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Autore: Adeia Di Elferas    01/07/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 Il messaggio del castellano della rocca di Porta Schiavonia arrivò a Imola che si era fatta ormai sera inoltrata.
 Caterina, inteso il contenuto della missiva, aveva trattenuto la staffetta per chiedere notizie più precise e aveva fatto in modo che Giacomo non venisse subito messo a parte di quello che era accaduto.
 “Dunque il castellano ha fatto arrestare i congiurati?” chiese la Contessa, mentre cercava di ricordarsi se quel nome, 'Salumbrini', le ricordava qualcosa.
 “Quando sono partito, aveva appena spiccato l'ordine d'arresto, mia signora.” fu tutto quello che il messaggero poté dire.
 Caterina annuì e finalmente lo congedò. Non poteva essere certa che dietro a quella congiura ci fosse davvero Ordelaffi. Per quanto fosse plausibile, le servivano prove certe, prima di scrivere ai veneziani per lamentarsi dello scarso controllo che i Serenissimi stavano esercitando sul loro protetto.
 Non poteva certo creare un incidente diplomatico basandosi sulle parole di un servo. Con tutti i trascorsi che c'erano tra Antonio Maria Ordelaffi e Forlì, era anche troppo facile puntare il dito contro l'esiliato per salvare qualche altro facinoroso.
 Quando tornò in camera con Giacomo, preferì non affrontare l'argomento, dicendo solo che il messaggero giunto da Forlì voleva darle un messaggio di Luffo Numai, che la metteva al corrente della situazione della città.
 Giacomo si bevve la storia solo per metà, ma era tanto atterrito all'idea di scoprire qualche nuova minaccia, che finse di credere a tutto, senza fare altre domande.
 Tuttavia, quando il mattino dopo Caterina gli disse che era necessario per loro tornare a Forlì per alcuni affari, Giacomo fu certo che l'inevitabile era accaduto e che nuove mani invisibili avevano cercato di arrivare fino a loro per ucciderli.

 Babone, da bravo bargello cittadino, aveva lavorato a dovere con quelli che gli erano stati consegnati con l'infamante accusa di tradimento. Peccato fossero solo due.
 Il primo, Salumbrini, forlivese d'infima razza e di poco senno, si trovò a penzolare appeso per il collo davanti a Porta Schiavonia. Con il suo solito stile evocativo, Babone aveva optato per quel luogo proprio a indicare che chi aveva cercato di prendere quella porta, aveva finito per morire nel tentativo.
 Montanari, invece, venne portato col capestro al collo in pubblica piazza, venne deriso e schernito, mentre le guardi al servizio di Babone cercavano disperatamente un misero appiglio per giustiziarlo.
 Quando, però, fu chiaro che nulla collegava quell'uomo alla congiura, Babone non se la sentì di alzare le mani su di lui, temendo le ire della sua signora, che non avrebbe accettato una punizione ingiusta nei confronti di un innocente.
 Per quelli coinvolti che non erano stati trovati, pochi, ma citati chiaramente in un paio di lettere trovate a casa del latitante Gionchido, Babone ordinò di radere al suolo le loro case e bruciare i loro averi.
 Quelle carte così importanti ritrovate frammiste a lettere di tutt'altro genere, vennero tenute da parte, in modo che la Contessa potesse vagliarle personalmente ed evincere la verità su quel tradimento: il mandante era davvero Antonio Maria Ordelaffi e quell'uomo era certo che in città ci fossero ancora intere famiglie pronte a dargli man forte non appena si fosse profilato all'orizzonte.

 Ottaviano aveva appena incontrato la madre, tornata da Imola con una calma inattesa. La fiducia che la Contessa aveva dimostrato di avere nel suo bargello cittadino aveva stupito il figlio maggiore, che aveva cominciato ad affinare un nuovo piano d'azione.
 Dopo il fallimento di Tossignano, pur senza averlo ancora detto a nessuno, aveva cominciato a pensare che sarebbe stato più semplice e veloce occuparsi di Giacomo Feo a Forlì, piuttosto che a Imola o da qualche altra parte.
 La congiura di Ordelaffi, sfumata ancora prima di cominciare, e punita in modo commisurato al danno ricevuto, gli aveva aperto nuove visuali.
 Se avesse cercato alleati in Forlì, avrebbe potuto controllarli meglio, ma un attentato in città sarebbe stato sventato ancor prima di essere messo in atto e quella volta sua madre non avrebbe avuto più dubbi sulla sua colpevolezza.
 Cesare aveva chiesto al fratello se ne sapesse qualcosa, di quello che era successo in quei giorni e della condanna a quel tal Salumbrini che era stato impiccato per le sue colpe. Ottaviano, ovviamente, gli aveva detto che non ne sapeva assolutamente niente e aveva anche invogliato Cesare a non parlarne più con nessuno.
 “Ordelaffi per noi è un pericolo tanto quanto lo stalliere – gli aveva spiegato – se dovesse uccidere Feo o nostra madre, non credere che sarà più clemente con noi.”
 
 Giacomo aveva scoperto di straforo tutto quello che era capitato. Per quanto fosse già convinto in partenza di quello che era accaduto, quando aveva trovato sulla scrivania della moglie una lettera da parte di Venezia, con cui il doge in persona si impegnava a tener maggiormente d'occhio Antonio Maria Ordelaffi, il Governatore Generale si era sentito mancare.
 Non sapeva dire cos'era peggio, a quel punto. La congiura o il silenzio di Caterina?
 Perché sua moglie non gli aveva detto nulla? Solo per non farlo agitare, per evitargli una preoccupazione o perché in fondo non lo riteneva all'altezza della situazione?
 “Dov'eri?” chiese Giacomo, quella sera, quando sua moglie arrivò nella loro stanza.
 Si erano ritrasferiti al Paradiso, fondamentalmente per non dover condividere gli spazi con gli altri abitanti della rocca e per essere lasciati in pace. Giacomo ne era stato felice, perché più metri metteva tra sé e i figli di sua moglie, più tranquillo si sentiva.
 “Il Consiglio è rimasto riunito fino a tardi.” spiegò lei, levandosi il mantello pieno di neve.
 Quel nevoso giorno di fine novembre era stato per la Contessa un vero inferno. Non solo aveva dovuto parlamentare a lungo con un ambasciatore veneziano, che le aveva fatto intendere quanto il doge fosse in realtà incapace di controllare tutti i confinati che aveva nei suoi territori, ma si era anche dovuta sorbire una noiosissima riunione che aveva portato, alla fine, a un nulla di fatto.
 Il problema era sempre lo stesso: le tasse ai contadini che possedevano la terra che lavoravano.
 Il malcontento per quelle imposte stava portando sempre più agricoltori a vendere – solo sulla carta – le proprie terre a dei prestanome che vivevano in città, i quali usufruivano dei privilegi accordati alle famiglie più benestanti e quindi versavano solo una minima parte della tassa iniziale.
 A peggiorare la situazione, in città alcuni artigiani che si erano indebitati negli ultimi anni con famiglie notabili di Forlì, avevano principiato a vendere i propri macchinari, pur di appianare gli ammanchi e scampare ai riscossori che si stavano facendo sempre più smodati e violenti e il risultato era stato un crollo netto di produzione e guadagno.
 “E com'è andata?” domandò Giacomo, senza un vero interesse.
 Caterina notò il tono piatto del marito e per un attimo trovò irritante il modo in cui per lui tutti quei problemi non avessero alcun peso. Era Governatore Generale delle truppe e delle rocche eppure non lo si vedeva mai nemmeno a controllare il quartiere militare o anche solo i rivellini della rocca di Ravaldino. Le giornate di Giacomo passavano placide e lente, tra qualche minima incombenza che Caterina gli affibbiava solo per levarselo di torno mentre si occupava delle cose importanti e qualche passatempo piacevole in compagnia o della stessa Contessa o del piccolo Bernardino.
 “Bene.” mentì Caterina, arrendendosi di fronte all'ineluttabile verità, ovvero che Giacomo tanto non avrebbe seguito il suo resoconto sulle difficoltà incontrate in Consiglio.
 Il giovane fece un sorriso un po' tirato, quasi deciso a parlare della questione di Ordelaffi, a chiedere maggiori spiegazioni a sua moglie, ma tutta la sua decisione sfumò, quando la vide spogliarsi davanti a lui.
 Come era ormai loro consuetudine, lasciarono tutti i problemi che li dividevano fuori dal loro Paradiso e si lasciarono trascinare in un mondo che apparteneva solo a loro.

 Cecilia Gallerani stava ancora ridendo per l'ultima battuta del poeta Bellincioni e, nella culla accanto a lei, anche il piccolo Cesare sembrava trovare quell'uomo divertente.
 Bellincioni, di rimando, sorrideva allegro, come sempre, quando riusciva a dire una battuta in grado di suscitare l'ilarità altrui.
 “Vostro figlio è sempre più grazioso.” assicurò il poeta, che a Cesare aveva anche dedicato più di un verso: “Ve l'avevo detto anche mentre lo aspettavate: sarà un maschio e sarà robusto come suo padre.”
  A quell'affermazione, Cecilia si adombrò per la frazione di un secondo, ma subito dopo tornò lieta e disse: “A proposito... Forse dovreste tornare al banchetto natalizio.”
 Bellincioni alzò le mani: “Per carità! Troppa confusione, davvero!” ridacchiò: “Preferisco di gran lunga stare qui con voi e il vostro piccolino a parlare di belle poesie e letteratura!”
 Cecilia si sentì lusingata da quelle attenzioni e per un attimo fu tentata di chiedere al poeta chi preferisse, tra lei e Beatrice Este.
 Sapeva bene che Bellincioni stravedeva per la moglie del Moro. Ne era stregato, come molti altri al palazzo di Porta Giovia. Spesso li si vedeva parlare animatamente per i corridoi, ma poi i due si lasciavano sempre da buoni amici, dandosi appuntamento al prossimo acceso scambio di opinioni.
 Però l'uomo apprezzava moltissimo anche Cecilia, non ne aveva mai fatto mistero e anche in quella notte natalizia aveva prediletto la sua compagnia alla confusione della festa di palazzo.
 “Quanto vorrei che non ve ne andaste da qui, cara Cecilia...” sussurrò all'improvviso Bellincioni, con un velo di malinconia.
 La Gallerani allungò una mano sul piccolo tavolo imbandito per due e gli assicurò: “Non credo che me ne andrò molto presto.”
 Cecilia aveva fatto i suoi conti. Isabella d'Aragona, che era stata una delle sue massime detrattrici in quei mesi, si era molto calmata, da quando aveva capito che scagliarsi contro di lei non l'avrebbe aiutata a riavere tra le braccia il figlio, Francesco. Beatrice, la donna che più aveva temuto, non era un vero problema, dato che era stata lei stessa a permetterle di restare a palazzo, a patto che offrisse al Moro la compagnia che la giovane Duchessa di Bari ancora non voleva concedergli.
 Da quando era nato Cesare, però, Cecilia aveva tastato con mano il crescente disinteresse di Ludovico nei suoi confronti e anche se il Moro continuava a farle regali di ogni sorta e genere era evidente quanto preferisse la moglie a lei.
 Se da quando era arrivata a palazzo Beatrice aveva già ricevuto un'ottantina di abiti, quasi tutti conservati a Vigevano, città che Ludovico ormai amava molto più che non Milano, Cecilia ne aveva ottenuti quasi altrettanti, seppur più modesti e meno sfarzosi.
 Bellincioni guardò sconsolato ancora un momento la donna bellissima che gli stava davanti, a suo parere la più belle delle amanti che Ludovico Sforza avesse mai avuto, e, prendendo il calice di vino, propose un brindisi: “Al futuro!”
 “Al futuro.” fece eco, a voce appena più bassa e meno entusiasta, la bella Gallerani.

 Volendo evitare una linea troppo dura contro quelli che aggiravano le leggi per pagare meno tasse, ben ricordando come il malcontento contadino fosse alla base della maggior parte dei colpi di Stato di cui aveva studiato da vicino le dinamiche, Caterina, il 28 dicembre, promulgò delle leggi per regolamentare meglio le compravendite e la restituzione dei debiti.
 Per quanto riguardava, in particolare, la cessione dei campi coltivati, stabilì che da quel giorno in poi, ogni transazione avrebbe dovuto avere la sua espressa approvazione per iscritto. A quel modo, pensava la Contessa, avrebbe potuto impedire certi giochetti e anche scoraggiare certe furberie che avrebbero portato ammanchi importanti alle casse dello Stato.
 Con l'arrivo del nuovo anno, la neve non smetteva di cadere e in molti non si dicevano sorpresi, dato che quell'anno perfino in giugno la neve era stata vista, in alcune zone non troppo lontane da Forlì.
 Ben convinta nel volersi mostrare una guida forte e precisa, Caterina prese l'inizio del 1492 con rigore e metodo quasi militaresco.
 Al mattino si divideva tra i figli più grandi, di cui aveva cominciato a seguire con massima attenzione i progressi, presenziando alle loro lezioni, i Consigli e i soldati, partecipando attivamente agli addestramenti e dirigendo in prima persona i controlli e le ricognizioni nel quartiere militare.
 Al pomeriggio passava parte del suo tempo tra gli alambicchi e le piante medicamentose, dedicandosi soprattutto agli aspetti medici e chirurgici dell'alchimia, e parte tra le strade di Forlì, a raccogliere informazioni presso la barberia del Novacula o chiacchiere al mercato e in chiesa.
 La notte, invece, era solo di Giacomo.

 “Quella donna è dappertutto!” esclamò uno dei clienti di Bernardi, con un colpo secco sulla coscia, come se quell'affermazione lo indisponesse parecchio: “E sta coi soldati e sta coi figli... E presiede il Consiglio!”
 “Dite la verità – ridacchiò Francesco Numai, appena prima che il Novacula cominciasse a raderlo – vi rode solo che vostra moglie ora voglia istruire a dovere quei selvaggi dei vostri figli, come la nostra Contessa sta facendo istruire i suoi!”
 Il primo divenne rosso in viso e farfugliò che non era affatto così e che, anzi, i soldi per i precettori li sborsava volentieri. Tuttavia, dopo quel piccolo borbottare, tacque.
 Nelle ultime settimane, con una velocità sorprendente, in Forlì era nata una vera e propria moda: far istruire i figli, perfino quelli che non erano primogeniti.
 Anche tra le famiglie meno abbienti c'erano quelle che avevano accolto la nuova scuola di pensiero e non erano pochi quelli che ingaggiavano precettori – per quanto scadenti – anche per bambini che nel proprio futuro non avevano di meglio in vista se non il lavoro di fatica.
 La Contessa, che non aveva fatto altro se non dichiarare chiaramente quanto i suoi figli stessero approfondendo gli studi classici e moderni, apprezzava moltissimo quella reazione dei forlivesi e cominciava a sperare di essere al primo gradino di una scala che avrebbe reso grande il suo Stato.
 Però il popolino trovava sempre più interessanti cose di tutt'altro spessore.
 “Ma dite che è vero che quelle strane creme le ha inventate lei?” chiese a un certo punto uno dei clienti della barberia: “Quelle che, se la tua donna sa come usarle par massaggiarti un po', ti fanno stare allegro tutta notte? O come dicono che dica lei stessa: per quanto te piacerà di stare in festa?”
 “Da come ne parli sembra che le abbia usate pure tu.” lo pungolò Francesco Numai, ormai sbarbato, ma ancora nella barberia, intento a bighellonare per riempirsi la giornata.
 “Se anche fosse?” chiese l'altro: “Mica si deve usare solo se non ce la fai da solo.”
 Qualcuno rise, altri si dissero d'accordo, mentre Bernardi taceva, in forte imbarazzo, incapace di prendere parte a quei discorsi che riteneva licenziosi e inappropriati, persino per una sede informale come quella.
 Pareva che proprio dalla rocca di Ravaldino, per passaparola, stessero uscendo sempre più spesso ricette di ogni sorta, da intrugli e beveraggi, a creme da spalmare su tutto il corpo, il cui unico scopo era quello di risvegliare la passione o anche solo di renderla ancora più bruciante.
 Ovviamente in breve si era scoperto – o almeno, così si pensava – chi fosse l'autrice di tutte quelle pozioni e nessuno metteva in dubbio il fatto che la Contessa le avesse provate tutte, nessuna esclusa, e che lo avesse fatto 'facendosi aiutare dal giovane Feo'.
 “Ridete quanto vi pare...” aveva concluso Francesco Numai, che, con piena soddisfazione, aveva provato come altri uno degli intrugli che si dicevano provenienti dal laboratorio della signora di Forlì: “Intanto sta facendo un grande servigio tanto a voi quanto alle vostre povere mogli, la nostra cara Contessa Sforza Riario!”
 'O Sforza Feo?' si chiese nella mente, prima di congedarsi dagli altri clienti con un cenno del capo.

 Ludovico il Moro tardava a congedarsi da Beatrice, quella sera. Avevano chiacchierato così amabilmente, fino a quando la notte era scesa e la luna aveva cominciato a riflettersi sulla neve che aveva ricoperto tutta Vigevano.
 Quel palazzo, in cui presto anche Bramante avrebbe messo mano, era per Ludovico un vero angolo di paradiso in terra. Tutt'attorno c'erano le sue piante di gelso e tutte le coltivazioni che per tanto tempo aveva desiderato poter curare e ammirare. Che altro poteva volere di più?
 Era così felice di essere lì assieme alla moglie, che quasi non ricordava che a Milano c'era Cecilia, la sua bella Cecilia, con il piccolo Cesare, paffuto e un po' prepotente, come era stato lui da bambino. Come, forse, era ancora.
 “Così il vostro ambasciatore in Forlì dice che vostra nipote ha tutto sotto il suo controllo?” chiese Beatrice, le piccole mani l'una sull'altra in grembo e gli occhi che guardavano le fiamme nel camino.
 Il Moro annuì prontamente: “Sembra proprio di sì. Ha rischiato due volte di cadere vittima di attentati, ma come sempre se l'è cavata.”
 “Mi piacerebbe conoscerla.” confessò Beatrice, che aveva cominciato a essere molto incuriosita da quella nipote di suo marito, di cui Ludovico parlava con un misto di deferenza e diffidenza.
 “Chissà...” fece vago il Moro, senza impegnarsi in alcun modo.
 “Dunque Granada è stata riconquistata...” sussurrò Beatrice, che non voleva lasciar andare il marito.
 Ludovico era ben felice di vedere come la moglie gli propinasse continuamente nuovi argomenti di conversazione nella speranza di indurlo a restare ancora un po' con lei nel salottino, davanti al camino, mentre la notte avanzava.
 “Sì – fece prontamente il Moro – e a Roma Battistina Usodimare, la nipote del papa, ha sposato Luigi d'Aragona, nella speranza di indurre Napoli a una pace.”
 Beatrice sbuffò: “I napoletani sono bellicosi, nessuno li può far stare in pace.”
 Il Moro era soggiogato dalle conoscenze politiche e sociali della moglie, che spesso gli pareva molto più acuta e ambiziosa di lui. Anche quella sera, nel sentirla analizzare così freddamente gli Aragona, in fondo suoi parenti, lo accendeva in un modo particolare, come mai gli era capitato con altre donne, per quanto istruite.
 “L'unico modo per mettere un freno a Napoli, sarebbe levare gli Aragona dal trono.” spiegò Beatrice, forte degli anni passati alla corte della cugina Isabella d'Aragona quando era bambina: “Forse Ferrante è ancora il più tranquillo di loro, ma quando suo figlio gli succederà, saranno guai per tutti.”
 Ludovico si sporse un po' sul divanetto, avvicinandosi alla moglie: “Voi che proponete?”
 Beatrice sbadigliò, la piccola bocca disegnò un cerchio perfetto e, con la voce ancora un po' pastosa, consigliò: “Non trascurate mai il vostro ambasciatore in Francia. La vostra idea di usare re Carlo a nostro favore potrebbe funzionare, se riuscissimo a piegare quel bifolco al nostro volere.”
 Il modo in cui la giovane usava il 'noi' e la semplicità con cui parlava di cose così complesse stregavano il Moro come nient'altro al mondo.
 Beatrice, da giorni, si sentiva più spavalda, nello stare sola con il marito. In parte perché la corte vigevanese era meno intrusiva e in parte perché lì, lontana dalla bella Cecilia Gallerani e spesso completamente sola con Ludovico, avvertiva meno occhi puntati su di lei per giudicarla.
 Ormai sapeva leggere negli occhi di suo marito il desiderio e anche lei sentiva crescere la volontà di unirsi a lui ed essere sua moglie non solo per contratto.
 Il Moro distolse lo sguardo e fissò un attimo il fuoco, che stava lentamente spegnendosi.
 “Si è fatto tardi...” sussurrò, come se si fosse accorto solo in quel momento dell'ora: “Forse dovrei ritirarmi per riposare...”
 Appena Ludovico si alzò dal divanetto imbottito, mostrandosi involontariamente in tutta la sua possanza e altezza, Beatrice si decise a lasciare da parte tutte le remore e le incertezze e, abbandonando a sua volta la poltroncina su cui era rimasta per tutta la sera, prese una mano del marito tra le sue e gli disse: “Restate con me, questa notte.”
 Ludovico s'immobilizzò e puntò gli occhi scuri in quelli svegli e accesi della moglie, cercando di capire che intendesse davvero. Più volte, infatti, avevano trascorso assieme la notte, ma a parlare, o anche solo a riposare.
 “Resta con me.” rimarcò Beatrice, in modo molto più eloquente, stringendogli la mano con forza maggiore e tradendo, per la prima volta, l'agitazione che sottostava a quella richiesta.
 Ludovico sentì il cuore scoppiargli nel petto per la gioia. Alla fine era riuscito nel suo intento. Sua moglie lo desiderava. C'era voluto del tempo, ma, ora che ne ammirava il viso luminoso e le iridi luccicanti, capiva che ne era valsa la pena.

   
 
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