preziose unghie.
«Salve, Maxine Caulfield» mi sorrise «Col fiatone già oggi?» commentò notando il mio viso stravolto.
«Mi sono dimenticata di puntare la sveglia» spiegai «Jefferson si è accorto della mia assenza?»
«Oh, lui non è ancora arrivato… Di solito, a meno che non abbia qualche riunione, non si fa vedere prima delle undici» mi spiegò la segretaria «Però Victoria ha chiesto di lei.»
«Dammi pure del “tu”» rantolai, cercando di regolarizzare la respirazione «E dove posso trovarla? Devo spiegarle cosa è successo e farmi assegnare i compiti.»
«Ultima porta a destra nel corridoio di ieri» mi comunicò «Buona fortuna» aggiunse «La signorina Chase mi è sembrata piuttosto tesa prima.»
«Grazie» mormorai, iniziando ad avanzare nella direzione indicatami.
Raggiunsi l’ufficio con la targhetta “V. Chase” e bussai.
«Avanti.»
Presi l’ennesimo respiro profondo ed entrai.
«Qui non tolleriamo i ritardatari» furono le parole con cui venni accolta.
Avrei voluto sprofondare nel pavimento, pur di non dover affrontare la mia ex-compagna di classe.
«Tuttavia Mark ha insistito affinchè ti dessimo una possibilità, quindi per questa volta lascerò correre» proseguì Victoria, sistemandosi la spilla d’oro attaccata al maglioncino di cachemire.
«Grazie, mi spiace davvero, non si ripeterà più» sciorinai rapidamente, piegando il capo più e più volte in segno di scusa.
«Adesso puoi anche andare» mi disse la Chase «Chiedi a Taylor che ti indirizzi verso la sezione editing. Dovrai cominciare leggendo e selezionando alcuni articoli dei numeri passati, cercando qualche artista che potremmo ricontattare per i fascicoli futuri, poi dovrai assistere uno dei nostri senior editor per sistemare un articolo per il numero del prossimo mese.»
Senza possibilità di rispondere, la fotografa mi invitò ad uscire ed io la lasciai sola, tornando dalla Christensen.
«Devi scendere sesto piano» mi spiegò la segretaria «Cerca Juliet Watson o Dana Ward, ti aiuteranno ad orientarti.»
La ringraziai ancora una volta e ripresi l’ascensore.
Al decimo piano, l’elevatore fece una tappa imprevista, facendo salire un giovane uomo con le braccia colme di vecchie riviste di FRAME.
Mi osservò incuriosito, per poi domandare: «Sei quella nuova?»
Annuii, tendendogli la mano, senza pensare. «Max Caulfield.»
Lui ridacchiò, rinsaldando la presa sui magazines. «Ti stringerei volentieri la mano, ma come vedi sono occupato.»
Mi diedi della stupida, cercando di mascherare l’imbarazzo con un sorriso.
«Sono Daniel DaCosta, consulente artistico» continuò.
«Che cosa fai esattamente?» domandai, rinunciando a qualsiasi formalità.
«Perlopiù seleziono le opere da inserire e decido quali scatti siano migliori, per esempio nel caso di sculture che necessitano di essere esaminate da diverse angolazioni. In più, ogni tanto, il capo mi lascia infilare i miei disegni tra i lavori degli emergenti, facendo circolare il mio nome tra la gente che conta.»
«Un compito importante, quindi» commentai.
«Sì, non sono certo una celebrità come Nathan o Victoria» si affrettò ad aggiungere «Ma ho una certa influenza nell’ambiente.»
Continuai a sorridere, osservandolo. La corporatura robusta e il viso rotondo su cui spiccava un paio di occhiali spessi mi davano l’idea di qualcuno che fosse stato preso molto in giro da ragazzo, ma l’uomo di fronte a me sembrava sicuro e molto a proprio agio. L’arte doveva avergli davvero cambiato la vita, rendendolo fiero ed orgoglioso di sé.
«Siamo arrivati» mi riscosse, dandomi una lieve spallata «Sesto piano.»
Scendemmo entrambi e Daniel mi accompagnò ad una delle scrivanie libere, isolate le une dalle altre da alcuni divisori piuttosto anonimi per essere quelli del centro operativo di un mensile di arte.
«Immagino che mi abbiano chiesto di portare in giro queste perché tu potessi averle» sbuffò DaCosta, appoggiando il pesante fardello «Le stavo riguardando per trovare un po’ di ispirazione, ma saranno decisamente più utili a te.»
Si congedò poco dopo, tornando ai piani alti per continuare con il proprio lavoro.
«Quella nuova!» esordirono alle mie spalle due nuove voci.
Voltandomi, vidi due donne, una dai capelli rossi e gli occhi blu, l’altra con una ordinata chioma castana ed iridi della stessa tonalità, che mi si avvicinavano.
«Dana Ward» si presentò la prima.
«E Juliet Watson» fece altrettanto la seconda.
«Max Caulfield» replicai automaticamente.
«Sua stronzaggine suprema ci ha ordinato di tenerti d’occhio per oggi, dicendoti anche come sbattere le palpebre» riprese Juliet, in tono scocciato «Victoria sa essere una vera e propria spina nel culo.»
Non mi parve possibile che dopo neppure un minuto di conoscenza, già fossi coinvolta nelle critiche ai superiori.
«Comunque» si intromise Dana «Sappiamo che ti avrà affibbiato qualche lavoro barboso, tipo analizzare tutta quella pila di roba» andò avanti, indicando le riviste «Per poi fare l’avvoltoio ad osservare una di noi che si guadagna la paga.»
«In effetti, è andata proprio così» risposi.
«Allora prendi una ciambella» continuò la rossa, allungandomi una scatola rosa «E poi mettiti d’impegno. Se sopravvivrai alla prima settimana, il resto sarà tutto in discesa.»
Aprii il contenitore e scelsi un grosso, unto, donut ricoperto con scagliette di cioccolato.
«Benvenuta nella famiglia di FRAME!» strillarono all’unisono, prima di scomparire in mezzo alla selva di scrivanie.
Studiai l’ambiente circostante, notando diversi impiegati, per la maggior parte giovani, intenti a passarsi fogli pieni di scritte e di immagini riproducendo il brusio di un enorme alveare. Ognuno aveva il proprio compito e sapeva esattamente come muoversi e cosa fare. Avrei dovuto iniziare anche io a cercare di integrarmi.
Mi buttai anima e corpo nella ricerca, come mi era stato suggerito di fare.
Iniziai dall’ultimo numero uscito, il trentottesimo, datato febbraio 2019. La star del fascicolo era una donna africana che aveva iniziato a costruire sculture con i rifiuti rinvenuti nel proprio villaggio, assemblando gli scarti insieme a bastoni intagliati ed ossa di animali.
Lessi qualche brano qua e là, soffermandomi in particolare su quelli inerenti alla fotografia, il mio campo di specializzazione, poi passai ad un altro numero.
Retrocedetti fino al trentesimo quando iniziai un po’ ad annoiarmi, notando che non erano neppure le undici e mezza. Doveva passare ancora più di un’ora prima della pausa pranzo.
Decisi di prendere un numero a caso, che mi ispirasse particolarmente.
Scelsi il ventiquattro.
Scorsi le pagine di un pittore surrealista polacco, la cui opera in copertina mi aveva spinto a scegliere quella rivista. I suoi lavori erano bizzarri, ma sentiti, emozionanti, mi piacevano molto. Lessi con interesse le parti di intervista in cui l’artista raccontava di come avesse trovato l’ispirazione per il primo quadro osservando la nonna che passava l’aspirapolvere.
Andai avanti, trovando una lunga disquisizione su una mostra itinerante esposta al Guggenheim Museum di Bilbao. Sorvolai sul processo di decorazione della ceramica presentato, ironia della sorte, dal professor Howard Potter, vasaio di nome e di fatto.
Le ultime pagine erano dedicate alle “nuove proposte”, erano quelle in cui sarebbe stato più facile rinvenire quanto richiesto dalla Chase.
Uno dei disegni presenti attirò la mia attenzione, perché la figura ritratta era, senza dubbio, la mia nuova collega Dana. In basso a destra c’era la firma dell’autore. Riconobbi una D, una A e un’altra D, una sigla quanto mai originale.
Mi feci un appunto mentale ed andai avanti, affrontando il numero quindici, che mi aveva attirato con la sua scultura di stampo futurista.
La pausa pranzo arrivò prima che me ne rendessi conto. Come ad un segnale convenuto, una dozzina di teste di alzò da schermi ed appunti per concentrarsi sull’azione del masticare i più diversi cibi.
Al mio naso giunsero sentori di spezie sconosciute, profumi di oli, aceti e salse varie, odori di fritti ed insalate.
Il mio stomaco brontolò in protesta. Nella fretta della fuga da casa, avevo dimenticato di prendere il pranzo, che comunque non sarebbe stato gran che vista la penuria contenuta nel frigorifero dell’appartamento.
«Fame?» domandò una voce nota.
«Warren!» esclamai «Cosa ci fai qui?»
«Ho pensato di rifocillarti» sorrise, porgendomi un panino ben imbottito e una bottiglietta d’acqua.
«Grazie, mi serviva proprio» mormorai, iniziando a mangiare.
«Di nulla, milady» replicò «Allora, ti piace qui?»
«Più o meno» borbottai «I capi non sono proprio dei pezzi di pane, ma sopravvivrò.»
«Ti hanno sepolta sotto questo mucchio di carta straccia?» disse, indicando la pila di magazines «Che noia.»
Ero sul punto di replicare, quando notai un giovanotto sventolare la mano, salutandomi.
«Ciao, Daniel» lo accolsi «È un piacere rivederti.»
«Salve, sono Warren» si presentò il mio amico.
«Daniel» ribattè DaCosta «È il tuo ragazzo? Carino da parte sua portarti il pranzo.»
«Oh, no, non stiamo insieme» mi affrettai a spiegare «È solo un amico molto premuroso.»
Quella frase dovette dare piuttosto fastidio a Graham, che si affrettò, subito dopo, a sgusciare via, adducendo scuse di lavoro.
Lo salutai, facendomi promettere che sarebbe venuto a prendermi a fine turno alle cinque.
«Imbarazzante…» commentò il disegnatore, grattandosi la nuca «Mi spiace aver combinato questo pasticcio.»
«Tranquillo, non è niente» lo rassicurai, dando un altro morso al mio panino.
«Tutto bene in queste prime ore?»
«Sì, direi di sì… Ah!» esclamai poi «Credo di aver trovato una delle tue opere.»
Recuperai il numero ventiquattro e gli indicai il disegno che intendevo.
«È Dana Ward, vero?»
Lui annuì.
«Quindi è tuo?»
«Già, proprio così» gongolò, infilandosi le mani in tasca.
«Perché DAD come firma?» domandai, curiosa.
«Daniel Alonso DaCosta, una maniera originale di firmare» spiegò, agguantando una matita e riproducendo la sigla su un post-it.
In quel momento qualcosa scattò nel mio cervello.
«Hai mai sentito di qualcuno che firmasse con una farfalla e le lettere B e P?» chiesi.
Il ragazzo si grattò l’accenno di barba scura sul mento, riflettendo. «Mi pare di aver visto qualcosa del genere… Ma parliamo di anni fa…»
Fremevo all’idea di scoprire qualcosa di più. La sera prima avevo riflettuto sul perché Chloe avesse siglato i suoi quadri con quel simbolo, ma soprattutto con quelle lettere che, ad un primo sguardo, non avevano nulla a che vedere con il suo nome.
«Ah!» esultò Daniel schioccando le dita «Ora ricordo! C’era qualcosa su uno dei primi numeri… Una certa Beth qualcosa usava la farfalla come marchio distintivo.»
Si mise a sfogliare un magazine e poco dopo passò ad un altro.
«No, no, no» borbottava tra sé e sé, proseguendo nella ricerca.
Decisi di imitarlo, afferrando il terzo volumetto di FRAME.
In copertina c’era un dipinto ad olio in stile romantico, che ricordava un po’ i lavori di Blake e Turner. La mano che lo aveva impresso su tela mostrava qualche incertezza e diversi tentativi di correggere le imprecisioni, ma nonostante ciò il talento che ne traspariva era innegabile. Il soggetto era uno scorcio di Arcadia Bay, visto da un punto sopraelevato. Nella parte destra, le barche ormeggiate nel porto erano definite da tocchi decisi di diverse tonalità di bianco e grigio, in contrasto con l’oceano, una distesa scura animata da frammenti celesti che simulavano le onde. Dal lato opposto del quadro c’era una serie di edifici, quelli che davano sulla spiaggia, ma erano avvolti da una nebbia mistica, che li rendeva anonimi, come se l’artista ci avesse tenuto a sottolineare quanto le opere dell’uomo fossero d’intralcio al suo intento di catturare l’essenza della natura. Il cielo, tetro quasi quanto il mare, era animato da qualche stella, che trapuntava il velo scuro con eleganza.
Era un lavoro notevole, senza dubbio.
Arrivai alla pagina dell’indice e individuai l’articolo che mi interessava: “La giovane anima della baia”.
Pagina 7 era il mio punto di partenza. Una foto della pittrice apriva il brano, intramezzato da foto di diversi lavori.
Lessi la riga in carattere microscopico sotto lo scatto: Beth Price.
Anche se di qualche anno più giovane, tre, stando alla data della rivista, quella era decisamente Chloe, o una sua sosia o la sua sorella gemella. I capelli erano già tinti di blu e gli abiti in stile punk, indossava una giacca di pelle borchiata e teneva nella mano sinistra un pennello. Con la sua espressione impertinente sembrava sfidare apertamente chiunque si trovasse dall’altra parte dell’obbiettivo.
«Trovato» dissi «Eccola qui.»
DaCosta si sporse sopra la mia spalla, curiosando. «Sì» confermò «È proprio lei» proseguì indicando la firma che si trovava in basso a sinistra in ogni dipinto.
Avrei iniziato a tempestarlo di domande, ma un tizio allampanato, con una matita dietro l’orecchio, lo chiamò dall’ascensore per farlo tornare al decimo piano.
«Potremmo discuterne davanti ad un caffè domani mattina, che ne dici?» propose, facendo cenno al collega che lo avrebbe raggiunto a breve.
«Molto gentile da parte tua» replicai «Accetto volentieri.»
«Che ne dici alle otto al Two Whales?»
Annuii e Daniel, dopo avermi sorriso un’ultima volta, fece dietrofront per andare a riprendere il proprio lavoro.
La pausa pranzo terminò presto, ma a me importò poco perché comunque ero immersa nella ricerca, assorbendo ogni aneddoto su Beth Price.
Era nata ad Arcadia Bay nel marzo del 1994 e aveva iniziato a dipingere fin da bambina, insieme a suo padre. L’articolo sorvolava sugli anni dell’adolescenza e passava direttamente al momento in cui era stata scoperta da Mark Jefferson, nel 2013. Dopo un paio di anni spesi sotto la tutela del fotografo, aveva finalmente ottenuto la possibilità di allestire una propria esposizione a San Francisco ed era su quella che l’autore del pezzo si concentrava. Il brano si chiudeva con la promessa di nuovi sviluppi sulle intenzioni di Beth, ma leggendo i fascicoli successivi non c’era più traccia della giovane Price.
Avevo per le mani un bel mistero: una stella nascente dell’arte americana scomparsa per tre anni, poi riapparsa come vicina molesta proprio sopra la mia testa.
L’unico che poteva fornirmi qualche delucidazione era il mio ex-professore.
Abbandonai la mia postazione con il numero tre di FRAME sottobraccio. Salii fino al quattordicesimo piano e domandai a Taylor se Jefferson fosse in ufficio.
«È arrivato un’ora fa, dovrebbe essere libero» mi comunicò «Ti devo annunciare?»
«Sì, per piacere.»
Lei pigiò qualche tasto lì accanto e gracchiò dentro l’interfono: «Maxine Caulfield vorrebbe vederla, la lascio passare?»
«Sì» fu la lapidaria risposta.
Per l’ennesima volta, percorsi il corridoio dei grandi capi, arrivando alla porta in fondo. Bussai ed entrai senza aspettare una risposta.
Mark si trovava seduto dietro la propria scrivania, posizionata sulla destra della stanza, aveva davanti a sé una macchina fotografica con obbiettivo telescopico smontata, sembrava ne stesse studiando l’anatomia come un coroner avrebbe fatto con un cadavere.
«Che nuove hai, Max?» mi chiese, senza togliere lo sguardo dal proprio anomalo soggetto.
«Potrei aver trovato l’artista per il numero di aprile» esordii, avvicinandomi «Posso?» mormorai, indicando il ripiano.
«Certo» replicò lui, spostando l’apparecchio scomposto e lasciandomi lo spazio di spiegare le pagine.
«Beth Price» dissi, indicando la foto «Posso convincerla a collaborare per mostrare le sue nuove opere.»
Jefferson assunse un’espressione sconvolta. Le iridi color cioccolato si dilatarono per la sorpresa, facendolo assomigliare ad un gufo occhialuto.
«Beth ha smesso di dipingere molto tempo fa» mormorò dopo aver dato un lieve colpo di tosse «E se anche avesse continuato non vorrebbe mai collaborare con FRAME.»
«Perché?» mi venne spontaneo domandare.
«Diciamo solo che abbiamo avuto delle divergenze qualche anno fa…» rispose vago «In ogni caso non lascerebbe mai che mettessi il naso nei suoi affari.»
«Ma è un vero peccato, alcuni dei suoi lavori farebbero impallidire molti degli artisti che abbiamo esposti qui» commentai.
«Non si può fare, Max» ribadì «Mi dispiace, dovrai trovare qualcun altro.»
Con il morale sotto i tacchi, feci per congedarmi ed andarmene, ma qualcosa dentro di me urlò di non arrendermi con tanta facilità. La mia impulsività, che era capace di cadere in letargo per anni prima di riaffiorare, esplose. «E se io la convincessi?»
Il direttore mi fissò, scuotendo la testa. «Non funzionerà…»
«E se invece funzionasse?» lo punzecchiai «Riuscirò a portarla qui per un colloquio faccia a faccia.» Non era una richiesta o un suggerimento. Era un certezza, avrei portato Chloe da Jefferson, anche se avessi dovuto tramortirla e trascinare fin là il suo corpo incosciente.
Le labbra di Mark si incurvarono in un sorriso di sfida. «Sei audace» sussurrò «Se riuscirai davvero in questa impresa, prenderò molto più che in considerazione l’idea di assumerti.»
Sentii un moto di orgoglio. Avevo fatto colpo. A quel punto non mi restava che convincere la Price e avevo lo strano presentimento che ciò si sarebbe rivelato molto più arduo di quanto volessi ammettere.
Tornai alla mia scrivania al sesto piano camminando ad un metro da terra. Se tutto fosse andato per il meglio, in meno di un mese mi sarei trovata ad avere un ufficio tutto mio, orari flessibili, una buona paga e, soprattutto, la possibilità di farmi strada anche come artista.
Per eseguire gli ordini di Victoria trascorsi le ore seguenti respirando sul collo di Juliet Watson che stava lavorando ad un pezzo su un fotografo brasiliano. Osservai la mia collega con finto interesse, avendo la testa da tutt’altra parte. Nella mia mente stavo già analizzando tutto ciò che avrei potuto dire alla mia vicina di casa per convincerla a concedere a FRAME almeno un incontro.
Non appena la lancetta dell’orologio segnò le cinque in punto, l’ufficio si svuotò come per magia, sembrava che tutti si fossero dissolti nell’aria.
Mi affrettai a radunare le mie cose e corsi fuori, verso la macchina di Warren che mi attendeva paziente come al solito.
«Sei sopravvissuta, allora!» esultò non appena mi abbandonai sul sedile «Ho visto uscire un fiume di gente e pensavo che ti avessero calpestata a morte lasciandoti agonizzante nell’androne.»
«Scemo» ridacchiai, tirandogli un pugno sul braccio.
«Ehi, attenta!» brontolò «Chi rompe, paga.»
«Ma fammi il piacere!» risi «Metti in moto, che ho fretta di tornare a casa.»
Giunti all’appartamento, lasciai che il mio coinquilino riprendesse a bruciarsi i neuroni sui propri schermi, mentre io mi preparavo psicologicamente per affrontare Chloe.
Passai in bagno ad osservare la situazione e notai che il gocciolio era proseguito imperterrito e la macchia si era espansa di almeno mezza spanna. Se avesse continuato così, ci saremmo ritrovati con un buco nel soffitto e una doccia piovuta dal cielo. Quando i Prescott avevano finanziato quei palazzi si erano impegnati a farli proprio male.
Andai in camera a cambiarmi, tornando ad indossare gli stessi abiti informali del giorno precedente, a cui aggiunsi una felpa visto che il cielo si era andato rannuvolando, nascondendo il sole e facendo calare la temperatura.
Forse sarebbe stato meglio presentarmi a Chloe in veste ufficiale, conciata per bene quale ambasciatrice di FRAME, ma avevo l’impressione che avvicinandola semplicemente come “Max” avrei ottenuto di più. Al momento opportuno le avrei lanciato la proposta, facendola sentire obbligata a concedermi almeno il famoso incontro.
«Warren!» urlai per farmi sentire oltre la porta chiusa «Vado un attimo dai vicini di sopra, ok?»
«Va bene» gridò in risposta.
Mi feci coraggio e lasciai casa, iniziando a salire le scale.
La prima volta non avevo notato che sulla porta, al contrario della piccola targhetta con numero e lettera corrispondenti all’interno, come avevamo tutti, l’appartamento della Price avesse le informazioni incise direttamente nel legno, un tocco piuttosto vandalico. Il 3 era di forma simile ad una saetta, mentre la A, lettera che naturalmente corrispondeva anche al nostro locale, era leggermente inclinata, come se stesse traballando per una sbronza. Quello, unito al campanello sradicato, sembravano rappresentare un’accurata premessa di quanto si sarebbe trovato dentro.
Inspirando a fondo, bussai.
Aspettai per un minuto, poi ritentai, sempre senza ricevere risposta.
Pensai che non ci fosse nessuno in casa e avrei dovuto riprovare più tardi, ma poi un guaito canino rivelò la presenza di qualcuno all’interno.
Udii voci ovattate e rumore di passi.
«Chi è?» sussurrò qualcuno oltre l’uscio chiuso.
«Max» risposi «La vicina del piano di sotto.»
La serratura scattò e la maniglia girò, facendo comparire di fronte ai miei occhi la ragazza dai capelli blu.
«Ciao» mi salutò con un sorriso «Scusa, ma pensavamo fosse Boris» aggiunse, facendomi segno di entrare.
L’odore di fumi diversi mi investì, stordendomi.
Una voce roca sbuffò, attirando la mia attenzione: apparteneva all’uomo che avevo urtato quella mattina. Era seduto sul divano e mi fissava in cagnesco.
«Frank!» lo ammonì la padrona di casa «Comportati bene.»
Lui grugnì qualcosa e tornò ad accarezzare il cane che gli stava accucciato ai piedi.
«A cosa devo questo onore?» domandò la Price, trascinandomi verso l’altro sofà.
Titubai un momento, indecisa se seguire il mio piano, cercando di rabbonirla, o passare direttamente al fulcro della questione.
Buttai l’occhio su altri dei suoi lavori appesi, una tela astratta, una composizione di forme geometriche colorate, accanto a cui era stata piazzata una natura morta, con un vaso di fiori decorato da figure in stile greco. Meritavano di essere esposti in una galleria e io dovevo fare sì che accadesse.
«Max?» mi riscosse, sfiorandomi una gamba «Ancora problemi con il bagno?»
«Ahm, sì, più o meno» replicai «La bacinella ha arginato il problema, ma la macchia d’umido si è espansa. Se non interveniamo in fretta, il vostro bagno potrebbe sprofondare in casa nostra.»
«L’importante è che non accada mentre sono sul cesso» ridacchiò la punk.
All’improvviso, il meticcio di Frank, Pompidou mi sembrava fosse il nome, balzò in piedi e si avvicinò alla porta, scodinzolando.
Un istante dopo, sentii il rumore di chiavi che giravano nella serratura.
«Sono a casa» esordì la nuova arrivata.
Posò un paio di sacchetti della spesa e si inginocchiò per coccolare l’animale.
Quando si rialzò, mi mozzò il fiato in gola.
Definirla bellissima sarebbe stato riduttivo, era la classica ragazza che chiunque avrebbe voluto essere o avrebbe voluto portarsi a letto. Non era particolarmente alta, ma la sua figura era semplicemente perfetta: longilinea, con le giuste curve messe in risalto dagli abiti che la fasciavano ad arte. La brillante chioma bionda cadeva morbida sulle spalle, ondeggiando come un’aura dorata ad ogni suo movimento.
Ma quell’aria angelica si infranse non appena potei osservarne meglio il viso. Le guance erano scavate, la pelle attorno alle narici screpolata, gli occhi da cerbiatta gonfi, arrossati e contornati da profonde occhiaie scure in netto contrasto con la carnagione innaturalmente pallida.
«Chloe» soffiò, avvicinandosi alla ragazza per lasciarle un bacio sulla guancia «Non mi avevi avvisato che avremmo avuto compagnia.»
«Frank non ha voluto schiodare il culo» spiegò l’artista «Mentre Max è qui per… Beh, in realtà non lo so» concluse, tornando a fissarmi incerta.
«Piacere Max, sono Rachel» disse la bionda, tendendomi la mano.
«Il piacere è tutto mio.»
«Quindi, perché sei qui?» ribadì la Price, mentre la sua ragazza recuperava la spesa da sistemare, aiutata da Frank.
«A dire il vero è una questione piuttosto delicata…» mormorai, indecisa su come porre la mia domanda «Potremmo parlarne in privato? Magari nel tuo safe space
La giovane dai capelli blu lanciò un’occhiata agli altri due e, vedendoli intenti a chiacchierare, mi afferrò per un braccio e mi trascinò fino a quello che non mi era concesso definire atelier.
La luce aranciata del sole entrava dalla finestra, mostrandomi che il tramonto non era lontano. Mi pareva che alcune tele fossero state spostate rispetto al giorno precedente, ma non potevo dirlo con certezza.
«Si può sapere che c’è?» chiese con una specie di ringhio.
Quel tono aggressivo mi spaventò, facendo vacillare ogni oncia di coraggio che mi ero sforzata di raccogliere.
La mia paura ed insicurezza dovevano essersi palesate perché Chloe cambiò rapidamente espressione, mostrandosi sorpresa.
«Non volevo suonare aggressiva» si affrettò a dirmi «È solo che non mi piacciono i raggiri e le moine, per cui vai al sodo… Per piacere.»
Quell’ultima mancia di sillabe servì a tranquillizzarmi. Era giunto il mio momento.
«Io lavoro nel campo dell’arte» esordii «Per una rivista piuttosto nota…»
Le sue iridi celesti ebbero un guizzo, lasciandomi intendere che avesse già capito dove stessi portando il discorso.
«Mi è capitato tra le mani l’articolo riguardante Beth Price… Si tratta di te, non è vero?»
Un misto di rassegnazione e dolore le attraversò gli occhi prima che mi rispondesse: «Complimenti, Sherlock. Avevi già orchestrato tutto o la bella idea ti è balzata in testa quando hai messo le mani su quel numero di FRAME? Aspetta! Non dirmelo: non c’è nessun problema al tuo bagno, ti serviva solo una scusa per avvicinarmi!» La sua voce si era alzata di quasi un’ottava. Era arrabbiata, nel suo cervello si era convinta, in qualche contorta maniera, che avessi tradito la sua fiducia.
«No, aspetta!» tentai di calmarla «Sono qui per parlarne, non voglio costringerti a fare niente!»
Il suo viso continuava ad essere agitato da una profonda rabbia, ma sembrò trattenersi abbastanza per lasciarmi continuare.
«Il capo mi ha chiesto di scovare un artista emergente e incentrare su di lui il numero di aprile» sussurrai con un filo di voce «Appena ho visto i tuoi dipinti ho capito quanto talento ci fosse dietro ogni singola pennellata e ho pensato che saresti potuta essere il soggetto perfetto, ma non avevo idea che avessi già collaborato con FRAME.»
Lei sbuffò, però non mi interruppe.
«Volevo chiedere qualche delucidazione su Beth, sul perché tu abbia scelto questo nome d’arte e, sì, avevo intenzione di proporti di tornare a condividere le tue opere tramite la rivista, ma non ci voleva essere nessun obbligo.»
Impulsivamente, portai la mano sinistra a stringere il suo braccio destro là dove aveva il tatuaggio. Il mio gesto avrebbe potuto farla scattare, avrebbe potuto spingerla magari a farmi del male, ma pur di cogliere quella rosa avrei rischiato di pungermi con le spine.
«Ti prego di credermi» sospirai «L’ultima delle mie intenzioni era di ferirti in qualche modo.»
La furia nelle sue iridi parve placarsi, strisciando verso gli abissi segreti da cui era emersa.
«Non ho bisogno che tu lo dica a parole» ripresi dopo qualche minuto di silenzio, speso a fissarci intensamente «Ho capito che non ti interessa la mia proposta, mi arrangerò, ma grazie per avermi aperto casa tua e mostrato il tuo safe space. Non ho intenzione di tradire il tuo segreto, per cui Beth Price può rimanere là dov’è, a me basta restare in buoni rapporti con la mia vicina Chloe.»
«Ho capito che le tue intenzioni non fossero cattive, Max» disse, facendo un passo indietro e sfuggendo al mio tocco «Mi spiace di aver reagito così… Ho dei problemi a gestire le emozioni in certi frangenti… Cazzo, direi degli stra-grandi problemi» ridacchiò nervosamente.
Tesa come una corda di violino, attesi che continuasse.
«Senti» proseguì «Sono lusingata per le tue attenzioni, ma non voglio tornare a fare la pittrice per campare, non penso di essere ancora pronta… Però voglio lasciarti qualcosa.»
Sollevò un tubo di cartone da terra, ne aprì il tappo di plastica all’estremità e ne estrasse diverse tele arrotolate.
«Queste mi sono rimaste dai tempi della galleria, sono le tele invendute» disse, spiegandone alcune «Scegli pure quella che preferisci. Considerala come un segno di pace.»
Erano una decina di dipinti ad acrilico, nature morte per la maggior parte. Seppi subito quale avrei voluto prendere con me.
«Non ci credo che lavori per FRAME» parlottò in tono ironico «Hai un gusto davvero di merda.»
Scoppiai a ridere, un po’ perché divertita da quel commento, un po’ per allentare la tensione che mi aveva stretto la gola fino a quell’istante.
Stringendo il trofeo tra le mani, misi piede fuori dall’atelier, mentre il braccio tatuato della punk si posava amichevolmente sulle mie spalle, accompagnandomi fino all’uscita dall’appartamento.
Con un ultimo colpo d’occhio individuai Rachel e Frank piegati sul tavolino accanto al divano, intenti a sniffare quella che quasi certamente era cocaina. Capii per quale ragione la bella modella avesse quell’aria consumata ed intuii che l’uomo dovesse essere il suo spacciatore e non solo il suo compagno di sballo. Mi domandai se anche Chloe prendesse parte a quei malsani rituali, ma non avrei più avuto modo di indagare.
Senza aggiungere altro, spingendomi delicatamente, la Price mi fece uscire e mi chiuse la porta alle spalle.
Tornai al piano inferiore con la coda tra le gambe, sentendo un senso opprimente di sconfitta al petto, ma non solo. Mi ero inconsciamente convinta che quella collaborazione non avrebbe fatto bene solo anche a me, ma anche alla scapestrata ragazza dai capelli tinti. Non sapevo spiegarmi per quale ragione avessi fatto mia la missione di redimerla in qualche modo, di salvare lei e la sua arte dal vortice dell’oblio in cui Beth Price sarebbe altrimenti precipitata.
Rientrai senza che Warren se ne accorgesse e mi chiusi in stanza.
Seduta sul letto, spiegai nuovamente il dipinto e lo ammirai.
Su uno sfondo nero, reso lucido come una lastra di ossidiana, si stagliava un lungo stelo spinato color verde smeraldo, che culminava con una rosa blu su cui era tinta una singola goccia scarlatta.
Era vero, non era la sua opera migliore, ma per me aveva un significato: mi ero punta, ma ero comunque riuscita a sfiorare i petali del suo animo e avrei tentato e ritentato, fino a che non fossi riuscita ad inspirare la fragranza di quel magnifico e raro fiore.

NdA: ben ritrovati, signore e signori, con questo secondo capitolo di Life is Art. Come avevo precedentemente annunciato, la storia si compone in totale di cinque capitoli che verranno pubblicati a scadenza settimanale, giusto per ricordarlo. Spero che l'intreccio risulti ben strutturato e coinvolgente, ma soprattutto chiaro, nel caso in cui non lo fosse vi invito a farmelo sapere e vedrò di sciogliere eventuali dubbi quanto prima. Ora, i ringraziamenti: un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo e quello precedente, la paura nel lanciare una nuova storia è sempre quella che non piaccia, ma mi sembra di essere riuscita ad attirare l'attenzione di alcuni di voi e ciò è cosa buona; un grazie a chi ha aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite per la fiducia accordatami; un grazie a wislava per il suo lavoro di correzione e i suoi commenti; infine un grazie a Camyglee per la sua gentile recensione. Con la speranza di trovarvi anche al prossimo aggiornamento, vi saluto e vi auguro, nel frattempo, buona lettura e buone cose. A venerdì prossimo.
   
 
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