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Autore: Mary_la scrivistorie    01/07/2016    0 recensioni
[In revisione - Lavori in corso!]
In un futuro minacciato dagli zombie, Mackenzie Darcy è la flebile eco di un’umanità destinata al massacro. Rampolla di una prestigiosa famiglia appartenente all’Élite, è in fuga dall’imminente apocalisse e dai demoni che infestano i suoi sogni. Destinata a approdare nelle Ebridi, dovrà fronteggiare diverse sfide, tra cui un arduo addestramento al fine di vincere la Guerra, la stessa che l’ha privata di ogni cosa.
E, alla fine, riuscirà a svelare l’identità della misteriosa «ladra di sogni» che sembra perseguitarla durante il giorno e la notte.
Dall’Atto III: «La Guerra. Arriva in un millisecondo e lascia il segno del suo passaggio come se fosse l’ombra del Diavolo che reclama cenere e sangue, dovunque vada.»
{Il capitolo “Atto III • Fiamme del Paradiso” si è classificato al quinto posto al contest “Apocalisse: Vivere o Morire [Multifandom & Originali]” indetto da ManuFury sul forum di EFP.}
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La ladra di libri

*



[Atto II]
 
Fiamme del Purgatorio
 
 
 
Barcollai fino alla catapecchia, non riuscendo a credere ai miei stessi occhi. Ce l’avevo fatta. Raggiunsi traballando la porta, che riportava un’iscrizione su cuoio logoro: «Isola di Jura: Zona 11». Dunque, avevo ragione: mi concessi un respiro profondo di rassicurazione. Mi trovavo nelle Ebridi, proprio come nella cartolina che mi aveva spedito Marguerite. Grazie, Marge, spero che tu sia ancora viva. Bussai, con impazienza. Là dentro, nulla poteva nuocermi peggio che là fuori. Quando la porta si socchiuse, sentii soltanto un sonoro frastuono ed il buio invase le mie iridi.
 
«È una Viandante?» chiese una voce femminile ed euforica, appena sopra di me. Aveva un tono trillante, intriso di curiosità e di incredulità.
«Non esistono più i Viandanti, Lila.»
«Beh, Bram, non si sa mai. Magari le sono venuti i geni anaerobi.» bisbigliò la ragazza, che sembrava fremere di entusiasmo.
Me la immaginavo: una giovincella dagli occhi malandrini e dal sorriso radioso, come un folletto, in stile Marguerite.
«I geni non vengono da un giorno all’altro, Lila. Ci vogliono generazioni e generazioni prima di un’Evoluzione, e la Riduzione sarà stata applicata massimo un decennio fa. Non basta.» intervenne un’altra voce maschile, più cupa e roca.
«È proprio bella, non trovate?». La ragazza, Lila, li stava ignorando totalmente. Chissà com’era concentrata nella contemplazione del mio corpo. Non che mi dispiacesse più di tanto: soltanto che c’era stata un’unica altra persona al mondo che mi aveva esaminata, avidamente, da vicino, carpendo ogni segreto ed ogni centimetro di me. Chris.
Il solo pensiero mi procurò dolore fisico, oltre quello che già provavo alle costole e che sembrava intollerabile. Contrassi un muscolo e percepii che qualcuno, al mio fianco, era sobbalzato.
«Tranquilla, Church, non ti divorerà. I Cannibali si sono estinti insieme ai Viandanti, sai. O ai dinosauri.»
Fioche e brevi risatine. Quante persone erano lì? Quattro? Cinque, addirittura? Di più? Non riuscii ad identificare il numero delle voci che sentivo.
«Sì, dai, è piuttosto carina.» Probabilmente a parlare era stata la ragazza che era sobbalzata, per distrarre la combriccola dalla scena di divertimento a cui avevano appena assistito.
«Sembra un’aristocratica d’alto rango, a giudicare dagli indumenti. Church, cosa puoi dirci? Sei tu l’unica esperta in lusso e ricchezza, qui.»
Mani esperte cominciarono ad esplorare cautamente il mio corpo, che si irrigidì istintivamente al contatto con i polpastrelli troppo gelidi della ragazza. Sì, era proprio inverno nelle Ebridi. La ragazza frugò nelle mie tasche e ne estrasse qualcosa ‒ la lettera di mia madre? Lo stemma dei Darcy? Il mio bracciale di riconoscimento? ‒ che osservò esitando ‒ probabilmente. Passò un minuto interminabile: pareva che Church stesse trattenendo il respiro.
«I vestiti provengono da Cambridge. Appartiene alla famiglia Darcy, Rivoluzionaria, ed è anche membro ufficiale dell’Élite.»
Giunse subito una risata sprezzante che si distinse fra tutti gli altri mormorii di massa. «Élite? Élite? Perfetto. Fantastico. Ne vedremo delle belle. Ci farà morire tutti quanti.»
Mi accorsi che a parlare era stata la ragazza con la voce acuta che prima sembrava tanto cordiale, e che aveva detto che sembravo aristocratica e bella. Non la pensava più come prima, evidentemente.
Il ragazzo che aveva parlato per primo intervenne: «Potrebbe non essere vero. Potrebbe essere una che si spaccia soltanto per un’aristocratica. Ci sono un sacco di persone che sono disperate a tal punto da inventarsi una schifezza simile.»
Schifezza? Schifezza? L’Élite, una schifezza? Come osavano dare della «schifezza» alla  mia famiglia? Per quanto riguardava Comitato e Consiglio, potevo trovarmi d’accordo. La mia famiglia, tuttavia, si era guadagnata il suo titolo formulando le idee più brillanti ed i progetti più ambiziosi. Si era distinta, a differenza della maligna congrega dei Rockefeller. Che volevano ucciderla, per di più.
Non ero abituata a questi insulti verso l’ambiente nel quale ero cresciuta. Perciò, decisi di svegliarmi ed inveire contro quella mandria di analfabeti.
Non appena aprii gli occhi, mi ritrovai davanti una decina di persone. Tutti ragazzi, all’incirca della sua età, che mi fissavano grugnendo di soppiatto e passando gli sguardi sulla mia vestaglia rossa e sgualcita. Mi trovavo in una stanza priva di decori o personalità: la parete era bianca e argentea, come in un laboratorio, e non c’era traccia di finestre. Somigliava molto ad una cella.
I ragazzi indossavano tutti una divisa mimetica ed un berretto che raccogliesse le chiome. Perfino le ragazze erano in tenuta militare: anzi, le più brandivano fucili all’avanguardia o coltelli affilati.
Quella più vicina a me era una ragazza sui sedici anni, minuta e magra, con i capelli corti e castani e gli occhi ambrati. Il suo viso possedeva una di quelle bellezze straordinarie ed irripetibili, quasi come se fosse un incrocio fra le vecchie attrici Liz Taylor e Charlize Theron. Sì, aveva l’aria  elfica di Marguerite. Soltanto che non sorrideva più. «Piacere, mi chiamo Dalilah Evers.» sibilò, come se fosse un serpente.
Tesi  la mano e parlai tutto d’un fiato: «Piacere, sono Mackenzie Darcy.»
I bisbigli, dapprima soffocati, divennero fitti. Chissà cosa pensano di me. Aristocratica. Schifezza. Lanciai un’occhiata guardinga al tizio che supposi si chiamasse Bram, tuttavia lui si nascondeva nella penombra, dietro le sagome di Church ed il folletto.
«E quindi sei un membro dell’Élite?». La ragazza, Dalilah, inarcò un sopracciglio con fare sarcastico.
«Sì.»
Dalilah Evers reagì scattando immediatamente verso l’uscita con grazia felina, gridando ai muri: ‒ Io me ne tiro fuori, gente. Godetevi la vostra «aristocratica».
Il resto della gente mi squadrava con esitazione: nessuno osava avvicinarsi, né contrastare la nuova fazione fondata da Dalilah «anti-Élite». Parve che nessuno sapesse più come accogliermi.
L’altra ragazza, Church, accennò un minuscolo sorriso ‒ che somigliava più ad una smorfia. Aveva i capelli lisci color mogano, gli occhi azzurrini e le lentiggini sparse attorno al naso. Apprezzai particolarmente la sua audacia. «Perdonala: l’Élite ha ucciso i suoi genitori. Erano Viandanti.»
Feci un cenno d’assenso. «Dille che non tutti erano d’accordo con la politica dei Rockefeller, va bene? I Darcy si sono sempre opposti al loro regime, in quanto Rivoluzionari.»
«Non credo che per lei faccia differenza, Mackenzie Darcy. I membri dell’Élite sono appunto questo: membri dellÉlite. Noi non conosciamo le famiglie che la compongono e le loro faide: tutto ciò che conosciamo è la loro dittatura. E tu sei una dittatrice. Questo, per lei, basta a condannarti.» Era stato il primo ragazzo a parlare, quello che prima era rimasto in disparte. Gli occhi grigi e velati mi confusero per un istante, rammentandomi quelli di Christopher. Però quel ragazzo non era come Christopher: non era biondo, non era robusto, non aveva le fattezze di una scultura greca. Il tizio conosciuto come «Bram» aveva i capelli corvini e scarmigliati, la pelle diafana ed un fisico atletico, snello e slanciato. Fisicamente, non avrei potuto definirlo «brutto», anzi, era piuttosto attraente, oggettivamente parlando. Tuttavia, la sua espressione ombrosa deformava i suoi lineamenti rendendoli vagamente macabri.
Lo sondai più a lungo del dovuto, convincendomi che quegli occhi fossero soltanto uno degli incubi che la mente mi giocava. Il colore però non si affievoliva: si trattava di bufera pura.
«Ti serve un soprannome.» sussurrò improvvisamente lo strano ragazzo somigliante a Chris, sempre sondandomi con attenzione. «Dimostra di non appartenere all’Élite. Cambia il tuo nome. Tutti lo fanno.»
Riflettei. Era vero: pareva che tutti avessero un nomignolo.  Lila, Bram, Church.  «Mack» era il soprannome che mi aveva affibbiato Marguerite quando giocavamo insieme da bambine; «Kenzie» era il nomignolo che utilizzava Christopher per chiamarmi durante la passione dei nostri amplessi ‒ e che era in assoluto il mio preferito; il migliore era...
«Darcy.»
Mi piaceva. Diretto, armonico, breve. Rappresentava, inoltre, un nesso con la mia famiglia, che si era occupata di programmarmi una fuga con dedizione e amore. E che mi mancava così tanto. Li rivedrai.
«Mi sembra perfetto. Io sono Bram, e lei è Henriette Churchill, detta Church.» annunciò, formalmente, senza degnarmi di un contatto. Soltanto quello sguardo bizzarro, capace di perforare gli animi. Scacciai quel fastidioso pensiero, indignata. Non ero lì per piangere il tradimento di Chris; ero lì per sopravvivere. Giusto.
Volsi lo sguardo al secondo ragazzo, e mi presentai.
 
Il secondo ragazzo si chiamava Alec Hershey, ed aveva un vero e proprio talento per le armi medioevali, che nessuno soleva scegliere più. Era stato spedito nella zona 11 dopo la disfatta nella sua vecchia area. Zona 9, Edimburgo, guidata dagli Hawthorne e che sarebbe dovuta essere la mia meta.
Alec era solo, forse anche più di me. Un uragano si era portato via suo padre quand’era ancora un neonato; gli zombie avevano invece provveduto alla scomparsa della madre, Chantal, e della sorella maggiore, Piper. La cosa che più detestava delle morti era l’oblio che trascinavano con sé: presto o tardi, a poco a poco i ricordi sarebbero diventati fioche ombre in attesa di una sepoltura definitiva.
Alec era slanciato, smilzo, ordinario: la cosa che più risaltava in lui era la gran forza di volontà che traspariva dai suoi occhi, il cui colore era un nocciola tenue. Capii ben presto che, nonostante tutte le tragedie che gli erano capitate, lui non era uno di Noi. Non era uno di «Quelli-che-avevano-perso-la-speranza», ma un intrepido e caparbio combattente. Scoprii un altro dettaglio interessante della sua routine: ogni mattina, all’alba, si arrampicava sugli aceri di fronte alla catapecchia sino a risalire sul ramo più elevato e maestoso. Da lì, contemplava una fanciulla che, a quell’ora, usciva in terrazza e cominciava ad annotare fiumi di parole, scorrendo con uno stilo antiquato sulla sottile carta del suo quaderno.
Mi confessò il suo segreto una settimana più tardi, rivelandomi l’identità della ragazza sconosciuta. Si chiamava Catherine Blair, soprannominata dai più intimi “Cate”. Cate non era una guerriera: aveva ereditato i geni creativi del bis-bis-bisnonno George Orwell, autore del romanzo distopico 1984.
Cate Blair scriveva storie di fantascienza e d’orrore, non molto diverse dalla realtà in cui vivevamo. Non parlava con nessuno, se non con la lapide del proprio avo, che si trovava in mezzo alle radici di due larici che si trovavano nei pressi di un lago vicino. Cate si recava là ogni giorno, piuttosto che allenarsi all’Armeria con i compagni, e si sfogava a lungo riguardo le proprie turbolenze interiori. Non era nata per combattere, lei.
Alec ne era consapevole e l’amava proprio per questo motivo. Era stanco della guerra. Stanco di non soddisfare le aspettative dei suoi luogotenenti. Stanco di non essere all’altezza della sorella, che si era impavidamente sacrificata per il bene della propria famiglia ‒ o di quel poco che ne restava. Voleva la Pace e voleva lei, perché incarnava nel miglior modo possibile il genere di «pace» che lui così tanto bramava.
Alec aveva un solo amico, oltre me: Abraham Taylor, il tizio con gli occhi di Christopher, che puntualmente mi odiava. Si era ben presto schierato con la combriccola fondata da Lila Evers contro di me; il motivo mi era ancora oscuro. Quando passava insieme ai suoi compagni e a Dalilah, ero bersaglio delle frecciatine più squallide e che, per la maggior parte delle volte, terminavano con i loro giudizi in merito al mio ruolo nella società. Mi avevano di fatto etichettata come «snob dell’Élite». Nessuno conosceva la mia storia, e la ragion per cui ero finita tra di loro. Nessuno sapeva che stavo fuggendo perfino io da ciò che ero, e dallÉlite.
Alec si era proposto tante volte di difendermi e anche di «pestarli tutti, dal primo all’ultimo» tuttavia gli avevo consigliato di non sprecare il suo ardore e di riservarlo a Cate. Detto ciò, era diventato rosso come un pomodoro. Mi rammentò l’innocenza che io avevo perduto quella notte di tante lune fa, avvolta dalla rugiada e dalla pelle del mio amante.
Bram era quello che mi insultava meno frequentemente e con minor furore, in quella combriccola. Forse era Alec che lo frenava a dovere, o forse non gli importava più di tanto; fatto stava che spesso neanche mi degnava di uno sguardo.
Non avevo ancora smesso di essere turbata dai suoi occhi maledetti, che infestavano sia i miei giorni che le mie notti. Uno degli incubi peggiori che affrontavo era percepire la risata crudele di Christopher nell’ombra, mentre le mie carni bruciavano in fiamme nere e grigiastre che lambivano la mia pelle e la impregnavano di elettricità, rendendola una massa incandescente che aleggiava nel vuoto più totale. La sensazione che percepivo durante quelle fasi del sonno era così reale da ferirmi e da farmi angosciare fino al mattino seguente: mi capitava sovente di destarmi di soprassalto, priva della voce che sarebbe altrimenti esplosa insieme al mio corpo, e di avere un batticuore frastornante. Paura. Si era ormai accanita sulla mia anima, violenta e pungente, ed era riuscita a sopraffarmi. Ero un altro essere umano in balia di fobie che non potevano essere raggirate.
Era solitamente Church a raggiungermi nel mio letto con un fruscio leggiadro e ad abbracciarmi con fare rassicurante, passando le dita affusolate sulla mia pelle imperlata di sudore e sulle mie braccia tremanti, utilizzando parole silenziose che non occorreva  pronunciare.
Nei giorni a venire, evitavo il più possibile qualsiasi contatto con Abraham ‒ e con i suoi occhi. Alec si chiedeva il motivo di un atteggiamento tanto evasivo ma io non ero con lui: la mia mente già era tornata a bruciare tra le fiamme nere. Invece di partecipare alle lezioni di gruppo mattutine, mi ritiravo nell’armeria durante l’ora del tramonto, provvista delle mie frecce e della mia balestra, e mi esercitavo finché non centravo con letale precisione il mio bersaglio.
 
 
«Chi l’avrebbe mai detto? Darcy, aristocratica modello e balestriere professionista. Se tu fossi furba, useresti una pistola o un mitra.»
La voce neutra e pacata di Bram Taylor mi carezzò la schiena e poi l’udito, facendomi voltare immediatamente verso di lui.
Vorrei non averlo mai fatto. I suoi occhi, più scintillanti e nitidi delle altre volte, erano lì, ad attendere i miei.
«Lascio quella roba a Lila e alle altre.» replicai seccamente, continuando ad incoccare le frecce. Non distrarti: è ciò che vuole. Continuai a fronteggiare, dirimpetto e con furia, il bersaglio e a colpirlo ripetutamente, facendo uso di tutte le frecce di cui disponevo.
«Quella roba avrebbe mezza possibilità di salvarti da uno zombie. Con una balestra non hai alcuna garanzia. È uno strumento suicida. Dovresti fidarti delle nostre armi, sai: nuocciono soltanto agli avversari.»
Conoscevo i tipi come lui: saccenti fino all’inverosimile, che si dilettavano nella critica e negli ammonimenti, relativamente calmi e innocui. Probabilmente, neanche sapeva combattere. «Non mi fido di niente e nessuno, eccetto i miei genitori.»
«La penserei esattamente come te, se ne avessi la possibilità.» L’insopportabile tenebra che sopraffaceva talvolta i suoi bei lineamenti era tornata a guastarli, rapida e silenziosa.
«Cosa ti è successo, Abraham?» chiesi, per una volta sinceramente interessata al passato di uno dei militari della zona 11.
Lui raccontò ogni cosa, per filo e per segno, come se attendesse quell’interrogativo da tempo immemore.
 
 
Abraham aveva avuto una ragazza, anni fa, di nome Rebecca Coleman, di cui era stato profondamente innamorato. Entrambi provenivano dalla zona 7, una di quelle perennemente sotto assedio.
Bram, ex mercenario, era stato inizialmente arruolato in una squadra di volontari esperti, insieme al padre di Becca, Patrick, che gli aveva presentato la famiglia. Sua moglie si chiamava Clarisse ed era una donna sensibile, con un profondo moto di empatia e senso materno; il primogenito si chiamava Eleazar, era appassionato di genetica molecolare ed aveva un paio d’anni più di lui ed infine la figlia minore, di nome Rebecca, aveva un anno meno di lui e tanti sogni alle spalle.
Rebecca era una ragazza a dir poco bizzarra: nessun maschio osava avvicinarla, dato che la gente la additava come «psicotica» o «strega». Aveva sempre potuto vantare un’indole notevolmente intuitiva, che molti avevano, nel corso degli anni, scambiato per chiaroveggenza. Le sue premonizioni si rivelavano veritiere il più delle volte e, approfittando delle persone che accorrevano a casa sua per ricevere presagi, iniziò a sfruttare le sue doti straordinarie per racimolare denaro. Il fratello Eleazar non concordava con questo subdolo progetto, ma la madre Clarisse lo mise a tacere quando Becca rientrò in casa con un gruzzolo niente male.
Rebecca era alta, castana, regale, come il fratello: il suo portamento ricordava i modi d’altra epoca ed i più la scambiavano per una principessa orientale caduta in disgrazia dopo l’Invasione.
Abraham Taylor, d’altro canto, era ancor più disgraziato di lei: orfano e con tre fratelli minori da mantenere. I gemelli, Isabel e Daniel, parteciparono alle campagne di esplorazione insieme a Bram in modo da facilitargli il lavoro. La sorellina, Sarah, era ancora troppo piccola per cercare un impiego.
Venne la guerra vera e propria ed i suoi effetti collaterali non tardarono a farsi sentire. Bram percepiva che il peso del lavoro diveniva sempre più opprimente, viste le crisi dei suoi superiori. La piccola Sarah si era ammalata, ed il fardello che Abraham già tollerava da mesi sembrò aggravarsi di molto. In un impeto di disperazione, l’Élite approvò una missione per i militari che si sarebbero offerti come esca e che avrebbero dovuto piazzare una bomba a Washington DC.
Abraham non poteva accettare, perché Sarah non glielo avrebbe mai perdonato. Tuttavia, i soldi guadagnati per la spedizione avrebbero potuto permettere loro l’acquisto di medicine o la visita di un dottore e dunque un miglioramento della salute della sorellina.
Fu in quel periodo di tormento interiore che si avvicinò a Rebecca. Con il suo fine sesto senso, lei aveva percepito i turbamenti di Abraham e si impegnò a sostenerlo come meglio poteva. Bram non lo dimenticò mai. Sebbene fosse un periodo di traviamento morale, tornò a sorridere e a vivere, grazie all’intervento di lei. Il fidanzamento fu ben accetto dal fratello e dalla madre, ma non dal padre, che sapeva che quella relazione non avrebbe giovato a nessuno dei due innamorati.
Abraham non partì per la missione. Quel giorno, giurò a Rebecca che non se ne sarebbe mai andato via da lei. Aveva ancora il sapore delle sue labbra sulle sue, quando scoprì che i gemelli erano entrambi saliti su quel velivolo, accompagnati dal signor Coleman. Il mondo parve piombargli addosso, mentre realizzò che l’amore era stata una delle principali ‒ e gradevoli ‒ catene che l’avevano imbrigliato a terra e portato alla decadenza.
I gemelli erano partiti per assicurare il denaro necessario al sostentamento di Bram e Sarah; il signor Patrick era partito per provvedere al mantenimento della moglie e dei figli, dato che Rebecca non avrebbe contratto un matrimonio con i comandanti militari che le aveva presentato, accogliendo le sue richieste di «vivere il suo idillio».
In casa Coleman il clima era denso di angoscia e morte: Clarisse rimase sconvolta per mesi di quella decisione sofferta a cui non aveva partecipato e presentò tracce di follia; Eleazar trovò un impiego in un centro militare pur di non restare a marcire di dolore in quella casa infestata di fantasmi fin troppo visibili; Rebecca iniziò a star male e ad ammalarsi sempre più frequentemente e gravemente, finché non contrasse un’influenza spagnola che le costò la vita. Abraham non fu mai più lo stesso.
Il suo mondo si infranse: trascorreva le giornate in casa, con gli occhi spiritati, mentre teneva la mano della signora Coleman che intanto era la viva preda del dolore, di singhiozzi e di convulsioni interminabili.
I due, troppo accecati dal vuoto e troppo consumati dal fuoco, non si accorsero che Eleazar, nel frattempo, si era avvicinato a Sarah. Il primogenito dei Coleman si premurava di tenerle compagnia perché provava pietà per il suo passato. Sarah, dal canto suo, accettò la compagnia di Eleazar ed iniziò ad affezionarsi a lui quasi come ad un fratello maggiore, dato che il suo sembrava essere svanito per sempre.
Un giorno, i due scomparvero nel nulla, lasciando una lettera che spiegava tutto e nulla. Eleazar, studiando in un archivio segreto della compagnia militare una molecola di ossigeno riducente contenuta in uno dei Pannelli, aveva dedotto che l’ossigeno sulla Terra non poteva essere gestito tutto da questi ultimi, poiché l’assenza di ossigeno libero avrebbe provocato l’oppressione di tutti i coni vulcanici e dunque un cataclisma apocalittico. Doveva esserci una Barriera che separasse il mondo dei Pannelli da quello in cui c’era ancora aria respirabile. E così erano partiti, insieme alla ragazza di Eleazar, alla ricerca di quella Barriera, rubando quante più bombole di ossigeno possibili. Un piano brillante, sebbene suicida.
Abraham non ricevette mai notizie né di Eleazar né di Sarah. Clarisse, esanime, era definitivamente crollata in un misantropo stato di coma mentale, da cui non si sarebbe mai risvegliata. Bram badò a lei come meglio poteva, dopodiché la zona 11, che era in cerca di soldati esperti, lo reclamò e lui partì per le Ebridi.
 
Quella sera, gli raccontai anche io la mia storia. Non omessi nulla, neppure la parte relativa a Christopher e la somiglianza impressionante tra loro due. Non omessi nemmeno le mie paure e la mia viltà di fronte all’idea del potere assoluto e di fronte agli ultimatum dei Rockefeller.
Abraham mi ascoltava in silenzio, fissandomi come se avesse intenzione di carpirmi l’anima, oltre che le parole. I suoi occhi, minacciosi e rassicuranti al contempo, accompagnarono con dignitosa fedeltà il mio racconto, narrato dalle mie labbra tremolanti e dischiuse.
Parlare di Christopher mi ferì e ‒ tanto vale dirlo ‒ mi fece pungere gli occhi di lacrime. Era come avere un insetto fastidioso che mi pungolava le palpebre e non dava loro tregua. Tentai più volte di ricompormi e di apparire algida, determinata e distaccata da quella storia che, sebbene non lo volessi, mi apparteneva in ogni sua sfaccettatura.
Abraham notò i miei occhi rossi e, senza emettere un suono, si sporse verso il mio volto per  sbirciarlo dettagliatamente. Portò le dita ai miei occhi e raccolse la lacrima lì insinuatasi, con una leggera vibrazione dei polpastrelli, dopodiché mi attirò a sé con una mano e mi osservò a lungo, come se un dubbio lo tormentasse.
Il contatto con la sua pelle mi disorientò, e la realtà caotica si smarrì nell’eco pulsante dei miei desideri.
La verità era che, , volevo un suo bacio. Patetica, vero? Ci eravamo confidati le nostre vite passate e percepivo la necessità impellente di approfondire la conoscenza di lui. Era come se la mia mente si fosse infatuata di Abraham Taylor: assuefatta, esigeva sempre di più, oltre. In quel momento, sottoposta al suo tepore, mi sembrò di ritrovare le stelle che avevano assistito allo smarrimento di me stessa e della mia innocenza. La volevo di nuovo, per caso? No, voglio me stessa.
Abraham, sempre in compagnia del suo prudente silenzio, lambì con un dito la mia fronte, il mio naso, le mie labbra sino a scendere sul mio collo, come incuriosito dalla conformazione del mio corpo. Lì si bloccò, e per la prima volta espirò in modo affettato, come se fosse rimasto senza fiato. La interpretai come una flebile vittoria sul suo autocontrollo, e non tardai ad approfittarne.
«Christopher Rockefeller è stato il mio incubo. Mi ha avuta, ingannata, tradita. Non glielo perdonerò mai. Non credevo che sarei mai stata pronta per concedermi ad un altro uomo, capisci? È stato umiliante, essere stata raggirata in questo modo. Soprattutto per una come me. Sono però giunta ad una conclusione: tu puoi liberarmi da questo demone. Tu puoi far riaffiorare me stessa dall’abisso in cui ero precipitata, se lo desideri.»
Abraham mi fissò, severo, poi incredibilmente si aprì in un sorrisetto malizioso che mi mozzò il respiro. «Lo dici perché lo pensi o perché mi vuoi?».
«Forse entrambe, o forse solo la seconda.»
«Apprezzo la sincerità, Darcy.»
Muoviti, pensai. E ‒ finalmente ‒ Abraham Taylor, dopo un’esitazione lunga cent’anni, mi baciò. Non si trattava di uno di quei contatti delicati e pudici di cui si era servito fino a quel momento allo scopo di portarmi allo strenuo del desiderio; ma una pretesa imperiosa, invincibile, potente. Le sue labbra lambirono le mie con passione, accendendole di vita, e la sua lingua, dopo essersi delicatamente insinuata in me, cercò la mia. Lui mi afferrò malamente per i fianchi, spingendomi al muro, ed io passai la mano fra i suoi capelli neri come l’ebano, con fare selvaggio. Non mi ero mai comportata con così tanta foga, soprattutto non in un frangente amoroso. Era come se il desiderio, seppellito nel profondo di me stessa, riemergesse sotto il fremito del contatto impetuoso con Abraham. Ad un certo punto, le mie mani, bramose di oltre, scivolarono da sole al di sotto della sua maglietta, ansiose di percepire il tremore dei suoi muscoli sotto i miei palmi. Fu lui, poi, a ribaltare le sorti: sempre con le labbra impegnate sulle mie, insinuò le mani lungo la mia schiena e risalì fino al reggiseno, cercando un mio consenso. Quando gli feci un rapido cenno affermativo, sganciò l’indumento e lo lasciò cadere a terra. Ricominciò a tormentarmi le labbra con le sue, più assiduamente, oltre.
Non so quanto durò quel bacio; né in quale momento iniziammo ad essere più delicati e ritmici; né quando, con me in braccio, lui si era spostato fino alla sua camera da letto; so soltanto che ad un certo punto ci eravamo tolti ogni indumento superfluo con spontaneità e naturalezza ed eravamo annegati nel tessuto accogliente delle lenzuola candide, sprofondando nei nostri corpi che anelavano il piacere di quel calore, di quel sole, del sigillo delle nostre pelli che si fondevano l’una con l’altra, sempre più oltre...
Quella notte gli incubi scomparvero per sempre.
 
 
Risvegliarsi fra le braccia di un ragazzo era incredibilmente piacevole, ma lo era ancor di più trovare i suoi occhi inchiodati sui miei, come se il suo segreto fosse contemplarmi di nascosto. Non sapevo come agire, se augurargli il buongiorno oppure attendere che fosse lui a parlare, ma non ce ne fu bisogno. Le sue labbra furono subito sulle mie, leggere, come se avesse paura di infrangermi o come se volesse stuzzicare l’ardore della mia brama. Sotto le lenzuola, pensai, siamo nudi, reduci di una notte trascorsa ad appartenerci. Abraham mi lambì i seni con le labbra, ed il mio anelito bruciò. Oltre.
Un raggio di sole filtrò dalla finestra della sua stanza e picchiettò gentilmente sulla pelle nuda di Bram, facendola rilucere di microscopici diamanti. Lo fissai e mi domandai come dovessi apparirgli: forse una meretrice, che era passata sul suo letto dopo una chiacchierata di poche ore. Una donna di facili costumi. L’idea stessa mi fece contrarre le narici: avevo ripudiato la mia vita aristocratica perché le donne erano schiave ed al contempo ingannatrici. Prostitute che si vendevano al miglior offerente, con l’obiettivo di diventare ricche e celebri. Avevo sempre ritenuto che non fosse il destino adatto a me ma dopo la sera prima non ne fui più tanto sicura. Mi ero venduta perfino io, forse, desiderando così intensamente Abraham dopo aver letto righe della sua storia?
«“Ti odio e ti amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai. Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento.”.» recitò Abraham, con incontestabile solennità, sempre perduto in me e nelle mie malie.
Catullo, sirme 85. Avevo nostalgia dei libri: la base in Arizona ne era piena. Romanzi straboccanti di parole soffuse ed eleganti, romanzi pieni di purezza e onestà, romanzi illusionistici fatti di carta indistruttibile. Le parole non potevano essere distrutte, d’altro canto.
«Se proprio devo essere la tua Musa, fa’ almeno di comporre qualcosa di stupendo in mio onore. Puoi anche celebrare le mie doti carnali in quel caso, fa’ pure.»
Abraham replicò: «Sono lieto che tu me ne conceda il permesso, cara Darcy, perché lo farò.»
Le nostre risate, fuse come i nostri corpi poco prima, riecheggiarono come aloni dorati nella stanza, illuminandola. Per una volta tanto, mi sentii di appartenere ad una Causa. Quella dei miei genitori era la salvaguardia del pianeta; la mia era un ragazzo di nome Abraham Taylor, che in una notte mi aveva salvato, a modo suo.
Allora non sapevo che quello sarebbe stato il primo e ultimo risveglio insieme.
   
 
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