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Autore: Adeia Di Elferas    27/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il Conte Ottaviano Riario si aggirava senza posa appena oltre il portone d'ingresso della rocca di Ravaldino.
 Quando aveva saputo che sua madre era entrata in città con al seguito dei prigionieri e che Giacomo Feo era ancora vivo e vegeto, aveva cominciato a temere per se stesso.
 Quei buoni a nulla di imolesi avevano fatto la spia? Si erano fatti trovare addosso delle lettere compromettenti? Avevano dato a lui tutta la colpa?
 Quegli interrogativi gli impedivano quasi di respirare, mentre attendeva l'arrivo della madre alla rocca. Cesare era ancora con il loro precettore e stava facendo delle lezioni aggiuntive di teologia, mentre Bianca era con le serve a ricamare. I più piccoli, poi, erano con le balie a riposare o giocare.
 Ottaviano si sentiva tremendamente solo. E indifeso. Sapeva di cosa era capace sua madre. Ricordava i litigi che portava avanti con suo padre e aveva visto coi suoi occhi il pugno di ferro che sapeva usare contro i traditori.
 Se i Tartagni o i Vaini avessero fatto la spia, Ottaviano era morto.
 Alla testa del drappello appena giunto da Imola, stavano Caterina e Giacomo, su due cavalli scuri, affiancati da un paio di araldi che portavano la vipera sforzesca e la rosa dei Riario.
 I due avevano abbandonato il cocchio appena prima di entrare in città, perché la Contessa era convinta che farsi vedere bene dai forlivesi sarebbe stata una buona mossa. Tutti quanti dovevano notarla e capire che portava con sé dei prigionieri. Tutti quanti dovevano rendersi conto che dalla giustizia non si scappava.
 Una volta rientrati alla rocca, Caterina salutò il primogenito con un certo distacco, cercando di carpire ogni sua reazione. Ottaviano, però, riuscì a controllarsi in modo eccellente, si disse anzi preoccupato per la madre, evitando di dirsi altrettanto in ansia per Giacomo, avvalorando l'ipotesi che la sua fosse una condotta del tutto normale. Se avesse, infatti, finto interesse anche per la sorte del Governatore Generale, di certo la Contessa si sarebbe insospettita parecchio.
 “Presenzierai anche tu al processo.” gli disse Caterina, prima di congedarsi da lui per andare dagli altri figli.
 Ottaviano fece un breve inchino e si chiese se quella richiesta fosse una sorta di punizione oppure un inaspettato e immeritato premio.

 Cesare Borja guardò di sfuggita suo padre, sperando di vederlo fiero di lui. Invece lo trovò intento a chiacchierare con quello che doveva essere Ascanio Sforza.
 Cercando di non dar peso a quella mancanza d'interesse da parte di suo padre, il ragazzo tornò a concentrarsi sul papa Innocenzo VIII, un povero vecchio che trascinava le parole, ma ancora abbastanza potente da poterlo innalzare al titolo di vescovo di Pamplona senza avergli nemmeno fatto prima prendere i voti sacerdotali.
 Il papa officiò il tutto con grande solennità, anche se Rodrigo Borja, che lo aveva convinto della validità di quella mossa politica, lo aveva pregato di fare una cosa 'buona, ma breve'.
 Cesare si sorbì in silenzio tutte le preghiere e le invocazioni in latino, mentre il suo pensiero correva ad altro, in particolare a come avrebbe festeggiato quella sera.
 Mentre Innocenzo VIII citava proprio Pamplona, Cesare cercò di nuovo lo sguardo di suo padre, ma ancora una volta lo trovò distante, rivolto agli altri figli, che assistevano di straforo a quella cerimonia, teoricamente privata e preclusa ai normali cristiani.
 Cesare, senza che il papa se ne accorgesse, seguì lo sguardo di Rodrigo fino a raggiungere il viso di Lucrecia. Solo undici anni e una bellezza già crudele e ammaliatrice.
 Cesare represse un moto di rabbia, nel pensare a come suo padre avesse già pensato a uno sposo per la piccola Lucrecia. Uno spagnolo, un certo Don Cherubino Juan de Centelles, un tizio di Valencia. Rodrigo voleva un futuro in Spagna, per i suoi figli. Non aveva capito che era l'Italia, il terreno più ricco e vitale per loro...
 Innocenzo VIII stava imponendo le mani su Cesare, così il ragazzo non poté fare altro che distogliere lo sguardo dai capelli di Lucrecia, simili a fili d'oro, e chinare la testa, preparandosi a diventare vescovo di Pamplona.

 “Certo che crescono in fretta, a questa età...” sussurrò Caterina, passando con delicatezza la punta delle dita sulla fronte del piccolo Bernardino, che dormiva come un ghiro.
 La cameriera personale della Contessa annuì, mentre le labbra le si incurvavano in un sorriso orgoglioso: “E lui cresce molto bene, mia signora.”
 Il piccolo, di circa dieci mesi, era roseo e paffuto e pareva anche di buon carattere. Piangeva di rado e secondo la nutrice – che alla fine aveva seguito le regole di svezzamento della Contessa, fingendo con il Governatore Generale di aver dato retta a lui – mangiava di gusto, senza mai risentirne in alcun modo.
 “Mia signora...” disse a un certo punto la serva, titubante, mentre Caterina ancora guardava il suo figlio più piccolo sognare: “Davvero voi e messer Giacomo avete rischiato di cadere in un attentato?”
 La Contessa si accigliò e confermò: “Sì, è così. Per questo domani verranno processati quegli imolesi che abbiamo portato con noi.”
 “Messer Giacomo mi sembra molto provato...” notò la cameriera.
 Caterina era stanca di sentirsi dire da tutti quella cosa. Anche Bernardi, quando era stato lasciato alla sua bottega dopo aver ricevuto una lauta ricompensa, si era sentito in dovere di dire: “Auguro al Governatore di riprendersi...”
 “Lo sareste anche voi, se aveste saputo che qualcuno voleva uccidervi.” disse piano Caterina, sperando di non svegliare Bernardino.
 “Voi avete rischiato quanto lui, ma non siete nelle sue condizioni.” si lasciò scappare la cameriera.
 Gli occhi incredibilmente verdi della Contessa incontrarono quelli d'un marrone molto banale della sua serva e tanto bastò alla cameriera per non fare più osservazioni di quel tipo.

 Piero Medici sporse in fuori le labbra carnose e disse, con sdegno: “Non siamo soddisfatti del vostro operato. Non lo siamo affatto!”
 Piero Leoni, capo chino e sguardo basso, lasciò che il figlio del Magnifico si sfogasse, per poi provare a dire, timidamente: “Sapete bene che vostro padre soffre del morbo di famiglia e che in lui, purtroppo, le recrudescenze sono molto frequenti e di difficile ripresa...”
 Piero Medici guardò lo scienziato che tutta Italia invidiava a Firenze e non riuscì a vedere altro che l'ennesimo ciarlatano: “Siete pagato per farlo stare bene, non per tenerlo sveglio intere notti con salassi e altre diavolerie!”
 Leoni curvò le spalle e tentò di difendersi: “Secondo i miei studi non vi sono molte cure per...”
 “Al diavolo voi e i vostri studi!” sbraitò Piero Medici, mentre i monili che portava addosso tintinnavano uno dopo l'altro, seguendo i suoi movimenti convulsi: “Mio padre sta morendo e voi ve ne state in un angolo a filosofeggiare!”
 Leoni deglutì rumorosamente, il pomo d'Adamo che scendeva nella gola scarna, gli occhi un po' lucidi per la delusione di sentirsi sbeffeggiare a tal modo da un ragazzo di nemmeno vent'anni.
 “Voi state prendendo in giro me, mio padre e questa città!” inveì di nuovo il Medici, indicandogli la porta con una mano inanellata: “Fuori di qui! Mettete ragione, Leoni, o non tornate qui mai più!”
 Il medico, sempre più affranto, voltò la schiena al figlio del suo signore e, senza trovare il modo di difendersi oltre, lasciò lo studiolo per recarsi nel suo laboratorio, al fine di preparare qualche nuova pozione per andare in aiuto del Magnifico, suo amico da anni.
 Piero Medici, rimasto solo, tirò su col naso, svuotò un paio di calici di vino e andò a cercare il cancelliere di suo padre.
 Quando lo trovò, ordinò: “Scrivete subito alla corte di Milano. Se lo Sforza è davvero tanto amico di mio padre, che ci mandi il suo miglior dottore, specializzato nel male della nostra famiglia. Non importa il prezzo che chiederà.”
 Il cancelliere si inchinò ed espresse la sua ammirazione per il giovane Medici: “Vostro padre è un uomo fortunato ad avere un figlio che lo ama così tanto.”
 Piero ringraziò e fece segno al cancelliere di darsi una mossa. Non poteva confessarlo a quell'uomo, ma la verità era che la sua solerzia era legata solo ed esclusivamente alla paura.
 Se suo padre fosse morto, con lui sarebbe crollato tutto il castello di carte che aveva messo in piedi. Piero non era amato, a Firenze. Perfino i suoi parenti, Lorenzo e Giovanni, quelli di Cafaggiolo, lo chiamavano 'il Fatuo'. Lo deridevano per il suo amore verso i bei vestiti e le pietre preziose e lo mettevano al centro delle arringhe di Savonarola, quel maledetto frate...
 Piero sentiva il cuore battere sempre più forte e quando dalla stanza accanto arrivò un grido strozzato di suo padre, che da un paio di giorni soffriva come mai gli era capitato, dovette mettersi una mano sul petto, per accertarsi che il suo cuore fosse ancora al suo posto e non fosse schizzato fuori, in cerca di salvezza.

 Il processo ai congiurati di Tossignano fu incredibilmente rapido. Caterina presiedeva assieme al podestà e a suo figlio Ottaviano e anche in sede di giudizio i sospettati non osarono fare i nomi dei mandanti.
 Essendo tutto svolto in pubblico, la Contessa ebbe modo di controllare i forlivesi e il modo in cui presero il verdetto. Tutti quanti erano stati condannati a morte.
 Il popolino sembrava d'accordo con quel provvedimento, tanto che certi si erano messi a invocare l'esecuzione immediata dei prigionieri. I nobili e i possidenti, invece, erano molto più cauti, nel manifestare il loro appoggio.
 Caterina sapeva che non era il caso di attirarsi le inimicizie gratuite dei nobili di Forlì. Già a Imola, dopo quel fatto, si aspettava qualche emulatore convinto di essere più furbo dei Tartagni e dei Vaini, dunque non era il caso di fomentare anche i forlivesi.
 Ottaviano, che per tutto il processo era stato fermo e immobile come una statua di marmo, era impallidito, quando i vari prigionieri erano stati messi alla sbarra e interrogati sui mandanti. Temeva che qualcuno di loro potesse parlare o anche solo potesse guardarlo in un modo particolare, perché sapeva che anche un solo sguardo sarebbe bastato a sua madre per capire tutto quanto.
 Per fortuna tutti i condannati erano stati a lui fedeli e nessuno di loro lo aveva trascinato nel fango.
 “Ho deciso di essere clemente.” annunciò Caterina, dopo aver valutato i pro e i contro della sua scelta: “Voi, Vaini, che siete stati coinvolti in un secondo tempo, sconterete la pena a vita nelle segrete di Ravaldino. E lo stesso vale per voi.” e indicò Domenico da Bologna e gli altri congiurati minori, come il Pesarino e il falegname.
 Enea cadde in ginocchio, piangendo a dirotto, parlando di ratti e topi in modo confuso, mentre suo fratello Domenico guardava con occhio vitreo la Contessa, non sapendo come prendere quella notizia. Era meglio morire in fretta per mano di un boia mai visto o vivere, ma chiusi in una cella buia, nascosti sotto una rocca, alla mercé dei roditori e di chissà che altro?
 “Voi, Tartagni...” proseguì Caterina, ignorando le lacrime disperate di Enea che, non ci voleva un genio a capirlo, avrebbe preferito mille volte la forca alla cella: “So che siete entrambi sposati, con figli.”
 Marcantonio la guardava con aria di sfida, mentre Teseo stringeva le mani, tenute assieme da pesanti catene, e sperava in un miracolo.
 “Vi offro questa possibilità: potete decidere di morire oggi, lavando il nome della vostra famiglia dall'onta di aver cercato di uccidermi – fece una breve pausa – oppure potete avere salva la vita, se acconsentirete a consegnarmi i vostri rispettivi primogeniti, affinché restino per tre anni miei ostaggi, nelle segrete di Ravaldino.”
 Con quella mossa, Caterina sperava di far sì che fossero i condannati a decretare la loro morte, dimostrando a tutti che una possibilità l'avevano avuta, ma che erano stati abbastanza assennati da non accettare uno scambio tanto bieco.
 Invece i Tartagni la sorpresero.
 Quasi a tempo, prevaricandosi l'un l'altro come se temessero di arrivare tardi con la loro richiesta, entrambi si affrettarono ad accettare.
 “Prendete pure mio figlio!” esclamò Marcantonio: “Prendetelo!”
 “Vostro! Mio figlio da oggi è vostro!” gridava Teseo, quasi esultando: “Vostro!”
 Caterina rimase spiazzata da una simile mancanza di amor paterno e notò con piacere che anche i forlivesi erano inorriditi di fronte a un simile spettacolo.
 “E sia.” concesse Caterina: “Avrete salve le vite e i vostri primogeniti vi raggiungeranno prima di sera nelle segrete della rocca.”
 Marcantonio e Teseo rimasero di sale. Solo il primo ebbe il coraggio di chiedere spiegazioni.
 “Ma...” disse, appena udibile: “Come? Anche noi nelle segrete?”
 “Avete barattato la vostra vita con la prigionia dei vostri figli, non la vostra stessa prigionia.” la voce di Caterina era inflessibile e lontana.
 Ottaviano guardò sua madre, inorridendo. Per quanto fosse una visione molto personale, per il giovane Conte, sua madre si stava quasi divertendo.
 “Andate ad arrestare i figli primogeniti di Marcantonio e Teseo Tartagni.” ordinò la Contessa a un gruppo di soldati che non aspettava altro.
 Poi guardò gli uomini che stavano davanti a lei, prostrati ai suoi piedi, intenti a cercare un minimo di pietà umana almeno nel podestà o nel Conte, che, invece, fingeva di non vederli, troppo spaventato da quello che avrebbero potuto dire, pur di salvarsi dal carcere a vita.
 “Portateli via.” terminò Caterina, ponendo fine al processo, tra gli applausi della folla.

 Antonio Maria Ordelaffi lesse con apprensione la lettera in cui veniva informato che Enea Vaini era riuscita a scappare a Massa Lombarda, per poi essere subito ricatturato dai soldati della Contessa Sforza Riario.
 'I suoi soldati eseguono i suoi ordini con una prontezza e un'efficienza che non è propria nemmeno dei migliori soldati di ventura – aveva scritto il suo informatore – e lei li ricompensa dando loro importanza e mostrandosi spesso al loro nuovo quartiere e addestrandosi con loro, come fosse lei il Generale delle truppe e non il suo amante.'
 Ordelaffi aveva dovuto rileggere più volte la parte che seguiva, incapace di credere alla fortuna che quella donna aveva: 'Ettore Zampeschi, che sarebbe stato volentieri nostro alleato, è stato assassinato da un suo prezzolato servo, passato in segreto agli ordini dei di lui fratelli e così ora madama può vantare un altro nemico in meno.'
 Antonio Maria avrebbe voluto essere in grado di punire i due sciagurati fratelli di Zampeschi, ma era inutile farsi venire uno stravaso di bile, dato che non avrebbe potuto fare assolutamente nulla, relegato com'era in terra straniera.
 'Il suo favore cresce in continuo, parimenti cala quello del suo amante, che dopo la mancata congiura si è fatto ancora più ostile al popolo. Forse per questo, madama ha deciso di riportarlo presto a Imola e dico allora che sia tempo di colpire.'
 Ordelaffi non poteva essere più d'accordo con il suo uomo di Ravenna. Perciò prese carta e inchiostro e, adoperandosi a usare il codice cifrato che nei mesi avevano infine messo a punto, si sbrigò a elencare i dettagli del piano che aveva ideato nei minimi particolari.
 Doveva colpire mentre Caterina Sforza non era a Forlì. Solo così avrebbe avuto il tempo di occupare la città e, Dio piacendo, di prendere in ostaggio il Conte Ottaviano. Potendo minacciare di colpire Forlì coi cannoni, o di ammazzare il giovane Riario, di certo nemmeno i fedelissimi soldati di Caterina Sforza avrebbero osato sparare anche un solo colpo di colubrina contro di lui.
 Con quelle certezze, Antonio Maria chiuse la missiva con un accorato: 'Prima della fine dell'anno, brinderemo a Ravaldino'.

   
 
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