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Autore: Adeia Di Elferas    23/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 La partenza per Imola era fissata per il giorno seguente. Caterina aveva predisposto affinché lei e Giacomo partissero al mattino presto, accompagnati da un ristrettissimo drappello di guardie.
 Si sarebbero fermati prima a Imola, per far visita alla madre della Contessa e al castellano Gian Piero Landriani e dopo sarebbero partiti per Tossignano, tanto per farsi vedere anche dal castellano Domenico da Bologna, che da troppo tempo chiedeva a Caterina un incontro.
 Quando il viaggio era stato annunciato, Ottaviano aveva reagito in modo fin troppo misurato, augurando alla madre e perfino al Governatore Generale, un buon viaggio. Lo stesso fece Cesare.
 Bianca aveva cercato di intenerire la madre e convincerla a prenderla con sé, ma Caterina aveva subito negato, promettendole che avrebbe potuto vedere sua nonna Lucrezia molto presto.
 I figli più piccoli, non comprendendo bene cosa significasse avere la madre lontana per lungo tempo, si limitarono ad accodarsi alle lamentele di Bianca, credendo che fosse il modo migliore di prendere la notizia.
 Giacomo si era sorbito quelle scenette senza aprire bocca, ma in realtà era ben contento di potersi allontanare da Forlì per un po', solo con sua moglie, lontano dai figli di lei che altro non facevano se non guardarlo storto e rispondergli con parole sgarbate e secche.
 “La mia cameriera terrà d'occhio il piccolo Bernardino.” aveva assicurato Caterina, quando il marito le aveva chiesto se si fidava a lasciare il loro unico figlio da solo a Ravaldino: “So che lo difenderebbe da chiunque e da qualunque cosa anche a costo della vita.”
 La situazione sembrava del tutto sotto controllo, e l'unico momento di tensione ci fu proprio la sera prima della partenza.
 Ottaviano si sentiva agitatissimo e non riusciva a far rallentare il cuore che gli martellava nel petto come un tamburo da guerra. Aveva fatto partire quello stesso pomeriggio l'ultimo di una lunga serie di messaggi e sapeva che ormai era tardi per rimangiarsi l'ordine impartito.
 Sentiva che quella sera era l'ultima in cui avrebbe potuto permettersi uno scontro aperto con sua madre, l'ultima volta in cui avrebbe avuto il coraggio di prendersela apertamente con il suo maledetto amante.
 Attese con pazienza nei pressi della camera di sua madre e si sentì fortunato, quando vide che il primo a entrare nella stanza fu proprio Giacomo Feo. In quel modo, sua madre non avrebbe potuto negare nulla.
 Quando finalmente Caterina si palesò in fondo al corridoio e i suoi passi risuonarono sul pavimento in pietra, Ottaviano deglutì e si preparò alla sorta di imboscata che aveva in mente.
 Il Conte osservò con attenzione il profilo della madre, illuminato dalle torce, e quando fu abbastanza vicina, uscì dal cono d'ombra in cui aveva trovato un nascondiglio e le disse, con una certa arroganza: “Trovo quanto meno indecoroso che voi e quell'uomo non abbiate camere separate.”
 Caterina si accigliò, sorpresa tanto di vedere lì il suo primogenito, quanto di sentirlo parlare così liberamente.
 Senza doverci pensare, la Contessa optò subito per una linea di contrattacco lineare. Suo figlio era sveglio, dunque sarebbe stato inutile mettersi a negare cose ovvie. Doveva solo uscirne al meglio, facendogli capire che un ragazzino di undici anni non aveva il diritto di dettar legge nella sua vita.
 “Le abbiamo, camere separate.” fece notare Caterina, senza scomporsi.
 Ottaviano restò interdetto dalla calma ostentata dalla madre. Si era aspettato da lei una risposta furiosa o almeno uno scatto di rabbia, qualcosa che gli desse un minimo di soddisfazione. E invece...
 “Sì, ma non le usate!” ribattè Ottaviano, i pugni da bambino che si stringevano lungo i fianchi e la voce che si faceva acuta per la rabbia: “Da quando abitiamo qui, condividete ogni notte la stessa stanza, come due plebei qualsiasi!”
 “Hai finito?” chiese Caterina, indisponendosi un po' di più.
 “Voi e mio padre non condividevate mai la stanza...” fece Ottaviano, con tono d'accusa, ma con minor sicurezza.
 “Hai cinque fratelli. Di fronte a una simile evidenza, la tua affermazione non ti sembra quanto meno discutibile?” chiese la Contessa, puntando gli occhi in quelli del figlio.
 Ottaviano cercava di mantenere la lucidità, ma quell'espressione impassibile e fredda della madre lo feriva, impedendogli di controllarsi, mentre rispondeva: “So bene come siamo nati, io e i miei fratelli.”
 Fu la volta di Caterina di sentirsi in difficoltà. Forse duo figlio stava parlando così solo per ripicca, senza capire davvero il senso di quelle parole. Aveva undici anni, non poteva veramente comprendere a fondo una cosa del genere...
 “No, non credo proprio che tu lo sappia – disse la Contessa, facendo un paio di passi verso la porta della sua stanza – e se lo sai, allora non dovresti nemmeno chiederle, certe cose.”
 Ottaviano restò con la bocca mezza aperta, e solo quando sua madre fece per aprire l'uscio, trovò l'ardire di ribadire: “Non avete un briciolo di contegno! Con mio padre...”
 Caterina lo freddò sul colpo, chiudendo il discorso con un laconico: “Tuo padre non l'ho mai amato. E ora vattene a dormire.”
 Ottaviano la guardò mentre spariva nella camera in cui, lo sapeva, già l'aspettava Giacomo Feo.
 Piangendo di rabbia come il bambino che era, Ottaviano corse via, alla ricerca di un punto tranquillo della rocca in cui stare solo a pensare.
 Caterina, dal canto suo, non volle parlare con Giacomo di quello che era appena successo, malgrado il marito le avesse chiesto con insistenza se ci fosse qualcosa che non andava.
 Aveva sbagliato, con Ottaviano, e non solo quella sera, ma sempre. Mentre si fronteggiavano alla luce delle torce nel corridoio, Caterina si era rivista davanti agli occhi il profilo di Girolamo, il suo modo di porsi quando voleva litigare, la sua fame d'amore placata con l'odio...
 “Tutto bene?” chiese Giacomo, preoccupato nel vedere come sua moglie non accennava a riprendersi dallo scontro appena sostenuto.
 Caterina alla fine scosse piano il capo e disse: “Non vedo l'ora di allontanarmi da qui per un po'.”
 
 Ferraguto ascoltava i due Tartagni che ripassavano ad alta voce il piano e guardava di sottecchi anche i fratelli Vaini, che seguivano attentamente ogni punto.
 Avevano ricevuto la lettera che aspettavano, con cui veniva loro confermato non solo l'arrivo della Contessa e del Governatore Generale, ma anche la data esatta.
 Il momento più delicato si stava avvicinando e tutti quanti sentivano ormai sulle loro spalle il peso di quella prova.
 “Appena sapremo con esattezza per quanti giorni si fermeranno a Imola – disse Marcantonio Tartagni – predisporremo ogni cosa alla rocca di Tossignano.”
 “Che Dio ci assista.” sussurrò Ferraguto, non riuscendo a trattenersi.
 “Sicuro di non voler esserci anche tu alla rocca?” chiese Enea Vaini, voltandosi proprio verso Ferraguto.
 Questi assicurò: “No, preferisco fare da palo sulla strada, come deciso.”
 “E sia.” concluse Marcantonio: “Noi – e indicò se stesso, il fratello e i Vaini – Pesarino e il falegname aspetteremo la Contessa e il suo amante alla rocca di Tossignano con Domenico da Bologna e tu, D'Oriolo, controllerai la strada che porta a Imola, pronto ad avvisarci in caso ci siano novità rilevanti.”
 Ferraguto chinò il capo in segno di assenso e tutti quanti si alzarono in piedi per dichiarare ufficialmente sciolta quell'ultima riunione.

 Caterina e Giacomo arrivarono alla rocca di Imola senza problemi, accompagnati da una fresca acquerugiola che permise loro un viaggio agevole e non troppo afoso.
 Lucrezia accolse la figlia con gioia e si finse abbastanza cordiale anche con il Governatore Generale, lasciandolo, però, a Gian Piero.
 La donna chiese come stessero i suoi nipotini e Caterina si affrettò ad assicurare che stavano bene 'tutti quanti', ben sapendo che Lucrezia avrebbe capito che in quel 'tutti quanti' era compreso anche Bernardino.
 “Vi ho fatto preparare due camere.” disse Lucrezia alla figlia, portandola nel salotto che aveva ricavato da una delle vecchie stanze delle guardie: “Sono vicine.”
 Caterina ringraziò e chiese subito come stessero andando le cose a Imola e come si trovasse Gian Piero nel suo ruolo di castellano.
 Lucrezia la rassicurò, dicendole che Gian Piero, a cui finalmente era stata riconosciuta un minimo di autorità, dopo una vita passata a prendere la polvere alla corte di Milano, era ringiovanito, da quando erano lì.
 “La sua unica vera preoccupazione – spiegò, facendosi un po' più seria – riguarda nostra figlia Bianca.”
 La Contessa non disse nulla, aspettando che fosse sua madre a dire qualcosa di più. Così Lucrezia le fece segno di sedersi pure dove preferiva, mentre prendeva posto sul suo divanetto preferito.
 Quel salottino era arredato con un gusto molto particolare e Caterina trovava sorprendente come sua madre fosse riuscita a rendere tanto accogliente una stanza tanto angusta come quella.
 “Ci scrive regolarmente – spiegò Lucrezia – e dice che a Savona si sta bene, però ci manca molto e sembra che suo marito Tommaso non sia intenzionato a tornare da queste parti...”
 Caterina strinse il morso e commentò: “Non so che dire.”
 Lucrezia restò un po' delusa dalla risposta secca della figlia, dalla quale si sarebbe aspettata, invece, un'immediata proposta di aiuto, così lasciò perdere e le chiese come andasse la vita alla rocca di Ravaldino.

 I giorni si erano rincorsi lenti e pigri, a Imola e Caterina, che aveva goduto del clima tranquillo e familiare regolato dalla routine di Gian Piero e Lucrezia, era riluttante a ripartire.
 Spesso al mattino presto usciva assieme a Giacomo nei boschetti vicini per cacciare assieme a lui e rientrava alla rocca intorno al mezzogiorno, per poi restarvi fino a sera, intrattenendosi con la madre e il di lei marito, parlando un po' di affari di Stato e un po' di affari privati.
 Giacomo amava soprattutto le mattine che passavano all'aperto, completamente soli, spersi nel verde, a dare la caccia ora a qualche beccaccia, ora a qualche preda decisamente più impegnativa. Gli piaceva vedere sua moglie in quello che, secondo lui, era il suo ambiente naturale. Se Giacomo aveva abbandonato ogni tentativo di dimostrarsi un cacciatore provetto già dopo la prima uscita, Caterina non mancava occasione di riempire i gancetti della sella del cavallo con selvaggina di ogni tipo.
 La Contessa stava apprezzando quella parentesi di vita come non mai e si sentì molto tentata, quando una mattina Giacomo le disse, mentre riposavano sotto a un albero: “Dovresti mollare tutto, lasciare le tue città e il tuo titolo e vivere con me in campagna. Vivremmo di quello che ci danno i campi e degli animali che cacceresti e saremmo felici.”
 Con uno sguardo un po' triste, Caterina aveva ribattuto: “Non posso.”
 “Perché?” aveva domandato Giacomo che, anche a costo di rinunciare al suo avanzamento sociale, avrebbe volentieri intrapreso subito quella nuova avventura con la donna che amava.
 “Perché se lasciassi tutto, non arriverei a sera viva.” aveva constatato Caterina: “Ho pestato troppi piedi, se non avessi più nemmeno quel poco potere che ho, non ci penserebbero un attimo a uccidere me, te, i miei figli e anche Bernardino.”
 E tanto era bastato a mettere a tacere Giacomo.
 Dunque, Caterina si stava godendo la sua vacanza, tuttavia aveva preso un impegno molto preciso con il castellano di Tossignano, Domenico da Bologna e dunque intendeva onorare la sua promessa senza protestare.
 “Minaccia di piovere, però...” disse Giacomo, quando Caterina propose di andare il giorno seguente a Tossignano a cavallo, lasciando la scorta a Imola: “Meglio prendere il calesse, non credi?”
 La Contessa, che in fondo non avrebbe disdegnato una bella cavalcata sotto la pioggia di fine estate, cedette senza nemmeno combattere e mandò un servo ad avvisare il cocchiere di tenersi pronto per la mattina seguente.

 Ferraguto d'Oriolo era stato indeciso per tutto il giorno e alla fine non ce l'aveva fatta. Preso il cavallo che avrebbe dovuto usare solo ed esclusivamente per correre a Tossignano per avvisare i Vaini e i Tartagni in caso di imprevisti, si diresse a spron battuto verso Forlì.
 La logica gli aveva suggerito di andare alla rocca di Imola, chiedere perdono alla Contessa e confessarle ogni cosa, ma temeva troppo il Governatore Generale Feo, il quale, per certo, avrebbe subito preteso la condanna a morte tanto per lui, quanto per tutti gli altri.
 Poteva solo scappare a Forlì, lavarsi la coscienza dicendo tutto a qualcuno che fosse vicino alla Contessa, e poi darsela a gambe e non farsi vedere mai più.
 Quando entrò in città, il sole era quasi calato e non ebbe subito la forza di recarsi alla rocca di Ravaldino. Preferì fare un giro delle osterie, dove bevve smodatamente, quasi fino a perdere conoscenza. Quando ormai era notte, sentì la morsa del senso di colpa stringergli il cuore e così, dopo aver vomitato anche l'anima ed essersi gettato dell'acqua gelida in viso, andò senza pensarci fino alla bottega di Andrea Bernardi.
 Il Novacula, che era ancora sveglio, chino sui suoi appunti delle cronache cittadine, fece un salto sullo sgabello, nel sentir bussare con tanta veemenza alla sua porta.
 Brandendo uno dei ferri del camino a mo' di arma di difesa, raggiunse la sorgente del fracasso e chiese, guardingo: “Alto là! Chi è là?”
 “Sono Ferraguto d'Oriolo!” rispose una voce un po' impastata: “Ho notizie gravissime che riguardano la signora della città!”
 Andrea, incurante della propria incolumità, aprì subito allo sconosciuto e questi entrò nella bottega del barbiere barcollando un po'.
 Prese il Novacula per le spalle e, con alito vinoso, lo guardò fisso negli occhi e gli disse: “Domani mattina, quando arriverà a Tossignano, la Contessa verrà uccisa assieme al suo amante.”
 Il Novacula trasecolò. Sapeva che la sua signora era a Imola e che sarebbe andata anche a Tossignano, dunque poteva esserci qualcosa di vero. Però stava parlando con un ubriaco...
 “Ma che dite?” provò a indagare: “Che state blaterando?”
 Ferraguto fece un paio di respiri profondi e ribadì: “Domani l'ammazzano, come il suo amante. Io non volevo uccidere anche lei e per questo sono scappato...”
 “Loro chi?” chiese Andrea, indeciso se credere o meno a quello sconosciuto.
 “I fratelli Vaini e i fratelli Tartagni e il castellano Domenico...” la voce di Ferraguto si era fatta ancora più confusa, ma il barbiere riconobbe dei nomi che conosceva e in un lampo fu certo che fosse tutto vero.
 “Quando colpiranno?” chiese, cominciando già a infilarsi gli stivali.
 “Domani mattina, appena quei due arriveranno a Tossignano...” biascicò Ferraguto: “Li vogliono catturare e poi uccidere lentamente, per vendicarsi...”
 Il Novacula trascinò Ferraguto fuori dalla barberia e, con una pacca sulla spalla, gli disse: “Se quel che dite è vero e voi siete pentito, la Contessa vi perdonerà.” e lasciò l'uomo, che si mise a camminare ondeggiando per strada.
 Bernardi cercò uno dei suoi clienti che aveva un paio di purosangue particolarmente veloci. Con le sue urla lo buttò giù dal letto e lo coprì di parole per farsi dare in fretta una delle due bestie.
 “Io non li presto, i miei cavalli.” disse cocciuto l'uomo.
 “E allora vendimelo. Quando torno – 'se torno' aggiunse mentalmente il Novacula – te lo pago quanto vuoi.”
 Al che l'uomo diede il suo cavallo migliore a Bernardi, che partì immediatamente, pancia a terra, alla volta di Imola.
 Sapeva che non sarebbe arrivato in tempo, perché era già notte inoltrata e lui non solo non conosceva la strada se non per sentito dire, ma non era nemmeno un gran cavallerizzo.
 Doveva però fare un tentativo, altrimenti non si sarebbe mai perdonato una colpa del genere. Se Dio l'avesse assistito, sarebbe incorso un qualche contrattempo, un imprevisto e la Contessa avrebbe ritardato la partenza per Tossignano di quel poco che sarebbe bastato al Novacula per arrivare in tempo per avvisarla...

 “Oh, avanti...” fece il cocchiere della Contessa, allungando un'altra moneta all'oste: “Versate, versate!”
 “Tutti uguali, voi signorini...” fece un ragazzo che stava al tavolo accanto a quello del cocchiere: “Avete due denari e li spendete tutti in vino!”
 “Parla per te, pezzente!” ricambiò il cocchiere, cominciando a tracannare il calice colmo quasi fino all'orlo.
 In realtà era un vino pessimo, dal gusto orribile, ma con tutto quello che aveva bevuto, a quell'ora il cocchiere della Contessa non si sarebbe accorto nemmeno se al posto del vino ci fosse stata acqua di stagno.
 “Prendete uno stipendio e subito perdete la testa!” continuò il ragazzo, che era in evidente ricerca di una rissa.
 “Almeno uno stipendio decente io lo prendo. Tu che diamine fai nella vita?” rimbeccò il cocchiere, che stava già per finire anche quel bicchiere.
 “Faccio il garzone di stalla e ne vado fiero!” controbatté il giovane, scattando in piedi.
 “Ne conosco di garzoni stalla, uno in particolare – bofonchiò il cocchiere, con una mezza risata soffocata dal vino – e se siete tutti come lui, sei solo un tronfio buono a nulla che non sa nemmeno...”
 Non fece in tempo a finire la frase, che il garzone gli si avventò contro e, nella nebulosa confusione dell'osteria, scoppiò una rissa molto cruenta e concitata.
 Prima dell'alba, il corpo senza vita del cocchiere della Contessa Sforza Riario giaceva in strada alla mercé della prima pioggia di quel 2 settembre.

   
 
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