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Autore: Laylath    04/07/2016    4 recensioni
Dal prologo:
"... Non lasciarmi!”
Quelle ultime due parole le procurarono un forte ed improvviso battito del cuore, risvegliandola bruscamente. Il buio era ancora attorno a lei, promessa di sicurezza ed oblio, ma qualcosa non andava.
Non riusciva più ad abbandonarsi ad esso come voleva.
Improvvisamente la sua memoria esplose di ricordi, di visi conosciuti, di voci che la chiamavano con insistenza...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Riza Hawkeye, Team Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Military memories'
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Capitolo 29
1916. Reunion




 
Il 1915 era passato, tranquillo come solo la quiete prima della tempesta riesce ad esserlo.
La maggior parte di Amestris proseguiva la sua vita come se niente fosse, felice che, tutto sommato, le guerre non avessero più di tanto coinvolto la popolazione civile con privazioni, tasse o chissà che altro. Le battaglie erano lungo i confini e dunque riguardavano soltanto gli eserciti in contesa, senza andare a sfiorare le città ed i civili.
A Central si respirava la solita aria da capitale: strade affollate, negozi, concerti… sembrava che la città si risvegliasse dopo l’inverno per festeggiare l’arrivo della primavera. Tutti erano particolarmente eccitati per l’eclissi solare prevista per quel giorno successivo, un evento così raro che sicuramente sarebbe rimasto negli annali.
Tuttavia c’era una ridotto numero di persone che attendeva questo giorno per un diverso motivo e per i quali l’eclissi era fonte di timore piuttosto che di meraviglia. Tuttavia era innegabile che ci fosse anche la determinazione di giocare sino all’ultima carta: del resto quando il ballo c’è la propria vita e quella di un intero stato i sentimenti in gioco non possono che essere di questo tipo.
 
Riza faceva parte di questa minoranza.
Sapeva che quel giorno di primavera, all’apparenza da ricordare solo per l’eclissi, era in realtà il Giorno della Promessa, quello in cui si sarebbe sferrato il colpo di stato che, se tutto andava bene, avrebbe rovesciato il governo di King Bradley e dunque degli homunculus. Ma, soprattutto, avrebbe impedito a quelle creature di utilizzare le oltre cinquanta milioni di vite presenti ad Amestris di venir assorbite dall’enorme cerchio di trasmutazione che era stato creato attorno al paese… un lavoro certosino, costato secoli ed infinita pazienza, un qualcosa che era iniziato con la creazione stessa del paese.
Faceva paura pensarlo: faceva sentire come dei piccoli granelli di polvere, delle gocce d’acqua che si perdevano nel mare ad una velocità disarmante. Gli homunculus ed il loro Padre avevano atteso un tempo pari a decine di volte la durata di una vita umana per arrivare a questo momento cruciale. Loro, invece, stavano tentando di rovesciare tutto in nemmeno ventiquattro ore.
Doveva andare tutto alla perfezione o avrebbero fallito.
 
Per la soldatessa era come uscire da uno strano limbo in cui era vissuta in tutti quei mesi.
Aveva pazientato, continuato il suo ruolo di assistente del comandante supremo, contando i giorni del calendario con una strana calma, sebbene in fondo alla sua anima l’eccitazione aumentasse ogni giorno che passava. Sapeva di essere una delle pedine di quel gioco spietato che ormai si era messa in moto e anche se non sapeva usare l’alchimia, e dunque non poteva certo considerarsi una delle giocatrici più forti, aveva intenzione di fare la sua parte sino all’ultimo.
Del resto, tempo prima, Breda le aveva ricordato che il loro ruolo era uno e fondamentale: dare appoggio e sostegno al colonnello Mustang.
Ed era vero: in quel giorno in parte andavano anche a chiudersi i conti con Ishval. Certo, il rimorso della guerra non sarebbe mai finito, semmai ne fossero usciti vivi. Ma almeno avrebbero impedito che quelle creature mietessero altre vittime anche tra i reduci di quel popolo dei quali avevano segnato la scomparsa quasi totale.
Tuttavia, quel primo pomeriggio la sua mente era invasa da un altro pensiero che arrivava ad offuscare persino la grande missione che l’attendeva. Vestiva borghese, addosso aveva tutte le armi possibili, ma non importava: non era la divisa a renderla parte della squadra del colonnello. Quella squadra che, se tutto andava bene, entro il giorno dopo, sarebbe stata finalmente riunita.
Dopo mesi e mesi di separazione, durante i quali, ogni giorno, ciascuno di loro aveva rischiato la vita, finalmente tornavano a lavorare assieme, come se quel tremendo periodo fosse stato solo una brutta parentesi da cancellare. Come se un osso uscito dalla sua giuntura venisse finalmente rimesso al suo posto, ponendo così fine alla sofferenza.
Arrivata al capannone prestabilito, con parecchio anticipo rispetto a quanto concordato, vide che Hayate iniziava a raspare con eccitazione alla porta. Non fece in tempo ad aprire che già l’animale era sgusciato dentro.
“Hayate!” lo chiamò con un bisbiglio, ma il suo animale sembrava fuori controllo tirando. Tuttavia capì cosa era successo quando lo vide tirare con i denti la manica del cappotto di Fury, ancora con la sporca divisa del settore sud, profondamente addormentato.

La guerra aveva lasciato profondi segni sul piccolo della squadra.
Era notevolmente dimagrito e questo lo faceva sembrare più slanciato, ma era un qualcosa di così innaturale per lui che sembrava gli avessero dato una divisa di una taglia più grande. In viso aveva due grossi cerotti, niente di grave come aveva assicurato lui stesso, ma non era questo a risaltare nel pallore di quei lineamenti. L’espressione era quella di chi ha visto e vissuto gli orrori della guerra. Era una cosa che Riza aveva notato non appena l’aveva visto addormentato, riconoscendo il sonno del soldato che si deve concedere qualsiasi momento di riposo perché non sa mai quando potrà essere il prossimo. Era un sonno che non riusciva ad essere del tutto rilassato, quello che sa che il giorno dopo sarebbe riniziato tutto daccapo, senza tregua, senza speranza.
La soldatessa si era riconosciuta fin troppo bene in lui ed il suo cuore era piombato nella disperazione: aveva sperato con tutto il cuore che la guerra in qualche modo lo preservasse dall’orrore. Ma era stata una sciocca: come aveva potuto sperare in un simile miracolo?
Poi il giovane si era svegliato, sorpreso di trovarla accanto a lui.
Com’era stato curioso sentire la sua voce dopo tanti mesi in cui non era stato possibile contattarlo. Le sembrava sempre la stessa, ma c’era qualcosa di nuovo che ancora non riusciva a definire… qualcosa di adulto, di forzato. Ma forse la cosa peggiore era stata quando si erano guardati negli occhi: nelle iridi scure  non aveva avuto difficoltà a leggere dolore e angoscia: vide con chiarezza la trincea, le bombe, i morti, la paura di non farcela. Vide quel terrore troppo grande per essere raccontato sino in fondo.
E poi il sergente aveva cominciato a parlare di quell’argomento così difficile, come un fiume in piena che ha appena rotto la diga e non può essere fermato; come se avesse atteso di essere di nuovo assieme a lei per sfogare tutto l’orrore che aveva vissuto.
E Riza, tenendogli stretta la mano sporca, non aveva potuto fare a meno di ascoltarlo, lieta di esserci almeno in quel difficile momento.
“I primi tempi… ho creduto che non ce l’avrei mai fatta. Era come essere perduto in un limbo di dolore che ti fa dimenticare il motivo stesso per cui vivi – stava dicendo in quel momento il giovane – Sei lì, in quella trincea, a chiederti se le prossime ore saranno le ultime, se la prossima granata ucciderà anche te. E la cosa terribile è che dopo un po’ non te ne importa nemmeno… in fondo è un modo come un altro per far smettere quella follia. Ne muoiono tanti accanto a te, cosa avresti tu di speciale per essere graziato?”
Rassegnazione, era l’unico sentimento espresso da quelle parole.
“Non sei mai stato sacrificabile” mormorò, con dolcezza Riza accentuando la stretta sulla sua mano.
“Adesso lo so… ma ho dovuto toccare il fondo prima di capirlo. E’ dura dirlo, ma stavo per venire meno alla promessa, signora. E’ stato grazie al sottotenente Breda che sono tornato alla vita: sentire una voce amica al telefono dopo settimane di trincea è stato come rinascere”.
Rinascere – si sorprese. Una parola simile dopo la guerra lei non l’aveva mai usata, anzi con tutta probabilità l’aveva tenuta fuori dal suo vocabolario per mesi e mesi.
“E’ perché siamo una squadra, Fury – scrollò le spalle, decidendo di assecondare il suo sottoposto – L’hai detto tu stesso che vinciamo sempre insieme”.
“Già – un timido sorriso affiorò sul viso pallido del giovane – E da quel momento ho capito che non ero sacrificabile: non potevo fare un torto alle persone che amo e che voglio proteggere. Ho capito che stavo rischiando di morire, non solo fisicamente, ma anche in un modo più orribile, quello contro cui lei mi aveva messo in guardia. Stavo dando per scontata la morte delle persone intorno a me. Siamo soldati, è vero… ma siamo prima di tutto persone. E come tali proviamo sentimenti e abbiamo bisogno l’uno dell’altro, anche nei momenti peggiori. Non è giusto evitare di ricordare i nomi dei tuoi commilitoni solo perché da un momento all’altro potresti perderli; non è giusto lasciare un soldato a morire da solo, perché non c’è più niente da fare. Non è giusto rinunciare a me stesso… solo perché nella trincea è più facile dimenticare e lasciarsi andare. Io… io voglio continuare ad essere felice. E lo so che forse sembrano parole sconsiderate di fronte a tutti quelli che sono morti… ma forse è un torto più grande nei confronti della vita che ho ancora e che condivido con le persone che amo”.
Ed era assurdo come la sua espressione fosse cambiata man mano che parlava: come se fosse davvero rinato solo per essere di nuovo assieme a loro. Restando ormai il soldato che aveva vissuto la guerra, certo, ma ritirando fuori la sua anima candida ed ottimista, come se l’avesse tenuta preziosamente nascosta fino a quel momento. E Riza non poteva che guardarlo, sentendosi così fiera di lui, sentendo il vuoto nella sua anima che si riempiva di sollievo. Alla fine non poté fare a meno di posare la fronte contro la sua, cercando di tenere la voce salda per la commozione.
“Oh Fury, grazie davvero! Hai mantenuto la promessa, piccolo soldato… e non sai che sollievo mi hai dato con queste parole”.
Il sergente arrossì a questo gesto e fece scivolare il discorso su Hayate che, intanto abbaiava festoso, ma poi la guardò di nuovo negli occhi e tornò serio.
“Signora, è andato tutto bene? In questi mesi ho potuto parlare solo col sottotenente Breda e qualche volta con il maresciallo Falman… insomma, sapevo che eravate tutti vivi, ma…”
“E’ andato tutto bene – lo rassicurò, come se adesso quell’anno da ostaggio fosse stato solo un brutto sogno – non è stato facile nemmeno per me e per il colonnello, ma ce la siamo cavata. In fondo non siamo mai stati veramente soli”.
Fury sorrise e si alzò in piedi, recuperando il suo zaino impolverato.
“E’ quasi ora di muoversi, vero?”
“Sì, manca ancora Breda e siamo pronti ad andare”.
In quel momento sentirono un rumore e si girarono verso l’ingresso e subito sorrisero quando videro la robusta figura del sottotenente che entrava, quasi evocata dalle loro parole. Vedendolo avanzare verso di loro con il solito sogghigno sarcastico, a Riza sembrò che un sostegno fondamentale fosse finalmente tornato al suo posto, solido come una roccia.
“Sottotenente!” esclamò Fury con gioia.
“Dannazione, ragazzo, sei proprio impresentabile – sghignazzò il rosso arruffandogli i capelli – avresti bisogno di una bella doccia”.
“Non ne ho avuto occasione” sorrise il sergente, come se quella fosse una normale giornata d’ufficio e non fossero mesi che non si rivedevano.
“Questa volta passi – annuì Breda prendendolo per il mento e fissandolo – Niente di grave questi due cerotti, vero?”
“Solo tagli superficiali”.
“Ottimo. Allora signora, è un piacere rivederti” sorrise, rivolgendosi a Riza e strizzandole l’occhio.
Bastava così, non c’era bisogno di altre parole. Al contrario di Fury, Breda era un veterano della guerra e non aveva bisogno di parlare degli orrori che aveva visto o delle ferite che aveva subito. Aveva già archiviato la questione come non pertinente a quanto stavano per fare e quindi non serviva parlarne.
Riza sorrise mentre si sistemava la giacca e prendeva in mano il fucile: con quei due accanto si sentiva di nuovo forte e al sicuro, in un ruolo che finalmente tornava suo.
E sebbene Havoc non fosse con loro e nemmeno Falman, dato che sarebbe stato con le truppe di Briggs, per ora le bastava quel pezzo di squadra e di vita per poter andare avanti.
“Domani le cose si metteranno in moto – disse – Facciamo ciò che dobbiamo, sottotenente Breda, sergente Fury…”
“Smettila con questa storia del sottotenente – sorrise Breda – Adesso sono solo un normale disertore”.
“Le cose si fanno torbide” sospirò Fury rassegnato, come se si rendesse conto solo ora dell’enorme guaio in cui stavano andando a cacciarsi.
Riza si voltò verso di lui e sorrise
“Quando sarà tutto finito, il colonnello dovrà prendersi le sue responsabilità”.
Fury non poté fare a meno di ricambiare il sorriso ed annuire.
Due minuti dopo tre disertori e un cane uscirono dal capannone per andare a incontrare il loro re.
 
La notte era calata a Central City e mancavano poche ore all’inizio del Giorno della Promessa.
Tuttavia il gruppetto non si era reso conto del passare della luce se non guardando i propri orologi: si trovavano infatti nei sotterranei della città, nell’intricata rete di cunicoli di cui la maggior parte degli abitanti ignorava l’esistenza.
Alla fine erano giunti in una sorta di stanzetta e lì avevano atteso: avevano mangiato qualcosa, scambiato qualche parola, ma per lo più avevano preferito restare in silenzio, in attesa dell’arrivo del loro superiore.
Era come se ciascuno meditasse profondamente sull’anno trascorso separato dal resto della squadra, rimuginando sulle proprie esperienze, sulle proprie motivazioni, ma soprattutto su quell’uomo per il quale erano tornati, colui nel quale avevano riposto tutte la loro fiducia e le loro speranze.
Riza stava seduta su una vecchia cassa di legno, con Hayate accoccolato ai suoi piedi.
Sebbene in apparenza fosse calma e tranquilla, tanto da avere gli occhi chiusi, il suo cuore in realtà era in pieno tumulto.
Sarebbe stato così strano essere di nuovo al suo fianco dopo tanto tempo che non si erano visti. La loro recita agli occhi del mondo era proseguita così bene che rarissimi erano stati i contatti veri e propri, anzi praticamente nulli dopo quel faccia a faccia nella mensa.
Sarà sempre lo stesso, colonnello? Sarà come se non fosse passato un giorno?
Paradossalmente le veniva da chiedersi se era ancora in grado di essere la sua guardia del corpo. Ma si rimproverò immediatamente per un simile pensiero: quello era il ruolo per cui viveva e affondava le sue radici più profonde in un passato ormai lontano. Ancora prima di Ishval, ancora prima dell’Accademia… quando gli aveva affidato i segreti dell’alchimia: si era fidata di lui, si era affidata a lui con tutta se stessa.
All’epoca forse non aveva compreso quanto profonda fosse la devozione che aveva nei confronti di quel giovane che voleva cambiare il mondo.
L’aveva visto distrutto dalla guerra, spezzato nei suoi ideali, ma altresì l’aveva visto rialzarsi ed andare avanti, dimostrandole che in fondo lei aveva avuto ragione, aveva visto giusto.
In quel momento la piccola porta di legno marcio scricchiolò e tutti loro si alzarono in piedi.
Mustang scivolò dentro quell’ambiente fiocamente illuminato da alcune torce.
Vestiva in borghese, come se fosse appena arrivato da un’elegante serata a teatro.
A Riza il cuore smise di battere per un secondo nel rivedere quel viso avvenente, quei capelli neri e sottili, gli occhi scuri e allungati. Se in Fury aveva visto il cambiamento della guerra, Mustang invece era lì, fresco come una rosa, come se si fosse messo elegante per dar loro il bentornato in squadra.
“E’ in ritardo, colonnello – commentò Breda – stavamo per lasciarla qui”.
“Ora come ora, anche il tuo sarcasmo mi conforta” sogghignò il moro.
E quanto era bello sentire di nuovo la sua voce.
 
Una volta Fury le aveva detto che non ci si dimentica di come andare in bicicletta, nemmeno se passano anni ed anni.
Per loro, a quanto sembrava, era la stessa cosa: anche se era passato tanto tempo non si erano assolutamente dimenticati di come si lavorava in squadra: i loro cenni d’intesa, il loro sapersi anticipare, erano sempre gli stessi, senza che nessuno avesse bisogno di dire o chiedere qualcosa.
“Tra poco dovrebbe arrivare la macchina – disse Mustang guardando l’orologio – Fury, Breda, andate a controllare”.
I due annuirono e scesero dalla vettura che stava ferma poco fuori la strada che attraversava quel viale alberato: a breve avrebbero preso come ostaggio la signora Bradley.
Il colonnello e Riza stavano seduti sul davanti: lui si era precedentemente cambiato ed indossava di nuovo la sua divisa con il cappotto scuro, pronto all’azione come quando erano in grande spolvero. Riza avrebbe voluto dirgli tante cose, ma non ci sarebbe stato né tempo né coraggio.
Voleva dirgli che ora che stava di nuovo accanto a lui si sentiva bene, completa… ed era una sensazione che prima non aveva mai provato con una tale intensità.
Se dovesse morire, colonnello – pensò con amarezza – io non ce la potrei mai fare. Anche se lei mi ha detto di andare avanti, di non farmi tradire dalle emozioni, ci sono dei limiti che non posso superare.
“Pensierosa, tenente?” le chiese Mustang, distogliendola dai suoi pensieri.
“Concentrata” corresse lei.
Il colonnello la guardò e poi sorrise, posando le mani sul volante.
“Sono contento di riaverti di nuovo a mio fianco, sai? L’ho detto già quando eravate tutti assieme, ma a te lo volevo dire in maniera particolare”.
“Sono pure io felice di essere di nuovo la sua guardia del corpo, colonnello”.
Riza si rese conto che, in altre occasioni, un simile dialogo l’avrebbe messa in estremo imbarazzo e non avrebbe desiderato altro che scendere dalla macchina e scappare via. Ma adesso si sentiva estremamente felice di quelle parole, come se fosse finalmente pronta ad accettare l’importanza fondamentale che costituivano l’uno per l’altra… e non una cosa a senso unico come aveva sempre ritenuto.
“Ci siamo, tenente – ammise lui – questo è il momento in cui mi sto giocando tutto, compresi voi. Tra pochi minuti entreremo in scena ed allora non dovrò avere più dubbi o tentennamenti… come se adesso potessi permettermi di averli. Però ammetto di essere teso come mai è stato prima: volevo confidartelo, anche se a questo punto è sciocco e addirittura improduttivo”.
“E’ solo umano, signore, se la può consolare pure io condivido i suoi stessi sentimenti”.
“Pensavo fossi concentrata” sorrise.
“Posso essere entrambe le cose”
“Tenente, promettimelo di nuovo”
“Che cosa, signore?”
“Che non morirai”
Riza sorrise dolcemente e dovette trattenersi per posare una mano sul braccio di lui.
“No, colonnello, le prometto che non morirò. Lo stesso valga per lei”
Forse Mustang avrebbe risposto, ma in quel momento si sentirono dei rumori e Breda e Fury tornarono di corsa per risalire in macchina.
“Arrivano! – avvisò il sergente – meno di due minuti”.
“Si entra in scena, ragazzi – dichiarò il colonnello – facciamogli vedere cosa siamo in grado di fare”.
Il loro giorno della promessa iniziava in quel momento.






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Capitolo più corto del solito, ma come sempre mi sono soffermata sui missing moments piuttosto che sui fatti ben noti della storia.
Più che altro volevo approfondire il momento della riunione tra questi tre membri della squadra. Come sempre per Fury ho ripreso parte dei dialoghi dalla sua fic, perché questa era una scena che avevo trattato ampiamente.
Anyway: siamo quasi agli sgoccioli: nel prossimo capitolo arriveremo al punto del prologo e poi andremo direttamente al post battaglia :)
Considerato il tutto dovrei riuscire a terminare la storia prima della mia partenza.
A presto :D

 
  
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