Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    25/06/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~ Il cielo grigio di inizio settembre incombeva sulla rocca di Imola, mentre la Contessa Sforza Riario cercava ovunque il cocchiere che avrebbe dovuto accompagnare lei e suo marito a Tossignano.
 Qualcuno tra gli stallieri le aveva detto che l'uomo era uscito la sera prima, diretto probabilmente in qualche osteria, e da allora nessuno lo aveva più visto.
 Giacomo Feo, un po' scocciato da quel contrattempo, aveva proposto di trovare un altro cocchiere, ma Caterina non era tranquilla. Aveva imparato a non sottovalutare i casi e le coincidenze e quindi era ben decisa ad andare a fondo della questione, prima di prendere qualunque decisione.
 Non dovette in realtà cercare molto, perché dopo poco arrivò alla rocca un imolese, che, stringendosi le mani al petto, andava a riferire che il cocchiere della Contessa era stato trovato morto fuori da un'osteria, dove la sera prima era scoppiata una rissa come non se ne vedevano da anni. C'erano anche dei testimoni che lo avevano visto fare a pugni con un giovane garzone di stalle e che avevano avuto il sospetto che le percosse lo avrebbero condotto a una brutta fine.
 “E quello che l'ha ucciso come sta?” chiese Caterina, assumendo un'espressione grave, mentre l'imolese si affrettava a rispondere con servilismo: “Male, mia signora... Potrebbe non arrivare vivo a sera.”
 “Lo spero per lui. Altrimenti conoscerà le celle della rocca di Imola.” ribatté la Contessa.
 Giacomo, che stava accanto a lei, la guardò un po' stranito, quasi sorpreso da tanta fermezza e non poté opporsi quando sua moglie annunciò: “Daremo sepoltura al nostro servo, prima di partire per Tossignano.”
 
 Andrea Bernardi era senza forze e aveva lo stomaco chiuso, la testa che girava e un vago senso di nausea. Non era un uomo d'azione, lo aveva sempre saputo.
 Quando il suo cavallo, stremato, lo portò fin davanti alla rocca di Imola, sotto alla cappa grigia di quella metà mattina, il Novacula fu certo di aver fallito nel suo intento. Era tanto abbattuto che quasi non aveva nemmeno voglia di provare a chiedere alle guardie se la Contessa fosse ancora lì.
 Ci aveva provato, ma si era anche perso un paio di volte, passando per i boschi, e così aveva sprecato il poco tempo che aveva a disposizione.
 Quasi alle lacrime, il barbiere smontò comunque di sella, atterrando con gambe malferme e con una sensazione strana, come di mal di mare, che lo rendeva insicuro nell'incedere.
 Credette a un'allucinazione dovuta alla fatica, quando vide uscire dal portone principale della rocca una donna che conosceva molto bene.
 Caterina strinse gli occhi per guardare meglio, quando intravide l'uomo appena sceso dalla sua cavalcatura. Le pareva del tutto illogico che Andrea Bernardi, il pacifico barbiere di Forlì, fosse lì davanti a lei, sudato fradicio e con lo sguardo sconvolto.
 “Mia signora...!” esclamò il Novacula, ritrovando la baldanza e correndole incontro.
 Giacomo, un paio di metri più indietro, guardò il forlivese con un certo distacco e chiese: “Che volete?”
 Caterina non si prese il disturbo di riprendere il marito per il tono insolente che aveva usato e si mosse rapida verso il barbiere per andargli incontro, risparmiandogli qualche metro di corsa.
 “Mia signora... Temevo di non fare in tempo!” esclamò Andrea, tanto felice da sentirsi svenire.
 
 “Ne siete davvero sicuro?” chiese Caterina, fissando con insistenza il Novacula, che aveva accettato di entrare nella rocca per bere e mangiare qualcosa e, soprattutto, sedersi un momento per riprendere fiato.
 “Sì, mia signora.” confermò una volta di più il barbiere.
 La Contessa si abbandonò con un sospiro contro lo schienale della poltroncina e puntò gli occhi verso la finestra, pensierosa, ma apparentemente molto calma.
 Per Giacomo, la moglie era decisamente troppo calma. Come poteva starsene lì a sospirare e guardare il vetro senza dire o fare altro?!
 “Che intendete fare, mia signora?” chiese Bernardi, dando voce anche alle domande inespresse di Giacomo, che stava zitto solo perché la rivelazione del barbiere gli aveva prosciugato la gola e reso difficile parlare.
 “Li farò arrestare tutti. Dobbiamo far loro confessare ogni cosa. Dovranno dirci chi è il vero mandante.” rispose Caterina, giungendo le mani e portandosele davanti alla bocca, sempre immersa nei suoi ragionamenti.
 “Come, chi è il vero mandante?!” esclamò Giacomo, ritrovando finalmente la favella.
 Il Novacula si sorprese nel sentirlo parlare con tanto ardire, mentre Caterina parve non sentire, mentre suo marito proseguiva, a voce sempre più alta: “Che domanda è?! Lo sappiamo tutti chi è stato! Lui mi odia! Mi odia, dico! Mi gioco la testa che è stato Ott..”
 Caterina, a quell'ultima frase, alzò una mano per bloccarlo: “Giacomo.” e indicò il Novacula, con un impercettibile cenno del capo.
 Improvvisamente Bernardi si sentì di troppo. Era un servo fedele, aveva fatto il suo dovere, ma con quel gesto la sua signora gli faceva capire che non tutti i discorsi andavano bene per le sue orecchie.
 “Con permesso, mia signora.” fece il Novacula, sperando di potersi levare d'impiccio conservando una certa eleganza: “Vorrei riposare un po', prima di ripartire.”
 Caterina annuì e si alzò: “Vi porto subito in una stanza dove potrete riprendere le forze.” e lo accompagnò in un'ala tranquilla del palazzo, dove Lucrezia, su ordine della figlia, aveva fatto subito preparare un letto per dare conforto a Bernardi.
 “Vi sono eternamente grata, anche questa volta.” sussurrò Caterina, quando venne il momento di lasciarlo solo con il suo meritato riposo.
 Il Novacula la ringraziò e si permise di aggiungere: “Messer Feo mi è parso molto scosso...”
 Caterina fece un rapido sorriso: “Non badate a Giacomo. Lui non ha ancora capito nulla di come vanno queste cose. È solo spaventato.”
 “Lo saremmo tutti.” concordò il Novacula e si ritirò nella stanza degli ospiti improvvisata.

 “Andate subito a cercare i fratelli Vaini e i fratelli Tartagni. Dite loro che desidero vederli per insignirli di un riconoscimento speciale. Dite loro che mi sono resa conto del grande servigio che stanno facendo a Imola e che quindi, prima di tornare a Forlì, ho deciso di incontrarli.” ordinò Caterina alle guardie che aveva scelto per quel compito: “Non fate loro intendere in alcun modo il vero motivo della convocazione. Trattateli coi guanti, siate gentili e servili con loro, come se davvero fossero uomini da stimare.”
 I soldati annuirono e partirono immediatamente per cercare quei quattro ribelli che erano stato indicati con precisione da Andrea Bernardi.
 Caterina, nell'attesa, andò a cercare Giacomo, che si era chiuso in una delle due stanze che erano state apparecchiate per il loro soggiorno a Imola.
 Appena entrò e trovò Giacomo seduto sul letto con la testa tra le mani, il suo primo istinto fu quello di riscuoterlo, come avrebbe fatto un tempo con Girolamo. Si trattenne all'ultimo minuto e, invece di sollevarlo di peso e gridargli contro qualcosa, gli si sedette accanto e fece un paio di respiri profondi.
 “Dovevi mandare dei soldati ad ammazzarli subito. Perché li vuoi qui?” chiese Giacomo, guardandola appena, riferendosi alla decisione della moglie di chiamare alla rocca i quattro congiurati.
 “Perché prima devo vederci chiaro.” spiegò Caterina, a voce bassa: “Devo interrogarli. Non posso farli uccidere così, senza nemmeno sapere cosa c'è di vero in tutta questa storia.”
 Giacomo alzò gli occhi su di lei. La sua fronte era sudata e i suoi lineamenti tirati in un'espressione di tensione e paura. Sembrava incredulo davanti a quella costatazione.
 “E in futuro – fece Caterina, senza dargli la possibilità di dire altro – ti proibisco di avanzare ipotesi pericolose come quella che hai espresso poco fa, davanti ad altri.”
 “Io sono convinto che ci sia davvero Ottaviano, dietro questa storia. Lui mi odia.” disse Giacomo, senza ombra di tentennamento.
 La Contessa ci pensò un minuto, ma la sola idea la nauseava, perciò concluse: “Non dire sciocchezze. Ottaviano sarà capace di dire cose molto sgradevoli, ma non è in grado di organizzare una congiura. È troppo giovane.”
 Giacomo si alzò in piedi, più infastidito dal tono pacato della moglie che non dalle sue parole: “Ma come fai a startene così calma?! Ma ti rendi conto che volevano ucciderci?! Ti rendi conto che a quest'ora potevamo essere morti?!”
 La Contessa, la cui tranquillità era solo una facciata, gli si parò davanti e diede fiato ai polmoni: “Sveglia, Giacomo! Questo è il mondo in cui sono nata!” siccome il ragazzo voltava il viso da una parte e dall'altra, come se non volesse ascoltare, Caterina lo prese per le braccia, in modo da tenerlo fermo e proseguì: “Nel mio mondo, mio padre è stato ucciso come una bestia sul portale di una chiesa davanti ai miei occhi. Il mio primo marito è stato massacrato nel cuore della sua casa e gettato da una finestra per essere fatto a pezzi dalla folla. Il mio bargello cittadino è stato squartato e bruciato vivo di fronte al mio palazzo. I miei figli sono stati minacciati di morte e chiusi in carcere per giorni, senza cibo e senza acqua. Il mio Governatore è stato ucciso con un colpo di forcone senza motivo solo perché era nel posto sbagliato al momento sbagliato....”
 L'elenco, per altro non del tutto completo, aveva lasciato Caterina ansante e Giacomo atterrito.
 “Questo è il mondo in cui vivo.” riprese la donna, abbassando sensibilmente il volume: “Sapevi che era così. Hai voluto entrarci tu. Hai deciso tu. Ora ci sei: impara a viverci.”
 “Io non ho deciso niente...” bisbigliò Giacomo, scuotendo leggermente la testa, gli occhi puntati in quelli della moglie.
 “Sei stato tu il primo a parlare di matrimonio.” gli ricordò Caterina, lasciandogli le braccia e facendo un passo indietro.
 “Io volevo sposarti perché ti amavo! Mi sono innamorato e basta.” precisò Giacomo, cominciando a muoversi per la stanza come un animale in gabbia: “Io non ho deciso un bel niente!”
 “Perché, io sì?” domandò di rimando la donna, senza aspettarsi nessuna risposta.
 Giacomo cercava di placare la paura che gli corrodeva l'anima, facendolo parlare a sproposito, ma la consapevolezza di quello che sarebbe potuto accadere se quel tarchiato barbiere non fosse arrivato a fermarli, lo faceva impazzire.
 Non era pronto per morire. Aveva vent'anni, troppo pochi per farsi ammazzare senza un vero motivo da delle persone che nemmeno conosceva. Come si era cacciato in quella situazione?
 “Adesso interrogherò i congiurati.” disse piano Caterina: “Prenditi un po' di tempo per riflettere e tornare in te.” e così dicendo lasciò Giacomo da solo nella camera da letto, a rimuginare sulle sue paure e sui suoi errori.

 Marcantonio Tartagni credeva impossibile una simile coincidenza, mentre suo fratello Teseo aveva preso la cosa solo come una grande scocciatura e nulla di più. Tuttavia, quando, arrivati alla rocca di Imola, si erano trovati di fronte anche i fratelli Vaini, pure Teseo aveva dovuto ammettere che quella era una casualità molto strana.
 Appena furono dentro le mura della rocca, le guardie cambiarono radicalmente atteggiamento e prima di dar tempo ai quattro nobili imolesi di scappare o reagire in qualche modo, bloccarono loro le braccia e li spintonarono fin nelle segrete.
 Li chiusero in quattro celle diverse, in modo tale che non potessero comunicare tra loro e, dopo un po', cominciarono a portarne via uno per uno affinché la Contessa potesse condurre personalmente gli interrogatori.
 Marcantonio Tartagni fu il primo e da lui Caterina non cavò un ragno dal buco. Per tutto il tempo, mentre la donna snocciolava una domanda dopo l'altra, l'uomo non faceva altro che fissarla con sguardo corrucciato e tenere la bocca chiusa.
 Dopo di lui fu il turno di Teseo che, più spaventato del fratello, continuò a negare ogni cosa, dicendo che né lui né gli altri c'entravano nulla con il piano di Domenico da Bologna. Con quelle parole, Teseo tirava in gioco anche il castellano di Tossignano e a Caterina bastò un cenno ai soldati di guardia per far loro capire che bisognava occuparsi anche di lui.
 Domenico Vaini pianse per tutto l'interrogatorio, dicendo qualche parola impossibile da comprendere, e gridando di quando in quando: “Dio abbi pietà di me!”
 Caterina arrivò al quarto interrogatorio completamente disillusa. Se anche quell'ultimo congiurato avesse taciuto, sarebbe stato molto difficile capire chi aveva armato quelle mani. Forse Domenico da Bologna sarebbe stato più loquace, ma sarebbe stato meglio sentire anche la versione di uno dei quattro nobili imolesi.
 Enea Vaini venne gettato brutalmente sullo sgabello dalla guardia delle segrete e fin da subito apparve chiaro quanto quell'uomo fosse terrorizzato da tutta quella situazione.
 “Chi vi ha convinti a ordire questa congiura?” chiese Caterina, standogli davanti, spalleggiata da due soldati grossi come tronchi di quercia.
 Enea alzò gli occhi e schiuse le labbra, ma dalla sua gola arrivò solo un gemito strozzato: “Ci sono i ratti, nella mia cella...”
 “Non avrete paura di qualche topo...” fece Caterina, con tono di scherno, facendosi più vicina.
 Enea sembrava sull'orlo delle lacrime. La Contessa non aveva intenzione di sorbirsi un altro interrogatorio in cui l'interrogato non faceva altro che piangere, perciò provò ad addolcire un po' le sue parole, fingendosi molto accomodante.
 “So che l'idea non è partita da voi.” disse, abbozzando pure un sorriso: “Perciò vi sto chiedendo chi vi ha convinti a ribellarvi a me e perché.”
 Enea buttò indietro la testa, come se stesse lottando tra il suo senso morale e la paura.
 “Se parlerete avrete salva la vita. Altrimenti...” Caterina guardò in modo eloquente lo spadone che stava al fianco di una delle guardie.
 “Dovevamo uccidere solo lo stalliere!” sputacchiò Enea, non riuscendo più a resistere: “Eravamo tutti d'accordo, ma poi ci è stato detto che dovevamo ammazzare anche voi...!”
 “Perchè dovevate uccidere lo stalliere?” domandò Caterina, capendo che lo stalliere era Giacomo.
 “Perché voi non avreste mai lasciato il governo a vostro figlio, se lo stalliere era vivo... Uccidendo lui, noi avremmo potuto costringervi a cedere lo Stato al Conte Riario...”
 “Mio figlio...?” chiese la Contessa, indietreggiando di mezzo metro, la gola secca e le mani che tremavano.
 Giacomo aveva dunque ragione? Era stato un ragazzino di undici anni a convincere quei quattro nobili imolesi a puntare le loro spade contro di lei e contro Giacomo?
 Enea sentì il morso della colpa e così si impose di negare, per il bene di Imola. Se la Contessa avesse saputo, sarebbe stata ancora più ostile nei confronti del giovane Conte e a quel punto tutto sarebbe stato inutile. Invece di scongiurare l'ascesa dello stalliere, Enea avrebbe contribuito al suo trionfo.
 “No!” esclamò il prigioniero: “No! Sono stati i Tartagni a organizzare tutto! Non ci ha armati nessuno! Siamo stati noi!”
 Caterina non era del tutto convinta, ma si aggrappò a quell'affermazione come un naufrago a un pezzo di legno.
 Fece altre domande a Enea Vaini, ma l'uomo non sapeva dire altro, se non che lui e i suoi compari avevano in mente di prendere lei e Giacomo in ostaggio, uccidere lui, ricattare lei e infine ammazzarla, per far assurgere al potere Ottaviano e sperare in un governo migliore.
 A sera venne condotto nella rocca anche Domenico da Bologna e pure lui venne interrogato senza troppi risultati.
 Quando calò la notte, la Contessa fu certa che tutta quella questione fosse solo stata espressione dell'insofferenza di un pugno di nobilastri di Imola che, forse anche grazie al suo apparente disinteresse per quella città, avevano creduto di poter alzare la testa e prendere decisioni che non spettavano a loro.
 
 Ferraguto d'Oriolo, che stava andando volontariamente a consegnarsi alla signora di Imola e Forlì, mentre attraversava le terre di Faenza sentì qualcuno parlare di come la Contessa avesse catturato i fratelli Tartagni e i fratelli Vaini.
 “Li portano a Forlì per il processo – aveva detto un mercante – tutta facciata per poterli impiccare con la scusa della legge.”
 “Che poi – aveva insinuato un altro – sarà vero che la volevano far fuori? Non sarà che stavano diventando troppo potenti e lei ne ha avuto paura?”
 “E il Conte che dirà?” aveva domandato un terzo.
 Ferraguto si era infilato nella conversazione: “Ma siete sicuri che li impiccheranno?”
 “Uno dicono che ha anche confessato, ma la Tigre non ha pietà per nessuno.” aveva confermato il mercante: “Ricordate che ne aveva fatto dei Roffi?”
 Ferraguto aveva sgranato gli occhi, ricordando bene come i Roffi e tutti i congiurati a loro collegati erano stati decapitati e squartati in pubblica piazza. Lui era tra il pubblico, per puro caso, e non avrebbe potuto dimenticare gli occhi di ghiaccio della Contessa Sforza Riario, mentre fissava quegli uomini morire ai suoi piedi.
 Appena uscì dalle terre faentine, Ferraguto tagliò per i campi, allontanandosi il più possibile dalla strada diretta a Imola.

 Nei giorni che erano seguiti alla sventata congiura, Giacomo era in parte riuscito a placarsi, benché non fossero pochi i momenti in cui si chiudeva in un ottuso mutismo, immerso nei pensieri più cupi e oscuri che una mente umana possa elaborare.
 Caterina non faceva nulla per distrarlo, convinta che dovesse uscirne da solo. Prima avesse capito che quelle erano situazioni nelle quali si sarebbe potuto trovare anche altre volte, meglio sarebbe stato per entrambi.
 Nella vita di tutti, secondo la Contessa, c'era un punto di svolta, un momento in cui il male del mondo bussa alla porta e si manifesta in tutta la sua crudeltà, cancellando cià che resta dell'infanzia e mostrando la verità agli esseri umani. Per lei quel momento era arrivato a nove anni, quando aveva conosciuto Girolamo. Per Giacomo era stata la congiura di Tossignano a fare da spartiacque tra il prima e il dopo. Era la perdita dell'innocenza. Il momento ineluttabile in cui si capisce che si può morire, la consapevolezza della propria fragilità e della propria impotenza di fronte ai pericoli della vita. Ora anche Giacomo l'aveva persa. Anche i suoi occhi avevano un velo in più, una sfumatura più grigia, una profondità diversa.
 Caterina avrebbe voluto fare qualcosa per riparare a quel danno, ma ormai non c'era più nulla da fare. Giacomo, che l'aveva letteralmente stregata con la sua freschezza e la sua innocenza, stava entrando nel suo mondo e dunque, fatalmente, un po' alla volta, avrebbe perso entrambe quelle sue qualità.
 Lasciarono Imola assieme ai prigionieri e Caterina, dopo aver scelto un nuovo castellano per Tossignano, promise a sua madre che sarebbero tornati presto.
 Lungo la via del ritorno, Giacomo e Caterina avevano deciso di viaggiare al coperto, nella carrozza, per sfuggire ai rovesci che imperversavano a intervalli regolari.
 Nessuno dei due aveva voglia di parlare, l'uno concentrato a rivalutare la propria mortalità, l'altra con la mente già al processo che si sarebbe tenuto a Forlì. Sedevano vicini, dallo stesso lato, anche se sarebbero stati più comodi stando l'uno di fronte all'altra.
 Poco contavano i battibecchi che avevano avuto in quei giorni, durante i quali Caterina incolpava solo i Tartagni come mandanti, mentre Giacomo insisteva nel sospettare di Ottaviano. Quello che serviva a entrambi, in quel momento, era il calore dell'altro. Quel momento di difficoltà li trovava divisi, nelle opinioni e nel modo di reagire, ma in entrambi aveva risvegliato il bisogno primario di stare assieme.
 Dopo aver pagato il pedaggio ai faentini – sarebbe stato impensabile passare per i boschi con i prigionieri al seguito – Caterina si appoggiò completamente a Giacomo e, tenendo la testa sulla sua spalla, si assopì.
 Giacomo la lasciò fare. Sapeva quanto si fosse stancata e quanto poco avesse riposato in quegli ultimi giorni. E averla così, silenziosa e addormentata contro di sé, era per Giacomo una delle cose più belle del mondo.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas