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Autore: Princess Of Marshmallows    17/06/2016    2 recensioni
{ • TASSATIVAMENTE VIETATA AGLI STOMACI DEBOLI | psycho!Ticci-Toby | abusi sessuali | torture fisiche e psicologiche | prigionia | bipolarismo | C.I.P.A. | allucinazioni }
“Doveva essersi assopita, perché non si era resa conto dei passi che si avvicinavano sempre di più alla sua stanza, ma quando sentì la porta aprirsi di scatto si svegliò immediatamente, e la luce l’abbagliò per qualche secondo.
Sapeva che sarebbe venuto. La figura si avvicinò a lei lentamente, mentre la ragazza voltò lo sguardo dalla parte opposta mentre si sentiva mancare il fiato dalla paura. Nella sua mente ritornarono nuovamente a galla le immagini di quella mattina. Cominciò a tremare e a battere i denti per il terrore quando sentì i suoi guanti di pelle neri poggiarsi sulla sua gamba.
«Hai paura? È così brutto stare con me?», domandò all’improvviso, facendola sussultare.”

Per il mondo Anastasia Hamilton è morta il sei ottobre duemilatredici nel genocidio di Denver.
Nessuno sa che è ancora viva e si è ritrovata costretta a subire giornalmente torture di ogni tipo.
• Storia precedentemente intitolata "Hopeless Children of the Lonely Night".
Genere: Angst, Dark, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeff the Killer, Lyra Rogers, Nuovo personaggio, Slenderman, Ticci Toby
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
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Part I
Chapter VIII
Non ho mai

 

 

Mi sentii in una specie di oblio. Sono sempre stato un grosso bevitore. Quando inizio, non mi fermo più. Mi piace bere perché è come stare in una specie di mondo di cartoni animati, dove tutto va bene. La vista è annebbiata e tutto e nulla hanno senso. È pazzesco… è come se fosse un tipo diverso di realtà e consapevolezza.”
Krist Novoselic

 

 

Per qualche attimo rimase a guardare Malcolm Wilford senza parole, sperando di non aver sentito bene.
«Cosa?».
«È… è Toby. Toby Erin Rogers. È lui il bambino con cui mi comportavo da bullo».
Anastasia non parlò. Restò immobile a guardare gli alberi sentinella, ad ascoltare il sangue che le ronzava e martellava nelle orecchie. Dentro di lei si stava accumulando una gran voglia di urlare, ma non la sfogò. La ricacciò indietro. Come era giusto che fosse.
Toby?
Malcolm e Toby?
«Ecco perché volevo che venissi», parlava in fretta, adesso, come se sapesse di non avere molto tempo, dato che lei sarebbe potuta benissimo schizzare fuori dall’auto da un momento all’altro. O ucciderlo seduta stante, magari. «Non volevo… Ho pensato che non fosse giusto dirtelo prima, sapevo che sarebbe stata troppo dura per te date le circostanze. Ma dato che ormai è passato più di un anno, e credo che tu ti stia riprendendo, ho pensato di dirtelo prima che tu lo potessi venirlo a sapere da qualcun altro».
«Ma…allora sei stato tu ad inventare quel soprannome, Ticci Toby!» la frase le uscì di bocca con la violenza di un’accusa. Per un secondo Malcolm la guardò senza capire, poi fece mente locale e la sua espressione cambiò, nello stesso momento in cui la rossa comprese il perché Wilford avesse detto tutte quelle cattiverie su Toby.
«Quindi è per questo che gli hai dato dell’assassino», disse con voce atona. «Perché ti sentivi in colpa, perché in un certo senso ti sentivi coinvolto in tutto questo. È stato un metodo autoconvincimento, diciamo. Giusto?».
Malcolm annuì, contrito.
«Non penso niente di quello che ho detto. Cercavo solo di difendermi dalla mia testa, devi credermi», disse in tono di supplica. Tese la mano calda verso quella di lei, intirizzita. «Didì mi ha praticamente obbligato a parlartene il prima possibile e…».
«Aspetta un minuto», Anastasia sottrasse bruscamente la mano. «Hai parlato di questo con Diane? Lei lo sapeva?».
Malcolm annuì e si portò le mani tra i capelli neri, mentre la ragazza si sentiva tradita più che mai.
«Hamilton… Io sono così…», si interruppe e trasse un profondo respiro, e la rossa ebbe la sensazione che stesse cercando di raccogliere i pensieri, in modo da poter decidere che cosa dire. Quando parlò di nuovo, lo fece con una sfumatura di sfida, e Anastasia rivide un barlume del Malcolm Wilford che ricordava: quello che partiva all’attacco, che avrebbe preferito combattere fino alla morte, piuttosto che subire un’accusa. «Ascolta, non ho intenzione di scusarmi, perché so di non aver fatto niente di male. Nessuno di noi ha fatto niente di male. Ma ti prego, mi daresti il tuo perdono?».
«Se non hai fatto niente di male», ribatté Anastasia incrociando le braccia e con il suo solito tono altezzoso. «allora perché ne hai bisogno?».
«Perché tu lo avevi reso felice. Cazzo, Hamilton, quel poveretto era innamorato perso di te!».
Era.
Registrarono entrambi, nello stesso istante, l’uso del passato, e la ragazza vide la sua reazione riflessa sul volto di Malcolm.
Anastasia si morsicò il labbro, così forte da farsi male, schiacciando sotto i denti la pelle morbida.
Io ti perdono. Dillo. Dillo!
«Io…».
Si udì un rumore nella casa: la porta si aprì, ed ecco comparire Ashley, in piedi nel riquadro di luce, con la mano sollevata a ripararsi gli occhi. Tutta protesa in avanti con la sua ciccia sembrava sul punto di ruzzolare a terra, nello sforzo di scrutare nelle tenebre, eppure Anastasia percepì in lei una sorta di eccitazione soppressa, come quella di una bambina prima di una festa di compleanno che da un momento all’altro sta per sconfinare nell’isteria.
«Ehiiiii?», gridò, a voce sorprendentemente alta nella quiete notturna. «Mal? Sei tu?».
Malcolm buttò fuori un respiro tremolante e aprì lo sportello.
«Ash-Ash!», gli tremava la voce, ma in modo quasi impercettibile. La rossa pensò, e non per la prima volta, che attore straordinario fosse. E per un’esperta in bugie e manipolazione come lei, era un gran bel complimento.
«Mal-Bear!», strillò Ashley, per poi catapultarsi giù dai gradini. «Oh mio dio, sei proprio tu! Ho sentito un rumore e ho pensato… ma poi non è comparso nessuno», venne incontro ai due incespicando sullo spazio davanti alla casa, i suoi passi silenziosi nelle pantofole a forma di coniglietto. Anastasia alla vista di queste fece del suo meglio per trattenersi dal mimare un conato di vomito. «Cosa ci facevi lì fuori al buio, sciocchino?».
«Stavo parlando con Hamilton», il ragazzo la indicò con un gesto. «Ci siamo scontrati mentre risaliva il vialetto».
«Non in senso letterale, spero! Oops!», si udì uno scricchiolio, nel momento in cui Ashley inciampò in qualcosa nel buio, per poi tirarsi su in ginocchio in fretta e furia. «Va tutto bene! È tutto a posto!», disse balzando goffamente in piedi mentre si dava una spolverata.
«Ehi, tranquilla!», Malcolm scoppiò a ridere e abbracciò l’amica. Poi le sussurrò all’orecchio qualcosa che la rossa non sentì, ed Ashley annuì. Anastasia si limitò ad aprire lo sportello e scese rigidamente dall’auto. Era stato un errore non percorrere a piedi quegli ultimi metri fino a casa: passando bruscamente dalla corsa alla posizione seduta, i muscoli si erano bloccati. E adesso faticava a raddrizzarsi.
«Tutto bene, Hamilton?», domandò Malcolm, che si era girato sentendola scendere. «Mi sembri un po’ zoppicante».
«Tutto okay», rispose con un tono leggero e guardò il ragazzo dritto negli occhi, con una punta di sfida. Come se volesse sfidarlo a chi sapesse fingere meglio e più a lungo. Toby. Toby. «Vuoi una mano con i bagagli?», un sorriso finto le si dipinse sul volto.
«Grazie, ma non ne ho molti», aprì di scatto il bagagliaio e ne estrasse una borsa con tracolla. «Forza Ash, adesso fammi vedere la mia stanza!».

Quando Anastasia salì a fatica l’ultimo gradino che portava alla sua camera, tenendo per i lacci le scarpe da ginnastica infangate, Diane ancora non si vedeva da nessuna parte. Dopo essersi sfilata i leggins e la felpa sudata, strisciò sotto il piumone in biancheria intima. E se ne restò a guardare la pozza di luce disegnata dalla lampada sul comodino.
Era stato uno sbaglio accettare quell’invito. Che cosa credeva?
Aveva passato così tanto tempo a cercare di dimenticare Toby, nel tentativo di costruire intorno a sé un bozzolo di sicurezza e di indipendenza. E sembrava finalmente esserci riuscita, ad ottenere di nuovo una vita senza troppi pensieri. Anzi, era proprio una vita fantastica. Era bella, aveva un lavoro perfetto per un’egocentrica come lei, viveva in una villa con un padre milionario, andava in discoteca quasi tutte le sere e spesso scopava con degli sconosciuti.
Non dipendeva da nessuno, da nessun punto di vista, emotivo, finanziario (certo, aveva la paghetta del padre, ma avrebbe potuto sopravvivere anche solo con i soldi che guadagnava) o di altro tipo. Proprio bene, cazzo, e tante grazie.
Ed ecco che adesso le succedeva questa cosa qui.
Il peggio era che non poteva dare la colpa a Malcolm Wilford. Purtroppo aveva ragione: lui non aveva fatto niente di male, non c’entrava nulla con tutta quella situazione. Non le doveva niente. Toby Erin Rogers era morto più di un anno fa, dopo aver assassinato suo padre.
No. Anastasia poteva dare la colpa solo a sé stessa. Per non aver voltato pagina. Per non essere stata in grado di farlo. Non aveva mai amato nessuno prima di conoscerlo, era sempre stata circondata da feste e persone superficiali – come lei, d’altronde – fino a quando non aveva incontrato lui e tutte le sue perfette imperfezioni.
Detestava Toby per il potere che aveva ancora su di lei. Detestava il fatto che, ogni volta che conosceva qualcuno, finiva per metterlo a confronto con lui, nella sua testa. L’ultima volta che aveva provato ad avere una relazione seria – sette mesi prima – si era svegliata di soprassalto nel cuore della notte, con il ragazzo che le teneva una mano sul petto.
«Stavi sognando», aveva detto. «Chi è Toby?», e, alla vista della faccia stravolta della rossa, si era rivestito in fretta e furia ed era uscito per sempre dalla sua vita. Ed Anastasia non si era nemmeno presa la briga di fargli un’ultima telefonata.
Odiava Toby e odiava sé stessa.
E poi sì, era perfettamente consapevole che ciò la rendeva la più grande sfigata del mondo: la quindicenne che conosce un ragazzo e, nonostante lui sia morto, lei continua ad esserne innamorata a tal punto da non riuscire più a far entrare nessun altro nella sua vita.
Nessuno lo sapeva meglio di lei. Se le fosse capitato di mettersi a parlare con una nella sua stessa situazione, in un bar, l’avrebbe probabilmente disprezzata o derisa.
Sentiva gli altri che ridevano e chiacchieravano, al piano di sotto, e l’odore di pizza fluttuò su dalle scale.
Adesso sarebbe scesa da loro e avrebbe chiacchierato e riso anche lei.
Invece si rannicchiò su sé stessa, le ginocchia contro il petto e gli occhi ben chiusi, e cacciò un urlo silenzioso dentro la sua testa.
Poi di raddrizzò e, malgrado le proteste dei suoi muscoli irrigiditi, mise da parte la coperta e raccolse un telo da bagno dalla cima del mucchio che Ashley aveva accuratamene impilato ai piedi di ogni letto.
Il bagno era sul pianerottolo. Chiuse la porta e lasciò cadere a terra l’asciugamano. Anche lì c’era un’altra di quelle grandi finestre senza tende che si affacciavano sul bosco. Era angolata in modo tale che, in pratica, nessuno avrebbe potuto guardare dentro a meno di non starsene appollaiato su un pino alto quindici metri, ma nel togliersi la biancheria intima dovette reprimere l’impulso di coprirsi il seno con le mani per nascondere la propria nudità agli occhi invisibili del buio.
Per qualche istante prese in considerazione l’idea di rivestirsi subito con indumenti puliti ma, data la stanchezza e gli schizzi di fango che l’avevano imbrattata da capo a piedi, sapeva che si sarebbe sentita meglio se si fosse fatta una doccia calda. Così si infilò nel box e girò la leva, stiracchiandosi piena di gratitudine non appena l’enorme soffione della doccia, dopo aver sputacchiato un paio di volte, la inondò con un potentissimo getto di acqua bollente.
Da quella posizione poteva guardare fuori dalla finestra, benché fosse troppo buio per vedere granché. La forte illuminazione del bagno trasformava la vetrata in una sorta di specchio e, a parte una pallida luna spettrale, tutto ciò che riusciva a vedere era il suo corpo riflesso sul vetro che si andava velocemente appannando via via che si insaponava. Che razza di persona doveva essere, comunque, la zia di Ashley? Quella era una casa per voyeur. Anzi, no: ai voyeur piaceva guardare. Qual era il contrario? Esibizionisti. Gente a cui piaceva essere vista.
Forse era diverso di giorno, quando la luce entrava abbondante. Ma in quel momento, al buio, era proprio l’opposto: si aveva la sensazione di trovarsi in una teca di vetro. O in una gabbia allo zoo. In un recinto per tigri, senza nemmeno un angolo dove nascondersi. Anastasia pensò agli animali in gabbia che camminavano nervosi avanti e indietro, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mentre la pazzia si impadroniva lentamente di loro.
Quando ebbe finito sgusciò cauta fuori dal box della doccia e si guardò allo specchio, dopo averlo ripulito dalla condensa.
Il viso che la fissò di rimando la impressionò. Sembrava appartenere ad una persona pronta al combattimento: il suo volto era pallido sotto la forte luce, gli occhi verdi e accusatori, circondata da ombre scure come se fosse stata malmenata.
Sospirò e tirò fuori il beauty-case. Siccome aveva perso tutta la voglia di truccarsi in quel momento, si limitò a mettere l’essenziale: mascara e rimmel. Non riusciva a trovare il fard, cosicché si ritrovò costretta a strofinarsi un po’ di rossetto sugli zigomi per attenuarne il pallore, e alla fine si infilò un paio di jeans aderenti ed una canotta grigia, che metteva in risalto il seno prosperoso.
Da qualche punto al pieno di sotto proveniva della musica. Era la sigla di una serie televisiva che faceva quando la rossa era solo una marmocchia: Oh, Happy Days. Oh, giorni felici. Che qualcuno volesse fare dell’ironia?
«Ana!», udì la voce di Ashley che la chiamava sopra le note della canzone che esortavano a ricominciare. «Ti va di venire giù a mangiare qualcosa? Perché dopo ce la spassiamo con l’alcol, e te lo sconsiglio vivamente a stomaco vuoto!».
«Arrivo!», gridò di rimando. Con un sospiro arrotolò la biancheria sporca nel telo da bagno e, dopo aver richiuso il beauty, aprì la porta, pronta ad affrontare il mondo.

 

«Non ho mai…», Malcolm era stravaccato sul sofà con i piedi sulle ginocchia di Felix mentre i riflessi del fuoco nel caminetto gli danzavano sul volto. Teneva un bicchierino in mano ed una fettina di lime nell’altra, soppesandoli come se fossero delle alternative. «Non ho mai… fatto parte del mile high club».
Calò il silenzio sulla cerchia, finché Ashley non esplose in una gran risata. Quindi, molto lentamente e con un’espressione sarcastica, Felix sollevò il bicchierino.
«Cin cin, cara!», bevve in un colpo solo e poi succhiò il lime con una smorfia.
«Oh, tu e la tua ex! Come si chiamava… Elisewin, giusto?», parlò Malcolm. Nonostante la nota di derisione, aveva un tono piuttosto bonario. «Scommetto che è successo in prima classe».
«In realtà era in business, però l’hai azzeccata», si riempì di nuovo il bicchiere e si guardò intorno. «Ma che succede? Sto bevendo da solo?».
«Cosa?», Tyler alzò lo sguardo dal suo telefono. «Scusate, siccome avevo una tacca di ricezione, ho pensato che fosse il caso di provare a chiamare Joseph, ma adesso è sparita di nuovo. Stavate giocando a “obbligo o verità”?».
«No, abbiamo cambiato gioco», rispose Felix con voce impastata. Doveva aver già pasticciato parecchio con varie sostanze e adesso cominciava a risentirne. «Stiamo giocando a “Non ho mai!”. E ho detto che invece io ho fatto parte del club di chi fa sesso in aereo».
«Oh, scusate», Tyler trangugiò distrattamente il bicchierino e si pulì le labbra. «Ecco qua. Senti, Ash, non è che posso usare di nuovo il telefono fisso?».
«No, no e no!», lo rimproverò Malcolm agitando il dito. «Guarda che non te la svigni così facilmente».
«Certo che no!», si intromise Ashley, indignata. «Adesso dicci come e quando, bello!».
«Durante la luna di miele con Joseph. Era un volo notturno, gli ho fatto un lavoretto di bocca nel gabinetto. Quello conta? E comunque ho appena bevuto».
«Beh, in tal caso è lui che è entrato a far parte del club, non tu», gli fece notare Felix con una strizzata d’occhio licenziosa e leggermente più rallentata del normale. «Ma siccome hai bevuto, facciamo che va bene così. Passiamo oltre! Okay, tocca a me. Non ho mai… cazzo, cos’è che non ho mai fatto? Oh, d’accordo: non ho mai praticato sport acquatici».
Ci fu una gran risata, nessuno bevve e Felix cacciò un lamento.
«No, ma sul serio?».
«Sport acquatici?», domandò Ashley, incerta. Con il bicchiere sospeso a mezz’aria, si guardò intorno, cercando di capire cosa ci fosse di tanto buffo. «Intendete dire le immersioni subacquee e cose del genere? Io sono andata in barca a vela, secondo voi conta?».
«No, tesoro», rispose Malcolm, per poi chinarsi a sussurrare qualcosa all’orecchio di Ashley, la cui espressione passò da scioccata a divertita, con una punta di disgusto.
«Non se ne parla proprio! È rivoltante!».
«Eddai», Felix cercò di incoraggiare i presenti, quasi supplichevole. «Confessate tutto allo zio Felix, tanto tutto quello che ci diremo qui non uscirà mai fuori, non c’è niente di cui vergognarsi».
Calò di nuovo il silenzio, interrotto dalla risata di Malcolm.
«Mi dispiace, fratello, ma mi sa che ti tocca bere!».
Felix si buttò giù il bicchierino, lo riempì di nuovo e poi si sdraiò sul sofà, la mano sugli occhi.
«Mannaggia, mi sta arrivando il conto dei miei anni trascorsi da ragazzaccio. Ho la testa che mi gira».
«Tocca a te, Hamilton», disse Malcolm dal divano, rosso in volto e con i capelli neri spettinati. «Sputa il rospo».
Lo stomaco della sedicenne fece una capriola.
Era arrivato il momento tanto temuto. Nell’ultimo giro di bevute aveva brancolato a fatica in una nebbia di tequila, champagne e rum, sforzandosi di trovare qualcosa da dire, ma ogni ricordo sembrava riportarla indietro a Toby. Ripensò a tutte le cose che non aveva mai fatto né detto. Chiuse gli occhi, mentre la stanza sbandava e ondeggiava intorno a lei.
Un conto era fare questo gioco insieme a degli amici che più o meno sapevano già tutto quello che c’era da dire, ben altro barcamenarsi tra questo imbarazzante mix di estranei e persone che non voleva che sapessero, ad eccezione di Diane. Non ho mai… cosa diavolo poteva dire?
Non ho mai capito perché ci siamo dovuti dire addio.
Non l’ho mai salvato.
Non l’ho mai dimenticato.
«Hamilton…», cantilenò Malcolm. «Su, dài, non vorrai mica che io ti metta in imbarazzo nel prossimo giro».
La ragazza si sentiva in bocca uno schifoso retrogusto di tequila e cocaina. Non poteva permettersi di bere di nuovo, altrimenti avrebbe vomitato.
Non ho mai conosciuto davvero Toby.
Perché ti ho lasciato andare via?
Amore. Mio unico vero amore.
«Non ho mai avuto un tatuaggio», buttò fuori tutto d’un fiato.
Sapeva di essere andata sul sicuro, con quell’affermazione, Diane ne aveva ben due.
Tuttavia, il primo a parlare però fu Felix.
«Merda…», si lamentò lui, ingollando la tequila. Ashley ridacchiò.
«Macché! Non crederai mica di cavartela così! Adesso faccelo vedere!».
Il fotografo sospirò e si sbottonò la camicia, rivelando un buon tratto di pettorali tonici e ancora un po’ abbronzati. Dopo essersi fatto scivolare una manica giù per la spalla, si girò a mostrarcelo. Si trattava di una scritta in corsivo che diceva Gabbia di matti.
«Ecco», si riabbottonò la camicia. «Adesso fatevi avanti, voialtri, non posso certo essere l’unico».
Diane non disse nulla, ma si limitò ad alzarsi la manica per mostrare il I’m on top of the world che possedeva sul braccio, per poi sollevare i jeans sulla caviglia, mostrando un uccello di qualche tipo tatuato lungo il tendine.
«Che cos’è, Didì?», Ashley si sporse in avanti per guardarlo meglio. «Un merlo?».
«Un falco», rispose la bruna. Senza aggiungere altro, si tirò giù i jeans e vuotò il bicchiere. «E voi che dite?».
Ashley scosse la testa.
«Troppo fifona!».
Malcolm invece, con un largo sorriso si sollevò a fatica dal divano. Si girò di schiena e si tirò su la camicia nera. Dal retro dei jeans spuntava come un lungo tubo ondeggiante che andava sempre più su.
«Una coda di un diavolo», sbuffò Anastasia, per niente sorpresa.
«Una follia di gioventù», spiegò Malcolm con un tocco di malinconia ironica. «Durante il mio viaggio ad Amsterdam in stato di ebbrezza quando avevo quindici anni».
«Quella coda sarà deliziosa, quando diventerai vecchio», commentò nuovamente la modella. «Se non altro servirà da freccia di segnalazione per il giovanotto che dovrà pulirti il culo all’ospizio».
«Così avrà qualcosa da guardare, poveretto», Malcolm si tirò giù la camicia ridendo e si buttò di nuovo sul divano. Poi si scolò il bicchierino. «Tyler?», gridò.
Ma l’uomo di colore aveva trascinato il telefono in corridoio, la sua ubicazione tradita solo dal filo a terra e dal suono basso e urgente della sua voce.
«…e ha bevuto dal biberon?», lo sentirono chiedere in corridoio. «Quanti decilitri?».
«’Fanculo», fu il commento deciso di Diane. «Uomo in mare. D’accordo. Io non ho mai… non ho mai… non ho mai…», spostò lo sguardo dagli altri all’amica dai capelli rossi, e ad un tratto quest’ultima vide dipingersi sul viso dell’altra un’espressione veramente maligna. Da ubriaca, Diane non era la persona più simpatica da avere affianco. «Non ho mai scopato con un andicappato!».
Una risata incerta fece il giro della stanza. Malcolm si strinse nelle spalle.
Poi i suoi occhi grigi, e quelli color caffè di Diane, si girarono entrambi verso la modella. Regnava un silenzio assoluto, interrotto solo da Florence and the Machine che raccontava di come il suo fidanzato fabbricasse casse da morto.
«Vaffanculo, Diane», ad Anastasia tremava la mano, mentre mandava giù l’ultimo goccio. Poi si alzò e si diresse in corridoio con le guance in fiamme, sentendosi tutto ad un tratto molto ma molto ubriaca.
«Puoi sempre dargli una banana spappolata, a colazione», stava dicendo Tyler. «Ma se gli dai dell’uva ricordati di tagliare i chicchi a metà e di eliminare i semini».
Gli passò accanto nella sua corsa verso le scale, seguita dalle domande disorientate di Ashley: «Cosa c’è? Cos’è successo?».
Arrivata sul pianerottolo, si precipitò in bagno e chiuse la porta dietro di lei. Poi si inginocchiò davanti al water e vomitò e vomitò finché non ebbe più nulla nello stomaco.
Oh, quanto era ubriaca. Abbastanza ubriaca da scendere di sotto e tirare un pugno in faccia a quella stronza di Diane, lei e quella sua mania di rimestare nel torbido. Okay, non conosceva tutta la storia di Toby e di quello che gli era capitato, però ne sapeva abbastanza da rendersi conto che stava mettendo la sua migliore amica in una posizione orribile.
Per un minuto li odiò tutti quanti: Diane per aver osato chiamarlo andicappato, Ashley e Felix per averla guardata con aria ebete mentre beveva. Odiava Malcolm per averla invitata alla sua stupida festa. E soprattutto odiava Toby per essere morto, innescando tutta quella concatenazione di eventi. Odiava perfino il povero, ignaro ed innocente Tyler, solo per il fatto che si trovasse lì.
Ebbe un altro conato, ma nel suo stomaco non era rimasto più nulla, a parte un orrendo sapore di tequila, che una volta in piedi sputò nel water. Poi tirò lo scarico e si guardò allo specchio per risciacquarsi la bocca e la faccia. Era pallidissima, gli zigomi chiazzati di rosso e imbrattati di rimmel.
«Hamilton?», bussarono alla porta. Riconobbe subito la voce di Malcolm e si portò le mani al viso.
«Un minuto!», la sua risposta fu brusca, come il ringhio di un animale che si doveva difendere.
«Hamilton, mi dispiace… Didì non avrebbe dovuto…».
Oh, vaffanculo, pensò. Lasciatemi in pace.
Si udì un brusio di voce sommesse fuori dalla porta, e la modella prese con le dita tremanti della carta igienica per cercare di pulirsi gli sbaffi di mascara.
Quanto era patetico tutto ciò. Le sembrava di essere tornata nel periodo scolastico nel quale era da poco morto Toby: i battibecchi maligni, i pettegolezzi simili a pugnalate dietro la schiena e tutto il resto. Aveva giurato a sé stessa che se li sarebbe lasciata alle spalle per sempre. E invece aveva commesso questo errore. Un errore davvero terrificante.
«Scusami, Ana», disse la voce di Diane, impastata dall’alcol ma con un sottofondo di vera preoccupazione, o almeno così le parve. «Non credevo… ti prego, esci da lì».
«Hamilton, ti prego», implorò Malcolm. «Su, dài, mi dispiace. Anche Didì è dispiaciuta».
La sedicenne tirò un profondo respiro e aprì la porta.
Stavano tutti e due in piedi lì fuori, con l’aria da cani bastonati nella forte luce proveniente dal bagno.
«Per favore, Hamilton», disse Malcolm prendendole la mano. «Torna giù di sotto».
«È tutto a posto», rispose. «Davvero. Però sono stanchissima, mi sono alzata alle sei stamattina».
«D’accordo…», il moro le lasciò a malincuore la mano. «Basta che tu adesso non ci tenga il muso».
Anastasia digrignò i denti a suo malgrado. Sta’ calma. Cerca di non fare tanto casino.
«No, non ho intenzione di “tenervi il muso”», disse, cercando di conservare un tono leggero. «Sono solo stanca. Ora mi lavo i denti. Ci vediamo domattina».
Li spinse da parte con una gomitata sufficientemente brusca, diretta in camera da letto per prendere il beauty-case, e quando tonò erano ancora lì, con Diane che batteva nervosamente il piede sul parquet.
«Allora fai sul serio?», domandò. «Ti stai tirando indietro? Porca troia, Ana, era solo uno scherzo. Da quando hai iniziato a fare la parte della depressa?».
Per un istante la rossa pensò a tutte le risposte che avrebbe potuto dare.
Non era stato uno scherzo. Lei sapeva benissimo quanto avesse fatto male, eppure aveva deliberatamente tirato Toby nell’unico posto e nell’unico momento in cui non avrebbe potuto tentare né di sfuggirgli, né di cancellarlo. Senza contare che a quanto pareva, dopo la confessione di Malcolm prima nella macchina, quella che considerava la sua “migliore amica” non era poi così sincera, a tal punto da non averle detto il vero motivo della sua presenza.
Forse nemmeno Diane era la brava amica che credeva di essere. Forse nemmeno lei.
Ma tanto a cosa sarebbe servito arrabbiarsi? Come un’idiota aveva abboccato all’amo, e adesso era andata in tilt come da copione. Ormai il danno era fatto.
«Non mi sto tirando indietro», replicò stancamente. «È l’una passata ed io sono in piedi dalle sei. Per favore. Voglio solo dormire un po’, davvero».
Mentre diceva quelle parole si rese conto che stava implorando, adducendo pretesti, tentando di assolvere sé stessa dal senso di colpa per essersi chiamata fuori. Per qualche motivo l’idea la innervosì. Nessuno degli invitati aveva più quattordici anni. Non dovevano mica starsene appiccicati come se fossero legati da un invisibile cordone ombelicale. Avevano preso strade separate ed erano tutti sopravvissuti. Il fatto di volersene andare a letto non avrebbe rovinato per sempre la festa di Malcolm, e non doveva giustificare la sua assenza come un prigioniero di Star Chamber.
Adesso che ci pensava, in altre occasioni avrebbe sbraitato e li avrebbe mandati tutti a fare in culo, facendo la parte della superiore altezzosa come suo solito. Eppure da quando aveva messo piede in quella casa di vetro si sentiva come indebolita, come una ragazzina spaventata. Il ché non era affatto da lei.
Quel posto le stava facendo uno strano effetto.
«Me ne vado a letto», ripeté.
Ci fu una pausa. Malcolm e Diane si guardarono a vicenda: «Okay», disse il primo.
Per qualche irrazionale motivo quell’unica parola la irritò più di tutto il resto: sapeva che in fondo stava solo accettando la sua decisione, ma la parola conteneva un’eco di “permesso accordato” che le fece accapponare i capelli. Non sono una schiavetta da comandare a proprio piacimento, figlio di puttana!
«’Notte», tagliò corto, e li spinse da parte per entrare in bagno.
Al di sopra dello scroscio dell’acqua del rubinetto e dello strofinio dello spazzolino da denti, li sentiva bisbigliare in corridoio, ma decise ugualmente di restarsene lì a togliersi i residui di mascara con insolita cura finché le loro voci non si affievolirono e non udì i loro passi allontanarsi sul parquet.
Buttò fuori il respiro, sbarazzandosi di un accumulo di tensione che non sapeva nemmeno di aver trattenuto, e sentì rilassarsi i muscoli delle spalle e del collo.
Perché? Perché da quando era entrata in quella casa le persone sembravano avere tutto quel potere sulla modella? E perché lei glielo stava permettendo?
Con un sospiro, ficcò dentifricio e spazzolino nel beauty-case e aprì la porta, per poi dirigersi verso la camera da letto a passi felpati. Fresca e silenziosa, era diversissima dal soggiorno surriscaldato. Udì fluttuare lungo le scale la voce di Lady Gaga, ma il suono si ridusse a semplici note di basso in sordina una volta che, richiusa la porta, si buttò a peso morto sul letto. Il sollievo fu indescrivibile. Ad occhi chiusi poteva immaginarsi di ritorno nella sua grande villa a Denver, mancava solo il rumore del traffico e dei clacson fuori dalla finestra.
Il desiderio di essere di nuovo lì era talmente forte che poteva quasi sentire sotto il palmo la morbidezza del suo vecchio piumone a fiori, e vedere la veneziana di vimini che ticchettava sommessamente contro la serranda.
Invece bussarono alla porta, e quando riaprì gli occhi si ritrovò davanti la vuota oscurità del bosco riflessa attraverso la parete di vetro.
Sospirò, e mentre raccoglieva le forze per rispondere, udì bussare di nuovo.
«Ana?».
Era Ashley. Stava lì fuori con le mani sui fianchi.
«Ana! Non posso credere che tu voglia fare questo a Mal!».
«Cosa?», si sentì calare addosso un’immensa stanchezza. «Che io voglia fare cosa? Andarmene a letto?».
«Ho fatto degli sforzi enormi per renderlo un week-end perfetto per Mal: guarda che ti uccido, anzi, ti faccio uccidere, se lo rovini già dalla prima sera!».
«Senti palla di lardo, io non sto rovinando un cazzo di niente. Sei tu che stai gonfiando esageratamente la faccenda. Voglio solo andare a dormire. Va bene?».
«No, non va affatto bene. Non ti permetterò di sabotare tutto quello per cui ho lavorato tanto!».
«Io voglio solo andare a dormire», ripeté la rossa come un mantra.
«Beh, allora vuol dire che ti stai comportando da… troia egoista», sbottò Ashley. Era tutta rossa in faccia, e pareva sull’orlo delle lacrime. «Mal… Mal è il migliore di tutti, chiaro? E si merita… si merita…», le tremolò il mento.
«Sì, vabbé», replicò Anastasia e, senza pensarci due volte, le sbatté la porta in faccia.
Per qualche istante continuò a sentirla ansimare lì fuori e pensò: se dovesse scoppiare in singhiozzi, sarebbe stata costretta ad uscire per scusarsi, anche per non fare per l’ennesima volta la parte della cattiva di fronte a delle persone.
Ma non andò così. Con chissà quale immenso sforzo, Ashley si diede una calmata e scese di sotto, lasciando la modella a sua volta molto prossima alle lacrime.

Non sapeva bene che ore fossero, quando Diane salì di sopra, sapeva solo che era tardi, tardissimo. Pur non essendo ancora addormentata, Anastasia finse di esserlo, rannicchiata sotto il piumone con il cuscino sopra la testa mentre lei si aggirava pesantemente per la stanza, facendo cadere flaconi di cosmetici e inciampando con la valigia.
«Sei sveglia?», sussurrò infilandosi nel lettino accanto a quello dell’amica.
La sedicenne pensò di ignorarla, ma poi sospirò e si girò verso di lei.
«No. Probabilmente perché tu hai preso a calci tutti gli oggetti che incontravi nel tuo cammino».
«Scusa», si rannicchiò a sua volta sotto le lenzuola, e l’altra scorse un luccichio dei suoi occhi mentre sbadigliava e sbatteva le palpebre, esausta. «Ascolta, mi dispiace per prima. Ti giuro che io non…».
«Non ha importanza», replicò Anastasia stancamente. «L’errore è stato mio. Ho reagito in maniera esagerata. È solo che ero esausta, e ubriaca». Nonostante il suo brutto carattere, la modella aveva ammesso le proprie colpe e aveva addirittura deciso che forse avrebbe chiesto scusa ad Ashley, il mattino dopo. Di chiunque fosse la colpa, in quella storia, di sicuro non era sua.
«No, sono stata io», ribatté la bruna. Giratasi sulla schiena si mise la mano sugli occhi. «Ho fatto la solita parte della scassacazzo. D’altra parte, sai, è passato più di un anno. Forse davo per scontato che…», si interruppe, ma l’amica sapeva cosa intendesse dire. A chiunque verrebbe da pensare che una persona normale avesse almeno un po’ superato l’accaduto in maniera sana, e voltato pagina.
«Lo so», disse con un sospiro. «Credi che non me ne renda conto? Sono patetica».
«Ana, ma cosa è successo? Perché è chiaro che è successo qualcosa. Non ci si comporta così, per una normale rottura sentimentale, o per… beh, hai capito».
«Non è successo niente. Io l’ho lasciato. Fine della storia».
«A me non l’hanno raccontata così», si girò di nuovo su un fianco, e percepì nell’oscurità il suo sguardo sul viso dell’altra. «Ho sentito dire che è stato lui a lasciarti».
«Beh, hai sentito male. L’ho lasciato io. Non mi sono più fatta sentire».
Faceva così male, far tornare a galla quei ricordi era come una tortura. Aveva voglia di domandargli di Malcolm, delle cose che le aveva detto in macchina, ma in quel momento non si sentiva coraggiosa abbastanza.
«Okay… però… senti, non te l’ho mai chiesto, ma per caso lui…».
Si fermò a metà. Anastasia poteva quasi sentire le sue rotelle celebrali che giravano frenetiche nel tentativo di formulare una frase potenzialmente insidiosa.
Restarono in silenzio per un po’.
«Oh, cazzo, non c’è modo di chiedertelo senza apparire indiscreta, però devo farlo proprio. Lui non ti avrà mica… non ti ha picchiata, vero?».
«Cosa?».
Questa non se l’aspettava.
«Oh, è chiaro che no, scusami», la bruna si rigirò sulla schiena.
«Senti, Didì».
«Diane».
«Oh cavolo, Wilford e Ashley devono avermi contagiata!».
«Comunque, ad essere sincera, il tuo modo di reagire dopo che vi eravate lasciati, prima che lui morisse… Non puoi stupirti se la gente si chiede…».
«La gente?».
«Ascolta, avevi quindici anni e fu una cosa piuttosto drammatica, tra te che avevi iniziato a reagire come un coniglietto spaventato e Lyra, la sorella di Toby, completamente a pezzi. Se ne è parlato parecchio alle tue spalle, va bene?».
«Oh, ma che cazzo!», alzò gli occhi al soffitto. Regnava un silenzio totale, a parte un ticchettio sommesso all’esterno, simile alla pioggia ma ancora più delicato. «Davvero la gente pensò questo?».
«Sì», replicò laconica Diane. «Direi che era la notizia più diffusa, tra le varie teorie. O anche che ti avesse trasmesso qualche malattia venerea, o che ti avesse messa incinta».
Oh, povero Toby. Dopo tutto quello che gli era successo, non si meritava pettegolezzi del genere.
«No», rispose alla fine. «No, Toby Erin Rogers non mi prese a botte, non mi trasmise alcuna malattia venerea, né mi mise incinta. E ti sarei grata se lo riferissi a chiunque ti facesse domande in proposito. Adesso buonanotte, mi metto a dormire».
«Va bene», concluse Diane con tono arreso. «Se non vuoi raccontarmelo, non andrò oltre. Comunque prima, Felix si è preoccupato tantissimo per te. Voleva andarti a parlare, ma era troppo ubriaco perfino per muoversi. Credo che tu gli piaccia, e secondo me stareste bene insieme. È davvero una brava persona».
«Non me ne sbatte il cazzo. Buonanotte».
Anastasia si girò su un fianco ad ascoltare il silenzio, il rumore del respiro esasperato dell’amica ed il leggero picchiettio là fuori.
E finalmente si addormentò.

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice: Volete sapere quante pagine ho scritto? Undici. Undici.
Vorrei come al solito ringraziare tutti coloro che hanno recensito, quelli che hanno inserito la storia tra le preferite, le seguite e…anche a tutti i lettori silenziosi.
Come avete potuto vedere in questo capitolo viene rivelato molto su Anastasia, e vedrete che prima o poi le cose si faranno più chiare, eheh.
Perdonate se non ho scritto tanto nelle “note dell’autrice” o nel caso trovaste qualche errore di battitura, ma dato che è arrivata l’estate, sono sempre fuori casa e sto facendo le ore piccole. Vogliate perdonarmi!
Eeee niente, spero di non avervi deluso, e aspetto as always le vostre opinioni.
Princess of Marshmallows. ( Avete visto? Ho cambiato di nuovo NickName! Il prossimo quale sarà? Sono aperte le scommesse.(?) )

   
 
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