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Autore: Blue_Sephirot    15/07/2016    3 recensioni
«Takao, senti…», sussurrò la giovane, prendendo a giocare con una ciocca dei suoi capelli castani.
«Takao, insegnami a giocare a beyblade, ti prego».
«…perché mai?».
Oh, Hilary lo sapeva bene perché, ma di certo non lo avrebbe mai confessato. A nessuno, nemmeno a lui. Averlo confessato a se stessa l’aveva già spinta in un mare di difficoltà e in poche – ma buone! – situazioni scomode, da lei stessa cercate in momenti di poca lucidità mentale e troppa emotività.
[...]
Afferrò una biro rossa che giaceva dimenticata da qualche infermiere sul comodino del suo bel russo malconcio e l’avvicinò al suo beyblade, sotto gli occhi curiosi di Takao che, pur non capendo nulla di ciò che lei potesse avere in mente, decise di tacere per una volta nella sua vita.
Sospirò e poi finalmente si decise.
Con un movimento rapido, ma stando bene attenta a fare un buon lavoro, scrisse una “H” nella zona circolare del bit-chip.
Dopodiché, posò la biro dove l’aveva trovata e, senza dire una parola, mise il suo Tinkerbell sul cuscino di Yuri, di fianco a Wolborg.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hilary, Takao Kinomiya, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“H”

Cap. 3


 

Il sole batteva forte sulle vetrate dell’aeroporto di Tokyo. Quell’estate giapponese non dava un attimo di tregua e ciò rendeva ancora più ardua l’attesa di quel volo che tanto era stato agognato nei giorni precedenti.
Nulla da dire contro il Giappone in sé, ma nessuno di loro sarebbe rientrato sostenendo di avere un bel ricordo di quella permanenza nella Terra del Sol Levante.
Lì erano stati prima di tutto sconfitti nella finale del mondiale di beyblade, che fino a quel momento era stata l’unica loro ragione di vita; a Tokyo, Vorkov aveva deciso di dare il via al suo nuovo piano con la BEGA e di inaugurare lo stadio principale della sede umiliando in diretta nazionale il loro capitano, Yuri, che si era ritrovato catapultato in un incontro in cui aveva seriamente rischiato la vita; avevano poi fatto tutti e tre un giro all’ospedale, che per Ivanov si era trasformato in un ricovero maledettamente lungo, e infine, come ciliegina sulla torta, il lupo della steppa  aveva mostrato i canini aguzzi e minacciato i medici di sbranare ogni singolo componente della sì gentile e ospitale, ma anche rumorosa e molesta famiglia dei Kinomiya, se non gli avessero permesso di salire sul primo volo diretto a Mosca. Perché no, Yuri non aveva la minima intenzione di essere ospitato da Takao per il periodo dei controlli post ricovero, come non aveva la minima intenzione di essere ospitato da nessuno, pena un drastico abbassamento della sua soglia di sopportazione e la conseguente integrità fisica di coloro che si sarebbero malauguratamente trovati attorno a lui. Sergej, il pacato mediatore del gruppo, promise perciò ai medici curanti che il loro leader si sarebbe sottoposto ai dovuti controlli in Russia; ritirò la sua cartella clinica e corse dal presidente Daitenji a prenotare quel volo che, più passavano i minuti, più diventava indispensabile per la loro sopravvivenza.
Nessuno di loro amava Mosca, teatro di orrori e oscurità, ma in quegli istanti rientrarvi era tutto ciò che desideravano.
«Oh, dannazione! E la chiamano aria condizionata, questa qui?! Si muore di caldo, cazzo!»
Meno male che c’era Boris che, con le sue continue imprecazioni e i suoi modi grezzi, rompeva il silenzio tombale in cui Yuri e Sergej si erano chiusi durante l’attesa, l’uno per non sprecare le poche preziose energie rimaste dopo aver sudato ogni liquido del suo corpo, l’altro perché era ancora troppo stordito e amareggiato da quanto accaduto. La sconfitta definitiva di quel bastardo di Vorkov sarebbe dovuta bastare, se non a rallegrarlo, almeno a tranquillizzarlo, e certamente poteva ritenersi soddisfatto; tuttavia i retroscena erano stati molto pesanti e sofferti: gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo per digerire e metabolizzare tutto.
«Ma sì, cosa cazzo mi aspetto da un popolo che mangia con due bastoncini? Come diavolo si fa a pensare di mangiare con quei cosi lì?! Non potevano fare come tutte le persone normali del resto del mondo che…».
«Boris, chiudi quella fogna».
Il platinato rimase con la bocca aperta e delle parole morte in gola; con espressione corrucciata, guardava un Sergej esasperato e sfinito che, tenendosi il capo fra le grosse mani, gli aveva appena intimato di tacere. Il gigante dei NeoBorg raramente si lasciava andare ad ordini così perentori. Quando succedeva, comunque, era meglio per tutti obbedire.
Boris tirò verso di sé il suo borsone e subito dopo vi appoggiò sopra i piedi, con modi tanto aggraziati da far voltare i presenti vicino a loro, anch’essi in attesa. Ovviamente il ragazzo dagli occhi smeraldini non commentò col suo classico “che cazzo vogliono?” solo perché, a quel punto, doveva ammettere di temere almeno un po’ l’ira del suo enorme compagno.
Per la gioia di Sergej, che sopportava le lamentele di Boris su qualsiasi cosa o evento sin dalla prima mattina, finalmente calò il silenzio fra quei tre ragazzi russi che emanavano sofferenza e sfinimento da ogni poro della pelle. Tutti e tre abbandonati su delle scomode sedie di fronte al gate che presto si sarebbe aperto per accoglierli sul loro adorato aereo, i loro borsoni a terra come il loro umore, le mani che ora giocavano con la cerniera di un cappotto e ora venivano passate sulla nuca per asciugare il sudore che grondava copioso.
Un paio di mani, invece, si mosse all’improvviso con un intento preciso. Yuri sgranò d’un tratto i suoi occhi spenti e iniziò a rovistare freneticamente nelle tasche della sua giacca bianca e arancione. In quella sinistra trovò l’oggetto che stava cercando e subito lo afferrò e se lo portò davanti agli occhi, per poi mostrarlo al compagno sbuffante dai capelli grigi di fianco a lui.
«Oh, Borja, non ti ho ancora ringraziato per questo», disse con un tono di voce che suonava quasi dolce, ma che in verità era in gran parte il risultato della stanchezza psicologica. «Oserei dire che è stato molto carino da parte tua», concluse infine, lanciando un’occhiata beffarda e sarcastica ad un Boris più che mai confuso e basito, sulla cui faccia si stava già alzando un sopracciglio.
«Eh? Ma cos…»
Nella mani di Yuri veniva continuamente rigirato un beyblade color arancione, che sembrava proprio essere nuovo di pacca.
«Non so chi ti abbia detto dei gravissimi danni che ha subìto Wolborg nella sfida contro Garland, ma non importa. Procurarmi un altro beyblade per ogni evenienza è stato… carino, da parte tua. Accettalo».
«Yura, ma che cazzo stai dicendo?!» fu l’unica risposta che Boris riuscì a dargli, scandendo bene ogni singola parola.
«Avanti, Borja, non essere timido, anche se so che certi discorsi non fanno per te» lo canzonò il capitano, ghignando come ai vecchi tempi, e quindi proseguire continuando a rigirare quel beyblade arancione fra le mani e senza attendere ulteriori reazioni: «Devo dire che è un ottimo beyblade, assemblato con componenti all’avanguardia difficilmente reperibili sul mercato. Non so come tu abbia fatto ad averlo. Credo che lo smonterò e utilizzerò qualche pezzo per i ricambi di Wol...»
«Yuri, cazzo, aspetta un momento!», lo interruppe al limite della pazienza il suo interlocutore, facendo voltare Sergej già pronto con l’ennesimo ordine di tacere che però trattenne all’ultimo, quando vide gli occhi di Yuri fissare interrogativi e scocciati quelli verdi di Boris, in cerca di spiegazioni che non tardarono affatto ad arrivare: «Credimi, Yura, non so di cosa tu stia parlando. Devi averla battuta per bene, la testa».
Il rosso scosse il capo e sorrise un poco, prima di allungare il nuovo beyblade in direzione del compagno argenteo e indicargli con il dito una “H” scritta in rosso nella zona del bit-chip.
«Ripeto: avanti, Borja, o meglio Huznestov. Non essere timido».
Ci vollero pochissimi secondi perché Boris, dopo aver sgranato gli occhi, scoppiasse in una fragorosa risata che, per la seconda volta, fece voltare i presenti attorno a loro. Qualche gomitata da parte di Sergej lo costrinse a rinsavire, ma fu molto difficile per lui, che aveva già le lacrime agli occhi.
«No no no, fammi capire: pensi che io ti abbia fatto un regalo che per di più possa sostituire il tuo Wolborg? Io?!», chiese con fare quasi da donna isterica, agitando le braccia a destra e a manca. «Avanti tu, Yura! Io non c’entro un bel niente con quell’affare! Ti pare poi che potessi scegliere un colore tanto di merda?! Senza offesa per la tua giacca, s’intende, eh».
Rise ancora per un po’, mentre Yuri ritraeva la sua mano, indeciso se essere offeso o se passare direttamente alla fase in cui prendeva a farsi domande su domande per tentare di capire cosa ci fosse dietro a quel beyblade, senza perdere tempo.
Ricominciò a girarselo fra le mani, ad osservarlo bene, senza più dire una sola parola. Proprio non riusciva a venirne a capo.
«Magari ti è stato lasciato dalla squadra americana o dal ragazzino che fa il tecnico nella squadra di Takao, data la sua peculiarità. Non è un pezzo da negozio, è studiato», ipotizzò Sergej, pacato come suo solito, suggerendo in effetti l’ipotesi che sembrava essere più plausibile.
Tuttavia di una mera ipotesi si trattava, e certamente Yuri mai avrebbe contattato Takao per avere delle conferme – era ancora troppo presto per i suoi nervi per sostenere un terzo grado in perfetto stile chiacchierone-Kinomiya, e poi, francamente, non gli importava molto di quelle conferme.
«Ma perché mai lasciarmelo? Perché avrebbero dovuto farlo?», chiese a se stesso ma ad alta voce.
«E chi lo sa?», ribatté subito Boris alzando le spalle strafottente, «mi sembra che sul vocabolario questa roba qui si chiami gentilezza, o carineria… bah. E poi lo sai ‘sti giapponesi come sono fatti».
Yuri lo fulminò con lo sguardo e digrignò il denti.
«A ripesarci, non puoi essere stato tu, dunque. No di certo», sussurrò, ottenendo di risposta un’altra odiosa alzata di spalle, che lo convinse a smetterla di dar retta a quel caprone che aveva seduto di fianco, perché tanto un discorso sensato non glielo avrebbe mai tirato fuori.
Riprese a fissare quel beyblade, silente.
“H”.
Quella lettera era l’enigma più grande. Istintivamente aveva pensato che significasse “Huznestov”, ma era appena stato smentito. Forse semplicemente si trattava di un “H” in alfabeto cirillico, anche se questo, a dire il vero, non risolveva un bel niente, e inoltre dovette scartare subito quella ipotesi, dal momento che gli allegri giapponesi e compagnia non conoscevano quell’alfabeto. Si trattava perciò indubbiamente di una lettera dell’alfabeto latino.
“H”.
Scritta a biro sul bit-chip, quindi non poteva essere una lettera priva di senso, messa lì a caso.
“H”.
Se non era Huznestov, chi o cosa poteva essere? Che cosa caspita stava a significare?
“H”.
Scritta a biro con inchiostro rosso sul bit-chip di un bey arancione dalle squisite fattezze tecniche, degne di un professionista che col beyblade ci sapeva fare, e lasciato al suo fianco nel silenzio.
Rosso e arancione.
«Ma certo!», esclamò all’improvviso, stringendo l’oggetto così forte nella sua mano da provocarsi dolore fisico.
Boris e Sergej si voltarono verso il loro capitano all’unisono, rimanendo quasi scioccati da quegli occhi ametista che si erano fatti lucidi. Yuri fremeva lievemente, la sua bocca si era piegata in un sorriso sereno e sincero; era probabilmente ovunque, con la sua mente, magari sulle nuvole, ma di certo non lì con loro.
Ed in effetti, Yuri con la sua mente era uscito dall’aeroporto e si trovava ora sotto il sole cocente di Tokyo, che lo guardava dall’alto proprio come quella persona sulla cima di un’alta roccia aveva guardato lui, pochi giorni addietro, mentre gli regalava la sua attenzione e un suo debole sorriso. Quel sole prepotente e scottante, proprio come il suo fuoco, che i colori di quel beyblade volevano ricordargli: arancione e rosso, i colori delle fiamme della sua passione e della sua grinta; i colori dell’anima del suo stesso beyblade.
Lo sapeva, Yuri. In fondo, nel suo cuore, lo aveva sempre saputo.
“H”.
“H” di fuoco, di fiamme, di passione.
Avvicinò la mano che stringeva fino allo spasmo quello che era appena diventato un oggetto preziosissimo al suo cuore, sentendosi finalmente sollevato dalla sua agonia e dalle sue battaglie, perché lui c’era.
«Hiwatari».

 

   
 
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