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Autore: Adeia Di Elferas    21/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Certo, certo, sono completamente d'accordo con voi, su questo punto...” disse piano Ascanio Sforza, passandosi la pezzuola bagnata sul collo, per riaversi un po' dal caldo.
 Il Cardinale Raffaele Sansoni Riario chinò il capo, soddisfatto per quell'accordo appena preso e guardò con distrazione i soffitti decorati del salone. La casa di Trastevere dello Sforza era lussuosa quanto e forse più dei suoi alloggi in Vaticano...
 “Certo è che se vogliamo fargli fare carriera in fretta, forse sarebbe ora di chiamarlo qui a Roma...” buttò lì Ascanio, facendo un cenno ai servi affinché portassero ancora qualcosa di fresco da bere.
 Raffaele fece un sospiro profondo e, sistemandosi sulla poltrona ricamata, fece notare: “Cesare Riario ha solo undici anni... Per esperienza, sono propenso a mantenere la nostra prima decisione. Costringerlo fin da ora a una vita monastica non farebbe altro che peggiorarne il carattere. Iniziamolo agli studi, paghiamogli dei precettori adeguati. Facciamogli visita – e a quella proposta Ascanio si mosse a disagio sul suo scranno – ma evitiamo di isolarlo troppo.”
 “Però sua madre lo vuole allontanare.” constatò lo Sforza: “E dunque non vedo perché non accontentarla. Da quello che so conduce una vita molto particolare, diciamo. Perché permetterle di rovinare anche il suo secondogenito?”
 Raffaele accettò la tisana fredda che il servo gli aveva appena porto e si affrettò a far notare: “La Contessa è imparentata con la mia famiglia quanto con la vostra, Sforza. Anche a me sta a cuore il futuro dei suoi figli e il loro senso morale, ma...”
 “Ma quale senso morale!” sbottò Ascanio, quasi soffocandosi con la tisana: “A me interessa solo che quella donna non ci metta tutti nei guai! Avete presente che significa avere una persona instabile in una città importante quanto Forlì? Se scoppiasse una guerra, Dio solo sa da che parte si schiererà mia nipote...!”
 “Non credo che mettere suo figlio in convento ci assicurerebbe un'alleanza stabile con lei, però.” ribatté piccato Raffaele, riappoggiando la tazza al tavolino, come a dire che per lui la visita poteva finire anche in quel preciso istante.
 “Va bene, va bene...” si arrese Ascanio: “Ma dobbiamo tenerla d'occhio. La collaborazione tra noi Sforza e voi Riario deve continuare a lungo, chiaro?”
 Il Cardinale Sansoni Riario avrebbe voluto ribattere dicendo che Ascanio fino a quel giorno aveva fatto più attenzione alla sua amicizia con Giuliano della Rovere piuttosto che con lui, ma non era il caso di sottilizzare.
 “Piuttosto – riprese Ascanio, accigliandosi – sono vere le voci che ho sentito? Quel... Come diavolo si chiama... Quel Giacomo Feo è davvero stato fatto Governatore Generale delle truppe e delle fortezze dello Stato?”
 “Sono in costante contatto con il Conte Ottaviano.” assicurò Raffaele, ripensando all'ultima missiva del bambino: “Lui mi tiene informato su tutto e io lo aiuto come posso, ed effettivamente anche lui si è lamentato per questo fatto.”
 “Ma quel Feo non è una specie di analfabeta?” domandò lo Sforza, indisponendosi non poco al pensiero che Forlì si stava facendo sempre più instabile senza che loro potessero fare nulla di efficace per ricondurre la città sotto il loro velo di potere.
 “Sì, proprio così. Il Conte lo descrive come un bifolco. Tuttavia...” il Cardinale, che pure sapeva quanto anche Ascanio avesse fatto pressioni in quel senso nei mesi addietro, fu tentato di non aggiungere altro.
 Quando però lo Sforza gli fece segno di continuare, Raffaele cedette: “Ecco, ora che è Governatore Generale, crediamo che la Contessa lo porterà con sé in visita a Imola e Tossignano. Là ci sono alcuni uomini che lo detestano e il Conte sembra aver trovato in loro dei validi... Amici.”
 “State forse suggerendo che costoro attenteranno alla vita del Feo?” indagò Ascanio, mettendosi sul ciglio della sedia, sempre più coinvolto.
 “Senza toccare Caterina, ovviamente. Così mi è stato detto.” confermò Raffaele.
 Ascanio si passò la lingua sulle labbra e, con un sopracciglio alzato, commentò: “E voi non avete cercato di ostacolare la cosa, immagino.”
 L'altro allargò le braccia e concluse: “Perché avrei dovuto?”
 “Bene, bene...” fece Ascanio, passandosi una volta di più la pezza sulle larghe guance: “Ora che ne dite di fare un giro nei giardini? Quest'afa a Roma non la ricordavo...”

 Da quando Giacomo Feo era diventato Governatore Generale delle truppe e delle fortezze dello Stato, il posto di castellano di Ravaldino era stato preso da suo zio, Cesare Feo, che aveva accettato con gioia il nuovo incarico, dimostrandosi fin dal primo giorno mille volte più capace del nipote nell'amministrare una rocca.
 Caterina si era presa qualche settimana, prima di cominciare i suoi viaggi di ispezione verso i territori di Imola, per dare al marito un'infarinatura di tutto quello che gli sarebbe servito sapere sull'organizzazione militare che lei stessa aveva messo a punto.
 In Forlì il nuovo quartiere militare era già quasi finito, e quell'innovazione avrebbe di certo facilitato il compito a Giacomo. Alla rocca di Forlimpopoli, dove Caterina si recò col marito in visita al fratellastro, tutto era sotto controllo e così pareva anche nella piccole rocche vicine alla città.
 Caterina era certa che quella scelta fosse stata azzeccata. Poteva aggirarsi per Forlì assieme a Giacomo senza che nessuno potesse trovare troppo strano quell'abbinamento, in virtù del nuovo titolo del ragazzo. L'organizzazione della rocca di Ravaldino ora era più strutturata, perché messa in mano a un uomo che sapeva il fatto suo. Le truppe e le rocche restavano sotto il controllo diretto della Contessa e Giacomo doveva solo fare presenza e godersi gli inchini che i forlivesi dovevano fargli quando lo incontravano.
 L'avanzamento di rango dell'ex castellano aveva comportato anche una serie di piccole spese che Caterina aveva però fatto volentieri. Giacomo non poteva certo mostrarsi in pubblico sempre con addosso gli stessi vestiti modesti e dimessi. Così, prima di nominarlo Governatore Generale, la Contessa gli aveva fatto confezionare tutta una serie di abiti nuovi, adatti alla sua nuova carica e abbastanza preziosi da permettergli di non sfigurare nemmeno nel caso in cui avesse dovuto incontrare qualche dignitario o ambasciatore straniero.
 In tutto questo, i figli più grandi di Caterina assistevano impotenti all'ascesa di quell'uomo che con loro non aveva assolutamente nulla a che fare, anzi, che cominciava a trattarli non più con semplice indifferenza, ma proprio con malcelata ostilità.
 Se da un lato i giovani Riario, soprattutto Ottaviano, non facevano nulla per rendere la vita di Giacomo più facile, dall'altro il nuovo Governatore Generale ce la metteva tutta per allontanarsi da loro sempre di più. Se un tempo si era abbassato a giocare con Ottaviano e Cesare nel cortile e a trattare con riverenza Bianca, ormai evitava drasticamente i due maschi e teneva a distanza anche la femmina.
 Caterina vedeva la spaccatura profonda che stava dividendo i membri della sua famiglia, anzi, delle sue due famiglie, ma non sapeva come rimediare.
 
 Bartolomeo Calco attese con pazienza che Ludovico finisse di leggere la lettera di Sfrondati, ambasciatore milanese a Forlì, prima di dire: “Come vedete la situazione non è più sotto controllo. Non so come, ma quell'uomo sta prendendo potere con una facilità disarmante e da lì a mettere al potere suo figlio al posto del legittimo Conte, il passo sarà breve.”
 “Mia nipote non lo permetterebbe mai.” disse subito il Moro, con convinzione.
 “No, certo.” concordò Calco, con decisione: “Ma se le dovesse capitare qualcosa, siete certo che quel Feo non troverebbe un modo per liberarsi dei figli della Contessa e mettere suo figlio al posto di Ottaviano, diventandone reggente?”
 Ludovico guardò di sottecchi il suo cancelliere e buttò lì: “Mia nipote ha sempre goduto di ottima salute, non vedo perché dovrebbe capitarle qualcosa...”
 “Le disgrazie accadono.” fece notare Calco: “E le malattie possono colpire chiunque. Guardate vostro nipote Gian Galeazzo. Giusto stamane mi è stato riferito che ha passato una notte da incubo, preda di febbri e dolori e i medici quasi credevano che non arrivasse al mattino.”
 Il Moro strinse i denti e si fece più guardingo: “Anche se a mia nipote accadesse qualche disgrazia – prese a dire, circospetto – di certo Roma si muoverebbe per dare un reggente a Ottaviano. Quel Feo non ha nessuna voce in capitolo comunque.”
 “Ne siamo sicuri?” il tono di Calco non ammetteva repliche: “Per quello che ne sappiamo, vostra nipote potrebbe aver davvero sposato in segreto quell'uomo e a questo punto i giochi sarebbero fatti. A Feo basterebbe affilare un coltello e colpire e tutto diventerebbe suo.”
 Ludovico restava in silenzio, attonito di fronte a quella possibilità. Se davvero sua nipote fosse stata messa da parte in modo tanto barbaro da quell'uomo, allora Milano avrebbe perso qualsiasi appoggio in Romagna. In tal caso le pressioni che il Moro credeva di poter fare agli Aragonesi, in caso di necessità, diventavano pressoché un'utopia. A Milano serviva un alleato sicuro sulla via Emilia.
 “Per come la vedo io – fece Calco, con lentezza – prima o poi anche vostra nipote lo capirà e a quel punto o lei ucciderà lui o lui ucciderà lei.”
 “Che visione crudele che avete del mondo...” si lasciò scappare Ludovico, stringendo gli occhi in un'espressione quasi disgustata.
 “Non sono io a tenere in ostaggio un bambino di pochi mesi in attesa di un mio erede da imporre al Ducato.” gli ricordò il cancelliere, senza cattiveria.

 I fratelli Tartagni, Marcantonio e Teseo, stavano aspettando l'arrivo dei fratelli Domenico ed Enea Vaini.
 Imola, in quella sera d'estate, era tranquilla e arieggiata. Malgrado le giornate fossero infuocate dal sole irriverente di quell'agosto, quando arrivava in cielo la luna, le temperature scendevano abbastanza in fretta, permettendo agli imolesi di respirare.
 Domenico ed Enea Vaini arrivarono con un certo ritardo, portandosi appresso anche Ferraguto d'Oriolo, appena arrivato da Tossignano.
 Marcantonio li fece accomodare nel salotto buono della loro piccola casetta signorile e li pregò di prendere un calice di vino o qualche cosa da mangiare.
 “Che dicono i nostri amici?” chiese a un certo punto Teseo Tartagni, seduto a gambe larghe, le mani giunte e gli occhi accesi che rilucevano alle luce delle candele.
 Enea Vaini si massaggiò la nuca e rispose: “Dicono che la cosa si fa. Aspettiamo per fine mese la visita, ma il giorno preciso ci verrà detto più avanti.”
 per qualche minuto tutti restarono muti e un silenzio pesante ricadde sulla casa dei fratelli Tartagni, figli del nobile Nicoletto, da sempre uno dei cittadini più influenti di Imola.
 “Le regole sono sempre le stesse?” chiese Teseo, per togliersi di dosso la strana sensazione che il silenzio gli aveva trasmesso.
 “No.” disse in fretta Domenico, che era rimasto zitto fino a quel punto.
 L'uomo si alzò, con gli occhi dei Tartagni e di Ferraguto puntati addosso e alla fine si decise a dire: “Li dobbiamo prendere tutti e due.  Convinceremo lei a lasciarci la rocca e poi li uccideremo entrambi.”
 Ferraguto scattò in piedi e, alzando le mani, si oppose: “No, no, non se ne parla. Finché c'è da far secco quel pavone, ci sto, ma la Contessa no.”
 “Che storia è questa, Domenico?!” chiese Marcantonio, avvicinandosi al Vaini.
 “Sono d'accordo tutti. Non solo il nostro amico di Roma. Chi ben sapete ci ha confermato che la Contessa non permetterebbe mai al figlio di diventare il nuovo signore di Imola. Meglio che tutto torni come prima dell'arrivo dei Riario a Forlì e così anche Imola avrà finalmente un signore giusto e capace.” spiegò Domenico.
 “Porco mondo, io un motivo per ammazzare lo stalliere ce l'ho.” fece Ferraguto, che, tra tutti, era quello che si era scomposto di più: “Quello mi ha liquidato senza motivo non appena ne ha avuto il potere, tanto per vedere che effetto faceva cacciare qualcuno da Ravaldino, ma io alla Contessa non ci voglio fare nulla!”
 “E allora di lei si occuperà qualcun altro.” lo zittì Teseo, che cominciava a capire quanto Domenico Vaini avesse ragione.
 “Se la Contessa non morirà, non potremo certo restaurare chi ha diritto di governare e a quel punto che senso avrebbe avuto uccidere Feo?” chiese Enea, nel tentativo di far ragionare Ferraguto d'Orioli.
 “Appurato questo – fece sbrigativamente Marcantonio Tartagni: “Domenico da Bologna, il castellano di Tossignano, è sempre dalla nostra?”
 Domenico Vaini annuì con gravità: “E con lui anche il falegname e Pesarino.”
 “Pure Tadeo ha detto che è sempre dei nostri.” confermò Teseo, guardando il fratello Marcantonio con ottimismo.
 “Quindi è tutto deciso. Aspettiamo che ci venga detta la data precisa.” concluse Marcantonio, incrociando la braccia sul petto.
 “Ma non sarebbe come tradire il Conte?” fece allora Ferraguto, sentendosi messo all'angolo, ben conscio del fatto che, se si fosse tirato indietro, non l'avrebbero lasciato vivere abbastanza da andare a far la spia con la Contessa: “Lui ha avuto l'idea e ora noi vogliamo uccidere sua madre e deporlo in favore di...”
 “Taci!” lo rimbrottò Marcantonio: “Noi operiamo per il bene di Imola e Forlì. A maggior gloria di Dio. Non siamo al servizio di nessuno, se non dei nostri concittadini.”

 “Il mantenuto della Sforza sta diventando insopportabile!” esclamò uno dei clienti di Andrea Bernardi, sbuffando rumorosamente.
 “Bada bene!” lo rimproverò il Novacula, indicando il cartello che aveva appeso al muro già da qualche tempo.
 Senza un apparente motivo logico, nelle ultime settimane la barberia di Bernardi era tornata di moda e in molti vi andavano per far due chiacchiere e per farsi sbarbare. Il Novacula ne era entusiasta, perché mai avrebbe sperato in una simile ripresa dei suoi affari, tuttavia quasi tutti gli avventori non facevano altro che parlare della Contessa e, ancora di più, del suo presunto amante, il Governatore Generale Giacomo Feo, detto anche 'il mantenuto della Sforza'.
 Il cliente guardò pigramente il cartellone e, pur leggendolo a fatica, ebbe lo spirito di sindacare: “Ve', Novacula, lì avete scritto che in questa bottega è vietato parlar male della Contessa, mica del suo amante!”
 Andrea Bernardi ci mise un po' per calmarsi e dovette trattenersi dal cacciare fuori l'insolente forlivese, perché se avesse principiato a prendere a male parole tutti i clienti, alla fine sarebbe davvero andato in fallimento.
 “Per non mancare di rispetto alla Contessa – spiegò il Novacula, cercando di tenere calma la voce – si intende anche di non mancare di rispetto ai suoi collaboratori.”
 “Collaboratori?” esclamò un altro cliente, che aspettava con pazienza in fondo alla fila: “Adesso li chiamano così i mantenuti?!”
 E tutti scoppiarono a ridere come fossero nella peggiore delle osterie.
 Bernardi sentiva lo stomaco bruciare dalla rabbia, ma che poteva fare o dire per evitare che i forlivesi la pensassero così? Lui stesso condivideva parte delle loro recriminazioni, pur non ammettendolo mai esplicitamente.
 Giacomo Feo, soprattutto da quando aveva preso a uscire dalla rocca, in veste di Governatore Generale, era sempre più inviso alla popolazione e non solo per la sua carriera straordinariamente fulminea, ma per il suo modo di atteggiarsi.
 “Un morto di fame – dicevano certi – che dopo il primo pasto da re ha già dimenticato che significa non avere il pane da metter sotto ai denti!”
 L'arroganza con cui si rivolgeva al popolino, l'incedere tronfio che ostentava per le vie della città, la prepotenza che aveva saputo dimostrare in più di un'occasione, liberandosi di alcuni soldati – ora suoi sottoposti – tanto per dimostrare la sua forza... Tutti quei difetti che erano stati propri anche del Conte Girolamo, ora rivivevano in quel pezzente vestito di seta e ai forlivesi quel tuffo nel passato proprio non andava giù.
 Il Novacula credeva impossibile che una donna come la Contessa, che lui aveva apprezzato e ammirato per la sua forza d'animo e il suo coraggio, si stesse lasciando soggiogare a tal punto da non vedere quello che le stava accadendo davanti al naso.
 Mettendo in riga un altro cliente, che aveva detto una mezza frase di troppo sulle libertà che la Contessa si prendeva con i suoi 'collaboratori', il Novacula si sforzò di pensare solo al suo lavoro e, fino a sera, sbarbò in fretta e con perizia tutti i chiacchieroni che si presentarono a bottega.

   
 
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