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Autore: Adeia Di Elferas    19/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ La corte milanese si era spostata di nuovo a Vigevano, per festeggiare il Calendimaggio.
 Le due Duchesse, come stavano diventando note, non facevano altro che mostrarsi in pubblico assieme, mentre i giovani della corte, vestiti di verde, facevano scorribande sui prati e onoravano quella festa che avrebbe dovuto sancire l'inizio della bella stagione.
 Il cielo, però, era ancora di un incerto color avorio e solo per pura fortuna non riversò nemmeno una goccia di pioggia sulla corte in festa.
 Beatrice indossava abiti ricchissimi, impreziositi da pietre dalle dimensioni quasi pacchiane, che mettevano in risalto invece la sobrietà del vestito della cugina, Isabella d'Aragona.
 Questa continuava nel suo intento di ingraziarsi la Duchessa di Bari, ma non c'era modo, in realtà, di farla sciogliere quel tanto che bastava da poterla ritenere una presenza amica.
 Beatrice aveva resistito alla prima tentazione di scacciare la cugina, Duchessa di Milano, perché in fondo le piaceva avere accanto qualcuno come lei. Con la sua fronte sempre aggrottata e il suo umore nero, Isabella faceva risaltare Beatrice, che invece era sempre allegra e pronta alla risata.
 La corte pareva apprezzare molto di più la moglie del Moro, da quando poteva fare quel vivo confronto con la moglie del Duca.
 Ludovico riposava mollemente sdraiato all'ombra di un albero, mangiando distrattamente qualche fettina di salame, portato espressamente da Milano, e osservando da lontano la moglie che rideva e scherzava assieme ad alcuni nobili che erano accorsi a Vigevano per quella festività.
 C'era stato, in realtà, un motivo molto serio per convincere il Moro a trascinare tutti lì. Cecilia stava per partorire e lui non voleva essere presente, quando suo figlio o sua figlia sarebbero nati.
 Anche se tutti sapevano benissimo che in quei giorni al palazzo di Porta Giovia c'era una giovane donna pronta a dare al reggente del Duca di Milano l'ennesimo figlio illegittimo, Ludovico credeva che fosse meglio non enfatizzare troppo la cosa mostrandosi accanto alla partoriente.
 
 Quel giorno Caterina si era avventurata fuori dalla rocca di Ravaldino per far visita al suo fidato delatore di notizie più o meno ufficiali, lo storico-barbiere Andrea Bernardi.
 Sotto la pioggia fredda e battente di quel giorno, nessuno o quasi l'aveva riconosciuta, mentre con passo rapido attraversava le strade della città, coperta dal cappuccio spesso del mantello pesante.
 Il Novacula, finito in fretta il servizio a un paio di clienti, si dedicò praticamente subito alla sua signora, sebbene non avesse nulla di piacevole da riferirle.
 Caterina ascoltò il resoconto del barbiere, ma non sentì nulla che già non immaginasse. I forlivesi si stavano facendo inquieti, nel vederla in giro sempre più di rado e qualcuno aveva anche cominciato a ipotizzare che stesse male e che facesse vita ritirata perché incapace di occuparsi ancora degli affari dello Stato.
 “Ho avuto modo anche di vedere alcuni imolesi...” fece Bernardi, fissandosi la punta dei piedi: “E a Imola sembrano ancora più impazienti di rivedervi che non qui a Forlì.”
 “C'è il marito di mia madre, alla rocca di Imola. A loro non basta come presenza?” soffiò Caterina, che si sentiva stretta all'angolo.
 “A quanto pare no.” rispose piano il Novacula.
 La Contessa si sistemò i capelli, tenuti fermi da una reticella senza fronzoli, ben più umile rispetto a quelle che portavano altre donne del suo stesso rango, e sospirò: “Sarà il caso che mi decida a fare un viaggio a Imola, dunque.”
 Bernardi, parlando con la stessa franchezza con cui avrebbe parlato alla sua signora quando si erano conosciuti, buttò lì: “Sapete, mi chiedo spesso come mai non usciate più dalla rocca o quasi. A volte sembra che tra quelle pietre ci sia qualcosa o qualcuno che ve lo impedisce.”
 Caterina fece una breve smorfia, che il Novacula non seppe interpretare, poi la donna concluse: “Troverò un modo per tornare a occuparmi di tutto come facevo prima.”
 Il barbiere si accontentò di non avere altre spiegazioni e passò oltre: “Ho sentito anche delle chiacchiere sgradevoli sul castellano Feo.”
 “Che tipo di chiacchiere?” chiese subito la Contessa, puntellandosi sulla sedia con un'attenzione che fino a quel momento le era mancata.
 Bernardi si schiarì la voce e, conscio di star toccando un punto dolente, spiegò: “Molti si chiedono come abbia fatto un uomo come lui a scalare così in fretta i gradini della carriera militare e qualcuno si domanda chi sia in realtà la madre del bambino che vive alla rocca.”
 Non arrivò risposta dalla signora di Forlì, perciò il Novacula si mise a guardarla, aspettandosi o una battuta sprezzante o una considerazione ponderata in merito a quel pettegolezzo. Invece Caterina non fece altro che fare un piccolo sbuffo, seguito da un mezzo ghigno, e alzarsi chiudendo la visita con un saluto un po' sottotono.
 
 Nel silenzio tombale dell'ala nobile del palazzo di Porta Giovia, in quei giorni quasi deserta, si udì il primo pianto di un neonato.
 “Un maschio...” sussurrò Cecilia, quando la levatrice le mise il bambino tra le braccia.
 “L'è propi bel.” concordò l'anziana che, avendo assistito a centinaia di parti, parlava a ragion veduta.
 Cecilia trattenne a stento le lacrime, provata dalla fatica del travaglio e dal senso di solitudine che l'aveva presa fin dalla partenza di Ludovico alla volta di Vigevano.
 “Riprendetelo, per favore...” sussurrò, rivolta alla levatrice, che si affrettò a recuperare il piccolo e a darlo alla sua assistente, ordinandole di lavarlo e prepararlo a dovere.
 Cecilia lasciò che l'anziana si prendesse cura di lei e alla fine, quando tutto fu sistemato, la pregò di chiamare qualcuno che potesse scrivere un messaggio da inviare subito a Vigevano.
 Quando lo scribacchino arrivò, Cecilia stava ancora cercando di trattenere le lacrime, perciò ci mise un po', prima di dire, con voce tremante: “Scrivete a Ludovico Sforza, signore di Milano, che è nato suo figlio.”
 
 “No, non andrò subito... Aspetterò ancora qualche giorno...” disse subito Ludovico, quando Beatrice gli chiese quando avesse intenzione di tornare a Milano per vedere il nuovo nato.
 “Sappiate – proseguì il Moro, mentre la moglie assumeva un'espressione abbastanza compiaciuta per la mancanza di fretta del marito nel voler vedere il figlio – che con questo nuovo bambino, avrete un nuovo servo fedele, perché ho intenzione di donarvelo, non appena sarà abbastanza grade e vi prometto anche che non toccherò mai più sua madre nemmeno con un dito e che...”
 Beatrice alzò una piccola mano per frenare la lingua del Moro, che rischiava di promettere un po' troppe cose tutte assieme: “Per il momento non decidete nulla di cui potreste pentirvi. E poi credo che Cecilia Gallerani possa rimanere a corte, almeno ancora per un po'...”
 Ludovico comprese il sottinteso di quelle parole e, se da un lato si sentì sconfitto dal fatto che la moglie ancora non lo volesse, dall'altro era entusiasta di una simile liberalità, dote tanto rara in una donna, per di più tanto giovane e istruita in modo tanto rigido!
 Ludovico baciò la mano della sua signora e, mentre dai giardini qualcuno li chiamava per pregarli di assistere all'ennesima corsa di cavalli, le sussurrò: “Voi siete la donna che ho sempre sognato.”
 Le labbra a cuore della giovane si sollevarono in un ampio sorriso e, mentre si lasciava scortare dal Moro verso i cavalieri vestiti di verde, chiese: “Come lo chiamerete, questo bambino?”
 Ludovico sospirò e, ricordandosi anche i discorsi in merito fatti assieme a Cecilia, rispose: “Credo che lo chiameremo Cesare.”

 Filippo Decio, dall'alto della sua cattedra stava declamando alcuni principi fondamentali del diritto canonico, mentre i suoi studenti cercavano di dimostrare interesse per quella serie infinita di frasi in latino inframmezzate a considerazioni tanto noiose quanto sterili.
 Cesare Borja, un giovane irrequieto di nemmeno sedici anni, continuava a muovere la gamba con impazienza, sperando che il giurista decidesse di anticipare la fine della lezione, se non altro per permettere a tutti di godere di qualche ora di luce in più.
 Tra tutte le aule e i luoghi della Sapienza di Pisa, Decio aveva scelto proprio la stanzetta più angusta e buia, tanto per ricordare a tutti loro che mentre fuori stava per cominciare l'estate, a loro spettavano ancora lunghe ore di lezione.
 Per cosa, poi?
 Giovanni Medici, figlio del Magnifico, coetaneo di Cesare, lanciò al figlio del segretario del papa uno sguardo eloquente, a indicare che pure lui era stufo marcio di sentir parlare quel pedante docente delle leggi della Chiesa.
 Giovanni era già cardinale e tanto bastava, di solito, a suscitare in Cesare un misto di invidia e commiserazione. Da un lato Borja non capiva come mai il figlio di un Medici avesse già quella carica a soli quindici anni quando lui, il figlio del segretario del papa, non aveva ricevuto alcun titolo del genere.
 Dall'altro, rifuggendo la vita ecclesiastica, Cesare vedeva nel Medici una povera vittima e sperava con tutto il cuore di non far la sua stessa fine.
 Quando finalmente Decio decise che il pubblico che gli stava davanti non stava sentendo nemmeno mezza parola, decretò che la lezione poteva dirsi conclusa e, con le ultime raccomandazioni del caso, mandò tutti quei figli di potenti a ricrearsi all'aperto, al sole di maggio.
 Cesare si alzò con lentezza, sentendo tutte le ossa scrocchiare, dopo la prolungata posizione fissa e salutò Giovanni Medici, che gli stava passando accanto col il suo passo cadenzato e i suoi chili di troppo.
 “Cardinale...” disse Borja, alzando un sopracciglio per far intendere l'ironia sottostante a quell'epiteto.
 In realtà il giovane Medici non indossava ancora gli abiti talari, perché, quando era stato fatto cardinale quasi tre anni prima, gli era stato imposto di non mettere la toga cardinalizia almeno fino ai sedici anni. Giovanni ne era stato ben lieto, ma quella primavera, mentre la fatidica data della vestizione si avvicinava, il pensiero di quell'ingombrante abito rosso lo terrorizzava.
 Giovanni ricambiò con una smorfia a metà tra il divertito e l'offeso, come faceva sempre e chiese al compagno di studi che intendesse fare quel pomeriggio.
 “Credo che farò un giro in città.” disse Cesare: “E magari andrò in qualche taverna.” aggiunse, pensando che un po' di compagnia e qualche calice di vino non gli sarebbero dispiaciuti.
 Giovanni allacciò le mani dietro la schiena, mentre accompagnava il figlio dello spagnolo fuori dall'aula: “Io invece credo che passerò il pomeriggio a leggere poesie. O a scriverne.”
 “Siete nato per fare il poeta, non il cardinale.” si lasciò scappare Cesare, mentre il sole del cielo pisano gli abbagliava gli occhi.
 Giovanni fece un respiro profondo e, allargando le braccia, concordò: “Non posso che darvi ragione, mio caro Borja.”
 
 “Il piccolo sta bene, è nato il terzo giorno del mese, ma mio zio è andato a vederlo solo dopo una settimana...” disse Caterina, passando alla parte di lettera che più le interessava.
 Grazie all'Oliva, che aveva ancora conoscenze a Milano, la Contessa era riuscita ad avere una linea preferenziale per alcune notizie che suo zio Ludovico difficilmente le avrebbe passato con tanta disinvoltura.
 Fu così che venne a sapere con esattezza alcuni dettagli sulla nascita dell'ennesimo figlio illegittimo del Moro e su come la Gallerani, madre del piccolo e amante del reggente, non fosse affatto andata via dal palazzo di Porta Giovia dopo il parto.
 “A Cecilia ha dato il feudo di Saronno, ma a quanto pare nel lascito a fatto intendere che si tratta solo di una ricompensa alla famiglia Gallerani, per i servigi e la fedeltà e tante altre belle storie...” proseguì Caterina.
 Giacomo, che stava alla finestra a guardare la pioggerella primaverile che cadeva, si strinse nelle spalle e disse: “Perché, che altro avrebbe dovuto dire?”
 La donna, che si era messa seduta sul letto con la schiena contro la testiera, per leggere più comodamente, spiegò: “A tutte le sue amanti ha sempre fatto regali di questo tipo, ma da quello che so nei documenti, anche in quelli più ufficiali, ha sempre detto che i doni erano per ripagarle o di qualche figlio o comunque, della loro compagnia.”
 Giacomo si voltò a guardarla: “Abbastanza avvilente.” commentò.
 Il ragazzo era appena arrivato dal cortile d'addestramento, dove stava passando in rassegna parte della truppa, come gli aveva ordinato di fare sua moglie. La pioggia improvvisa li aveva sorpresi e così Giacomo aveva deciso di rimandare il controllo e aveva raggiunto Caterina, che a quell'ora riposava nella sua stanza.
 Essendo arrivato bagnato fradicio, si era subito levato il giubbetto e la camicia, restando con indosso le brache di cuoio, quelle che di solito indossava per gli allenamenti assieme ai soldati.
 Non partecipava spesso agli addestramenti con la spada, perché troppo spesso finiva sconfitto e aveva capito che gli uomini della rocca lo avrebbero preso in giro e non l'avrebbero più rispettato, se avessero inteso la sua inferiorità con le armi.
 “Come l'hanno chiamato?” chiese il castellano, puntellandosi al muro con una spalla, facendo sparire la strana atmosfera che si era creata dopo la sua ultima considerazione.
 Caterina sorrise: “Cesare.”
 “Come tuo figlio?” chiese Giacomo, aggrottando un po' la fronte, trovando curiosa quella scelta.
 Alla Contessa scappò uno sbuffo divertito: “Come Caio Giulio Cesare, il padre adottivo dell'imperatore Augusto.”
 La bocca di Giacomo si aprì in un'espressione di improvvisa comprensione: “Come l'antico romano di cui mi parlavi l'altro giorno?”
 Nella vana speranza di colmare in parte le abissali lacune del marito, Caterina aveva cominciato a raccontargli, in ordine sparso, le storie dei potenti dell'antichità, nel tentativo di creare tra loro almeno un campo di intendimento comune. Così facendo si augurava di fornire a entrambi qualche argomento che non fosse legato solo alla loro vita quotidiana di cui parlare.
 “Sì, esatto.” annuì Caterina: “Quello che portò l'antica Roma a un'espansione territoriale mai raggiunta prima, conquistando la Gallia, i Germani e anche l'Egitto.”
 Giacomo fece un sorrisetto scaltro e, prendendo con un gesto repentino una delle coperte, se la mise sulla spalla, a mo' di drappeggio, e disse: “Sì, sì, tante belle cose, ma scommetto che lui non stava bene quanto me con la tunica.”
 “Con la toga, casomai.” lo corresse la Contessa, ripiegando la lettera arrivata da Milano.
 “Toga, tunica...!” minimizzò Giacomo, prima di alzare la mano e cominciare a declamare in una lingua pressoché inventata: “Senatores, populus, Cicero quoque...!”
 A Caterina scappò da ridere, nel sentire come il marito mescolava a caso parole che aveva sentito dire da lei, quando aveva provato a leggergli qualcosa in latino: “Ti prego, non torturare a questo modo una lingua tanto bella...!”
 Il viso di Giacomo lasciava capire quanto lui fosse in disaccordo con quell'affermazione. Trovava il latino una lingua assurda e quasi ridicola, soprattutto quando veniva declamata dai preti nelle chiese, ma lasciò perdere e continuò a declamare il suo latinorum, solo per far sorridere ancora la moglie.
 Alla fine Caterina prese uno dei cuscini e glielo lanciò, divertita: “Che stupido che sei...” 
 Giacomo afferrò al volo, tuttavia l'ilarità del momento si era spenta, perché entrambi stavano valutando le ultime parole della donna.
 Se da un lato Caterina cercava di convincersi che Giacomo buttava tutte quelle cose sul ridere solo perché aveva vent'anni ed era di indole scherzosa, lui stava pensando che lui era davvero uno stupido, sotto tutti i punti di vista.
  “Dai, Caio, vieni a dare un bacio alla tua Calpurnia.” disse alla fine Caterina, mettendo di lato la lettera e facendogli segno di avvicinarsi.
 Giacomo non si fece pregare e, mentre si avvicinava al letto, provò: “L'ultima moglie di Cesare, giusto?”
 La Contessa fece segno di sì: “Vedi che qualcosa hai imparato?”
 Caterina si lasciò baciare, ma dopo un po', mentre la sua mano passava sulla finta toga appoggiata alla spalla del marito, sussurrò: “Dobbiamo uscire di qui. Stare isolati, lontani dal mondo, chiusi in questa rocca non va bene.”
 Giacomo si fece improvvisamente serio, visibilmente contrariato da quell'affermazione. Tuttavia non si dimostrò del tutto contrario a quell'idea.
 Anzi, mettendosi a sedere accanto alla moglie, anche lui con la schiena contro la testiera del letto, domandò: “E come intendi fare? Il castellano non può uscire da Ravaldino, lo sai.”
 “E allora ti troverò una nuova carica, che ti permetta di seguirmi ovunque.” rispose Caterina, che aveva già pensato parecchio a quella prospettiva, soprattutto in vista della bella stagione.
 Presto avrebbe ripreso ad andare a caccia regolarmente e voleva anche andare a visitare le rocca di Forlimpopoli, Imola, Tossignano e tutte le campagne e non aveva voglia di fare tutte quelle cose da sola. Ormai non voleva fare più niente, se non c'era anche Giacomo al suo fianco.

   
 
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