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Autore: Adeia Di Elferas    17/06/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Caterina terminò di leggere la lettera di Isabella d'Aragona, con cui la cognata la informava della nascita del figlio, chiamato Francesco, e la ringraziava per tutto quello che aveva fatto per lei nei mesi addietro.
 Per quanto non si sentisse di meritare tutti quei ringraziamenti, Caterina ne restò favorevolmente impressionata e scrisse subito la risposta, con cui sottolineò pure quanto avesse apprezzato la scelta del nome per il piccolo.
 'Vostro figlio si chiamerà Francesco Sforza – aveva scritto – esattamente come mio figlio Sforzino e la cosa non fa che colmarmi di gioia.'
 Terminato di scrivere la missiva, Caterina lasciò la lettera sulla scrivania e si mise in attesa di Giacomo, che ancora non si vedeva.
 Si mise a leggiucchiare un libro che parlava di alchimia, in particolare degli effetti sedativi di alcune piante, come l'oppio, e di quando in quando pensava a quello che le avevano detto circa l'apparizione di suo figlio al corte del Giovedì Santo.
 La popolazione, le avevano riferito, aveva accolto con una certa sorpresa la sua presenza, ma si era dimostrata abbastanza benevola nei suoi confronti, malgrado fosse sembrato a tutti abbastanza impacciato e teso, soprattutto al momento del suo ingresso in Duomo.
 Quando Caterina aveva provato a chiedere a Ottaviano come fosse andata, lui aveva chiuso in fretta l'argomento dicendo solamente: “Bene.”
 Finalmente Giacomo arrivò nella loro camera, e, con un sonoro sbuffo, si lasciò cadere sul letto a faccia in giù, stremato.
 “Stanco?” chiese Caterina, chiudendo il volume e abbandonandosi contro lo schienale della chiesa.
 Giacomo la guardò un momento, poi si voltò mettendosi supino e, fissando il soffitto, rispose: “Spostare certe armature è un po' pesante, in effetti.”
 “Dovresti farlo fare ai soldati addetti all'armeria.” gli fece notare Caterina: “Tu sei il castellano, non ti spettano certi compiti.”
 “Delle carte ti occupi tu, perché io ci metto un'eternità a leggere anche solo una riga – prese a dire Giacomo, abbattuto – di organizzare la rocca te ne occupi tu, perché conosci meglio di me il mondo militare, almeno lasciami fare i lavori di fatica. Li faceva anche mio fratello, no?”
 Caterina si morse l'interno della guancia. Non era la prima volta che affrontava quell'argomento e Giacomo ne sembrava sempre più infastidito. Il suo ruolo non gli confaceva e, per quanto le cose alla rocca filassero sempre lisce come l'olio grazie all'impegno di Caterina, il ragazzo cominciava a sentirsi profondamente inutile.
 “Mi ha risposto mio zio Ascanio. Per Cesare, sai.” disse Caterina, cambiando radicalmente oggetto di conversazione.
 Giacomo, però, non sembrava proprio capace di risollevare il tono della serata, tanto che rispose, mesto: “Per me è Ottaviano, quello che dovresti chiudere in convento, non Cesare.”
 “Ottaviano è il primogenito, non posso allontanarlo.” obiettò immediatamente Caterina: “E poi Cesare sta dimostrando un'inclinazione naturale per le materie religiose, sarebbe un peccato non approfittarne.”
 “Come preferisci. Secondo me, però, Cesare sarebbe più facile da tenere sotto controllo, rispetto a Ottaviano.” ribadì Giacomo.
 Caterina sospirò. In parte la pensava come Giacomo, ma d'altro canto voleva proteggere Cesare, come tutti i suoi figli più piccoli e sapeva che un modo efficace per farlo era tenerli lontani dal potere in tutte le sue forme.
 “Senza contare che Ottaviano mi odia.” aggiunse Giacomo, sempre più di cattivo umore.
 La Contessa non voleva per nessun motivo sentir parlare così suo marito, perciò decise di troncare sul nascere la questione, mettendolo a tacere nell'unico modo che funzionava.
 Silenziosamente, gli si andò a coricare accanto e, dopo avergli accarezzato lentamente la fronte, lo zittì con un lungo e appassionato bacio che risvegliò in fretta il giovane.
 Forse non era il modo migliore per affrontare i loro problemi, ma ormai entrambi non trovavano soluzione migliore di quella, per evitare litigi e tensioni. Finché stavano l'uno stretto all'altra, lasciando che la passione parlasse per loro, riuscivano a chiudere il mondo e i suoi problemi fuori dalla loro stanza. Se invece permettevano alle parole di allontanarli, l'assedio dall'esterno diventava insostenibile.

 “La verità è che non ti piaccio più.” disse a voce bassa Cecilia, guardando con rancore Ludovico.
 L'uomo schiuse le labbra e cominciò a fare l'espressione che faceva tutte le volte in cui non sapeva da che parte prendere. Cecilia, ormai, lo conosceva così bene che non le serviva altro se non un'occhiata, per capire quando Ludovico era in difficoltà.
 “Quando nascerà nostro figlio mi lascerai, non è così?” continuò, con l'accusa sempre più palpabile nella sua voce: “Ormai per te esiste solo quella ragazzina...”
 Ludovico non sopportava di sentir parlare così di sua moglie Beatrice, perciò si alzò dalla cassapanca su cui si era adagiato e si affrettò a ribattere: “Dovresti essere grata a mia moglie, che ti permette di stare a palazzo solo in riguardo al tuo stato...!”
 Cecilia incrociò le braccia sul petto, imbronciata, il profilo aggraziato rivolto verso la finestra da cui trapelava uno dei primi veri soli di quella stentatissima primavera.
 Ludovico guardò la donna che aveva amato sopra ogni altra e si vergognò un po', nell'accorgersi che in effetti il fuoco che l'aveva spinto a sfidare la sorte per lei si stava spegnendo sempre di più.
 Riconosceva la bellezza delicata di Cecilia, e ne amava ancora la sconfinata cultura – che si era affinata ulteriormente nel corso della sua vita a corte – ma non poteva negare che Beatrice avesse qualcosa di più.
 “Non ti accorgi nemmeno di quanto quella bambinetta sia in realtà viziata e prepotente? Non la riprendi mai per niente, ma da quello che so è una vera peste.” si ostinò Cecilia, aggrappandosi all'ultima speranza di far rinsavire il Moro: “Ti devo forse ricordare io di come abbia più di una volta mandato i suoi cavalli a briglia sciolta solo per far ruzzolare giù di sella le sue dame di compagnia?!”
 Ludovico buttò gli occhi al cielo e stava per far notare a Cecilia come quella volta nessuno si fosse fatto davvero male, quando qualcuno bussò alla porta per chiamare proprio il Moro.
 “Vostra moglie e la Duchessa sono appena rientrate...” disse il servo, un po' incerto.
 “E quindi?” chiese Ludovico, imponendosi sul ragazzo con tutta la sua stazza.
 Il servo gli fece capire di seguirlo in fretta, perché non sapeva come valutare la situazione. Così Ludovico fece un cenno a Cecilia, a mo' di saluto e se ne andò.
 Cecilia non lo guardò nemmeno e, appena fu sola, andò alla specchio e cominciò a guardare il proprio viso, cercandovi la luce che il maestro Leonardo era riuscito a immortalare sulla sua tela, ma non la trovò.
 “Ma che è successo?” chiese Ludovico, appena fu alla presenza della moglie, della Duchessa Isabella e di quattro dame di compagnia.
 Erano tutte fradice di pioggia, coi vestiti immaltanati e in parte strappati e sulle loro gote – soprattutto su quelle di Beatrice – era ancora presente il rossore dello scontro.
 “Eravamo in giro per Milano – cominciò a dire proprio Beatrice, piccata – con i nostri pannicelli asciugacapi in testa per non bagnarci di pioggia e alcune donne all'improvviso ci hanno detto che era da villani indossarli.”
 Il Moro si accigliò, pensando che in effetti a Milano non era ritenuta buona creanza portare simili copricapi.
 “Allora io ho risposto che le villane erano loro, che si permettevano di parlarci così.” proseguì Beatrice, agitandosi un po' sui piccoli piedi.
 “E allora che è accaduto, poi?” la incalzò Ludovico, mentre un sorrisetto gli incurvava le labbra, dato che già intuiva quel che sua moglie stava per dire.
 “E allora abbiamo cominciato ad azzuffarci ed è scoppiata una rissa.” concluse Beatrice, gonfiando le guance tonde e guardando il marito, in attesa di scoprirne la reazione.
 Il Moro scoppiò a ridere e, con una giovialità che raramente gli si vedeva addosso, disse ai servi: “Aiutate queste signore a raggiungere le loro stanze e fate in modo che si rassettino e si riposino, dopo una simile battaglia!”

 Battista Sfrondati stava aspettando di incontrare la Contessa Sforza Riario e si chiedeva coma mai lo stessero facendo attendere così tanto.
 Era abituato, ormai, a essere trattato con sufficienza dalla signora di Forlì, tuttavia lasciarlo in balia della pioggia non gli pareva un buon modo di accoglierlo.
 Stava davanti al portone della rocca, chiuso, benché il ponte fosse calato, e ogni volta che cercava di ripararsi un po', avvicinandosi al muro, le due guardie di turno lo squadravano con occhi malevoli, facendogli capire di non prendersi troppe libertà.
 Le temperature si erano fatte appena più miti, ma non bastava certo quel rialzo lieve delle temperature per rendere meno impietoso il pianto gelido della pioggia.
 Dall'alto delle merlature arrivò un grido e finalmente il portone venne aperto. Sfrondati attese che le guardie gli dessero l'espresso permesso di entrare e solo allora mise piede nella rocca di Ravaldino.
 “Perché avete voluto incontrarmi?” chiese Caterina, seduta alla scrivania che avrebbe dovuto essere occupata dal castellano.
 Battista fece un profondo inchino e, sorridendo come nulla fosse, benché stesse lasciando in terra una chiazza d'acqua, disse: “Sono qui per consegnarvi di persona una lettera di vostro zio, il Duca Ludovico...”
 “Mio fratello è il Duca di Milano, non mio zio.” ribatté stancamente Caterina, allungando una mano per prendere la lettera.
 Sfrondati alzò appena le mani, come a scusarsi del qui pro quo e consegnò il messaggio alla Contessa.
 “Sapete già dirmi cosa mi è stato scritto, immagino...” fece la Contessa, afferrando la lettera e spezzando la ceralacca, che sembrava essere stata rincollata di recente.
 Sfrondati si finse scandalizzato da una simile affermazione, ma alla fine trovò inutile mentire: “Vi annuncia la nascita del figlio di vostro fratello.”
 Caterina, intanto, stava leggendo in fretta le poche righe scritte dal Moro, con cui in effetti le annunciava la nascita del piccolo Francesco, notizia si cui lei era già stata messa a parte da un po'.
 Tuttavia, a colpirla non fu il modo in cui Ludovico minimizzava l'accaduto, scrivendo 'un pupo magretto, bianco di pelle e di poco peso. Speriamo in Dio che non abbia ad avere la medesima costituzione incerta del padre suo, Gian Galeazzo.', ma la frase che chiudeva la lettera.
 'Il figliolo del vostro fratello ora cresce nel palazzo che vide anche voi bambina e capisco cosa si intende, quando sento dire che è difficile far passare inosservato un bimbo piccolo in una rocca abitata da soldati.'
 “Potete andare.” chiuse Caterina, stringendo in pugno la lettera di Ludovico.
 Sfrondati si esibì in un ennesimo inchino e lasciò lo studiolo.
 Appena fuori, prima di ributtarsi nella pioggia, l'ambasciatore milanese incrociò il Conte Ottaviano e suo fratello Cesare. Stavano correndo, presumibilmente in ritardo per le loro lezioni quotidiane.
 Con uno svolazzo della mano, Sfrondati si adoperò a dimostrare al Conte tutta la sua benevolenza, come gli era stato ordinato da Ludovico Sforza e così, nel salutarlo, si inchinò tanto quanto avrebbe fatto in presenza di un re: “Signor Conte, signore. Vi porto i più sentiti omaggi del mio signore, Ludovico Sforza, reggente del Duca di Milano, vostro fedele servo.”
 Ottaviano restò colpito da un simile gesto e ricambiò il saluto con un rapido cenno del capo, ostentando una superiorità che in realtà sapeva di non avere.
 
 “Vedete?” fece Ludovico, indicando le travi che i muratori avevano posizionato per rimettere in sicurezza il tetto: “Con queste ultime migliorie questo palazzo tornerà come nuovo e finalmente Cecilia Gallerani potrà trasferirsi.”
 Giacomo Trotti, ambasciatore ferrarese, osservò compiaciuto quei lavori di ristrutturazione e domandò: “Quando pensate che saranno finite, tutte queste migliorie?”
 Il Moro diede un breve colpo di tosse, per via della polvere che avevano sollevato camminando, e rispose: “Non saprei di preciso, ma di certo subito dopo il parto.”
 Trotti strinse le labbra e prese nota mentale, per poter scrivere una missiva il più precisa possibile ai suoi signori.
 “Questa era una delle proprietà del compiante Pietro Dal Verme, il marito di vostra nipote Chiara, o sbaglio?” chiese l'ambasciatore, mentre Ludovico lo scortava fuori dal palazzo.
 Il reggente del Duca annuì con una certa gravità: “Dalla sua morte è tornato a essere possedimento del Ducato.”
 “Non aveva eredi?” fece Trotti, fingendosi molto rammaricato.
 “No.” disse in fretta il Moro, mentre indicava la carrozza all'ambasciatore, invogliandolo a ripartire subito.
 “Nemmeno fratelli?” chiese, con una certa insistenza, il Trotti.
 Il Moro stiracchiò un sorriso e chiuse la questione: “Sì, ma non erano in grado di amministrare degnamente i possedimenti del povero Pietro.”
 Lungo il viaggio di ritorno, Trotti si perse a guardare languidamente il panorama, godendosi la luce pallida del sole che sbucava dalle nuvole scure, mentre il Moro si tormentò, chiedendosi quanto mancasse, in realtà, alla nascita del figlio che aspettava da Cecilia.
 Per quanto gli paresse assurdo, la presenza di quella donna stava diventando un peso anche per lui.
 Se fino a pochi mesi prima aveva ritenuto del tutto inconcepibile l'idea di allontanarsi da lei, ormai era arrivato a un punto che la sua compagnia non lo interessava più.
 Era stato un processo molto strano e particolare. Più Beatrice ingombrava la sua mente e accendeva la sua curiosità, più Cecilia diventava un ricordo sbiadito e un argomento sempre meno interessante.
 Beatrice che, coi suoi modi allegri e schietti, ancora lo respingeva, seppur con fare sempre più civettuolo, lo attraeva sempre di più, mentre Cecilia, il porto sicuro, la donna che lo conosceva come nessun altro, gli pareva ormai qualcosa di superfluo e inutile.
 Notando a un certo punto l'espressione affranta di Ludovico – che si stava sinceramente tormentando a causa dei suoi sentimenti, che riteneva ingiusti nei confronti di Cecilia – Trotti a un certo punto chiese: “State bene?”
 Il Moro alzò le sopracciglia e, con lentezza, rispose con una domanda: “Può forse un uomo nella mia posizione stare male?”

 “Ha quasi sei mesi, ormai, dobbiamo cominciare a svezzarlo.” stava dicendo Caterina alla nutrice che aveva appena rimesso nella culla il piccolo Bernardino.
 La donna si disse d'accordo e chiese quando la Contessa desiderasse provare con il primo pasto misto e che tipo di piano di svezzamento avesse in mente.
 L'interessamento di Caterina per questi aspetti della vita del figlio del castellano erano stati spiegati alla nutrice in modo molto semplicistico. Siccome la Contessa era amica di famiglia dei Feo e aveva avuto ben sei figli, aveva deciso di dare il suo aiuto e mettere a disposizione di quel bambino rimasto senza madre le sue conoscenze.
 La nutrice, una giovane donna che veniva da fuori Forlì, non aveva trovato nulla di strano in quella situazione, né nell'attenzione che la Contessa aveva per Bernardino. Credeva fermamente che quella fosse solo pietà cristiana.
 “Sarà una cosa graduale, ma è il momento di cominciare.” proseguì Caterina, recuperando un paio di pagine dei suoi scritti, su cui si era annotata per filo e per segno le pappe che aveva preparato ai suoi primi sei figli quando avevano l'età di Bernardino.
 “Non sarà troppo presto?” chiese Giacomo, che, pur essendo appena entrato nella stanza, aveva già intuito quale fosse l'argomento della moglie e della nutrice.
 “Ho svezzato tutti i miei figli intorno ai sei mesi, non vedo perché dovrei...” Caterina si bloccò, appena prima di chiudere la frase dicendo: 'fare un eccezione proprio con l'ultimo'.
 L'arrangiò bene borbottando: “Non vedo proprio perché dovrei cambiare le regole con vostro figlio.”
 La nutrice rise di gusto a quella scenetta e non si impensierì nemmeno quando Giacomo scoccò un'occhiata di mezzo biasimo alla Contessa.
 In realtà, marito e moglie avevano già avuto una mezza discussione in merito la sera prima. Se Caterina aveva insistito per andare avanti come aveva sempre fatto, Giacomo aveva opposto resistenza, spiegando come nella sua famiglia i bambini venissero svezzati sempre un po' più avanti e secondo lui era quello l'unico modo corretto di tirar su un lattante.
 “Fatevi leggere queste ricette dalla mia dama di compagnia.” disse piano Caterina, dando i fogli alla nutrice: “Sarà ben lieta di aiutarvi.”
 La nutrice prese le carte e ringraziò la Contessa con una mezza riverenza.
 Giacomo, che avrebbe voluto stare un po' solo con Bernardino e Caterina, capì che la nutrice era lì per dare la poppata al piccolo, che stava cominciando a piagnucolare, perciò non provò a fermare la moglie, quando ella disse che doveva proprio andare, perché era attesa dal maestro d'armi per discutere di alcuni acquisti che andavano fatti per rinnovare l'armeria.
 Rimasto solo con la nutrice, Giacomo abbandonò il sorriso che aveva esibito per accompagnare Caterina alla porta e disse, con voce fredda e inflessibile: “Vi dirò io quando cominciare a svezzare mio figlio.”
 La nutrice, interdetta, non sapendo cosa dovesse fare – seguire gli ordini della Contessa Sforza Riario o quelli del padre del piccolo Bernardino – riservò anche al castellano una mezza riverenza e poi disse: “Ora, se scusate, dovrei dar da mangiare a vostro figlio...”
 Giacomo fece un cenno secco col capo e poi uscì dalla stanza senza dire altro.
 La nutrice appoggiò i fogli che le aveva dato la sua signora nella culla e prese in braccio Bernardino. Prima di mettersi comoda per allattare, la donna si prese un momento solo per pensare, ma non riusciva a risolversi.
 Solo di una cosa si era fatta persuasa, quel giorno: il castellano Feo era un gran bell'uomo, giovane e prestante, ma aveva qualcosa che faceva gelare il sangue nelle vene.

   
 
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