Ciao
a tutti! Sopravvissuta a un’interrogazione di filosofia da spararsi,
stamattina, (mi sento di condividerlo con il mondo), posto il diciassette. Noticina: l’attitude è un passo
di danza piuttosto semplice in cui la ballerina sta in equilibrio su un piede
solo, mentre l’altra gamba è piegata a 90°, e le braccia possono prendere
posizioni diverse a seconda del tipo di attitude (io
rimango più sul generico XD).
Giuly94: Ciao!! Lasciando
perdere i miei strafalcioni ortografici da far accapponare la pelle (non
rileggo praticamente mai! XD), mi fa piacere che tu non ti senta minacciata
dalla lunghezza del papiro ^^. E’ molto motivante, credimi! Spero che il
capitolo ti piaccia comunque, anche se ho rimandato l’evento che speravi, ma don’t worry, ho comunque
intenzione di inserirlo, ma credo verso la fine (perché avrà una fine, spero). Fammi
sapere cosa ne pensi, di bello e di brutto, sia chiaro!
Thsere:Ciao! Anche io me lo
immagino proprio ben messo, decisamente!! XD E ha sicuramente carattere, vedo
che comprendi bene. Non ti dico altro per non rovinare la sorpresa, ma un po’
mi spiace perché dovrai aspettare almeno ancora sette o otto capitoli prima di arrivare
a qualcosa di concreto su di lui. Fra l’altro sono tutte cose che devo ancora
scrivere e sono confusissima riguardo ai particolari! Speriamo in bene! A
presto!
Isabella19892:Ciao! sì, direi che
un seguito per quel libro scritto non si sa con quale scopo (a parte disboscare
le foreste pluviali e dare una sottospecie di fine alla saga)sarebbe
decisamente un sogno. Però va be, intanto accontentiamoci di un po’ di care vecchie insane
fanfic! XD Be comunque le
tue ipotesi sono del tutto legittime, è tutto nella norma, direi! Tu fra le due
quale preferiresti? (mi sto preparando al peggio, ovvero fuga di massa dal fan fic a causa delle mie idee scadenti XD). A presto!!
In camera mia accesi lo
stereo e scelsi dalla parete dei cd un album dei Royksopp,
strumentale: non volevo parole, ne avevo già sentite troppe quel giorno, e di
ben troppo strane. Presi dalla cabina armadio un pigiama leggero azzurro, con
il bordo di pizzo, e una vestaglia di seta blu. Avevano ancora il cartellino attaccato,
non li avevo mai visti prima. Feci scorrere l’acqua della doccia per farla
diventare bollente e mi svestii, lanciando i vestiti da qualche parte nella
camera. Restai nella doccia perdendo completamente il contatto con il tempo: mi
ero ripromessa di pensare, di ragionare, ma il costante getto della doccia,
così sereno e musicale non mi permise di fare altro che rilassarmi. Ero stanca.
Benjamin mi sfiancava, ogni volta che lo incontravo
mi capitava qualcosa di strano. E rimanevo inquietata, o forse affascinata, dai
suoi modi, perché erano quelli di un tipo di persona, di vampiro, che non avevo
mai conosciuto prima d’allora. Se da un lato mi irritava oltre ogni limite, con
i suoi giudizi, le sue frasi ermetiche e il suo autocontrollo esagerato,
dall’altro quelle stesse caratteristiche mi incuriosivano in maniera morbosa,
per il solo gusto della novità. Misi il
viso sotto il getto della doccia: ero proprio una ragazzina, per comportarmi
così. Quello stesso pensiero mi consolò, perché come i bambini presto avrei
perso ogni interesse per il nuovo giocattolo, e la presenza di Benjamin non mi avrebbe fatto alcun effetto, ne mi avrebbe
affascinata particolarmente. Uscii dalla doccia quando le punte dei
polpastrelli cominciarono ad intirinzirsi, come se
fossi stata nella vasca da bagno. Mi avvolsi in un accappatoio e mi lavai i
capelli, nella vasca da bagno: erano troppo lunghi per lavarli sotto la doccia.
Il profumo dello shampoo era buono, chimico ma delizioso. Mi attorcigliai un
asciugamano in testa a mo’ di turbante e cominciai a mettermi la maschera
all’argilla bianca, e proprio allora sentii squillare il cellulare, con la
suoneria che avevo scelto per Jacob. Il solito tempismo.
Mi pulii le mani in fretta per rispondere in tempo, ma tanto sapevo che Jacob avrebbe lasciato squillare fino a che non fosse
caduta la linea. Accorsi al cellulare, che avevo lasciato su una pila di
asciugamani: aspettavo la sua chiamata.
-Ehi, fuggitivo- Mi rilassai
all’istante: il solo pensiero di parlare con Jacob mi
rendeva serena. Sorrisi.
-Credimi non scapperei da
casa per niente al mondo-, ridacchiava. Anche lui era contento, si sentiva.
-Tutto bene alla riserva?- mi
sedetti sul bordo della vasca e cercai una posizione che non mi facesse
sporcare il cellulare con la maschera per il viso.
-Quello schifoso è scappato-
Si lasciò scappare un’imprecazione poco elegante.
-Ma come ha fatto? Eravate
tutti riuniti!- Doveva essere un tipo sveglio. I lupi erano tanti, ben
addestrati e condotti da Jake e Sam.
-E’ scappato …tra gli umani- un’altra imprecazione.
Doveva essere fuori di sé, perché di solito con me cercava di essere il più
educato e civile possibile. Per quanto gli fosse possibile, ovviamente.
-Ma come?-
-Non so, è tornato a
Vancouver. In una città non possiamo fare niente-
-Potrebbe essere un neonato?-
era strano che un vampiro tornasse nel luogo in cui si era cibato dopo così
poco tempo, soprattutto perché non avrebbe potuto continuare a sfamarsi lì,
avrebbe attirato l’attenzione.
-No...lo avremmo fregato-
sentivo la sua voce appiattita, stressata. Riuscivo a immaginarmelo passarsi
una mano sulla fronte, frustrato. Conoscevo tutti i suoi gesti alla perfezione.
E sapevo anche che da lì a un secondo avrebbe cambiato argomento e avrebbe
parlato di me.
-E tu piccola, tutto bene?-
Ci avrei giurato. Mi usci una risata
leggera e cristallina, di quelle che non ero più abituata a fare. Trasparente.
-Che c’è?- Jake era preso di sprovvista, ma sentivo che anche lui
sorrideva con me.
-Niente, ho solo immaginato
che stessi per parlare di me-
-Bè, piccola, mi sembra ovvio. Di cosa dovrei parlare,
della fauna della Micronesia?-
-Non devi tirartela perché
sai dov’è
-Dicevo, come stai? Tutto a
posto con i vecchi?- Jacob glissò l’argomento con
singolare non chalance. Scoppiai a ridere.
-Tu non sai dov’è
-Io qui tutto bene, mio padre
ha comprato il pollo fritto per stasera- anche lui rideva, cercando di trattenersi
senza risultato.
-Quando torni ti do
ripetizioni di geografia-
-Per te anche questo. Se vuoi
puoi anche farmi studiare le bandiere-
Mi faceva morire.
-Ti prendo in parola…- cercai
di assumere un tono minaccioso, ma non riuscivo a smettere di ridere. Non mi
accorsi nemmeno che Jacob aveva smesso di parlare.
-Tesoro, devo andare,
scusami-
-Ma come? Di già?-
- Mi spiace, davvero.
Dobbiamo controllare la riserva…magari cercare di prenderlo alla prima
occasione. Appena prenderemo quello stronzo tornerò a
casa. Subito- Mi stava facendo una promessa. Aveva un tono grave, come un
quello di un giuramento. Ogni volta che semplicemente si impegnava nel fare
qualcosa per me, sembrava giurasse sulla sua stessa vita. Il mio cuore accelerò
la sua corsa.
-Ok, allora prendetelo-
-Certo, piccola-
-A presto, Jake-
Fui io a riattaccare. Chiusi
gli occhi e cercai di allontanarmi da ogni senso, di chiudermi in me stessa. In
quell’oscurità non avevo bisogno di niente e di
nessuno, nemmeno di Jacob. Ero sola, ma non avevo
paura. Mi smarrivo in me stessa, nel silenzio totale, fino a quando non temevo
di perdermi del tutto, alla ricerca delle risposte che non riuscivo a trovare
fuori.
Jake mi faceva spesso quell’effetto.
Per capire doveva cercare, ma non potevo sapere come. Mi rimaneva solo il
silenzio. Avevo voglia di ballare, per dimenticarmi di me, finalmente. Quando
ballavo, perdevo la percezione di ogni cosa, la realtà era solo un giocattolino di cristallo su cui danzare, volare, senza
romperlo, sempre sull’orlo dell’abisso.
Aprii gli occhi, sentii la
pelle del volto tirare: mi ero dimenticata la maschera. Andai a sciacquarmi la
faccia. Asciugandomi il viso e prendendo il pigiama accennai alcuni passi, ad
occhi chiusi. Tra una cosa e l’altra dovevo essere rimasta chiusa in bagno per
almeno un’ora, cominciavo a sentirmi oppressa tra quelle quattro mura. E avevo
anche fame. Decisi di scendere in cucina a cercare qualcosa di mangiare, o
meglio a cercare qualcosa che Esme mi avrebbe
cucinato entro trenta minuti.
Aprendo la porta del bagno,
per poco non mi prese un colpo.
Non era possibile.
Era coricato sul mio letto,
comodamente disteso con la testa sorretta da una pila di cuscini, che leggeva
il libro che avevo sul comodino. Non riuscii nemmeno a cacciare l’urlo che
avrei voluto far uscire, rimasi ferma immobile. Pietrificata dalla sorpresa.
Prima che potessi avere una qualsiasi reazione sensata, lui lasciò cadere il
libro sul petto e mi guardò, senza alcuna ombra di imbarazzo. Nemmeno se ero in
vestaglia e con un turbante in testa.
-Avevi intenzione di passarci
la giornata, là dentro?- Sembrava addirittura spazientito. Lui. Sentii il volto infiammarsi, di rabbia e
imbarazzo.
-FUORI!- Emisi un latrato
terribile, talmente forte che non se ne distingueva bene il senso. Le punte delle
orecchie in fiamme.
-Renesmee, guarda che ti partirà un embolo, prima o poi- Non ci
vedevo più: mi stava fissando serio, senza muovere un muscolo, come se fosse
seriamente preoccupato per la mia salute. Ma era solo il suo personalissimo e
frustrante modo di tormentarmi. Ma cosa ci trovava di tanto divertente?
-Esci dalla mia camera-
cercai di riprendere il controllo, chiudendo gli occhi. Almeno non avrei visto
quella faccia da schiaffi.
-Devo solo dirti una cosa- lo
sentii ribattere, e malauguratamente mi immaginai anche la sua faccia mentre lo
diceva. Perfetta, immutabile, l’espressione piena di sé. Gli occhi scuri fissi
su di me. Riaprii gli occhi: era esattamente come me lo immaginavo. Avrei
voluto dirgli qualcosa di cattivo, di particolarmente malvagio, oppure anche
solo semplicemente di uscire, ma non mi uscì un filo di voce. Non capivo come
potessi essere io in imbarazzo in un
momento come quello: se c’era qualcuno che doveva vergognarsi di qualcosa,
quello era lui, non ero stata di certo io a pedinare una persona e a
intrufolarmi in casa sua. Eppure non riuscivo a fargli niente. Mi sentii molto
impotente, come se il corpo non rispondesse ai lontani ordini del mio cervello.
Benjamin aveva approfittato della pausa per mettersi a sedere,
sempre tenendo il libro in mano. Inaspettatamente, mi rivolse un sorriso. Anche
il suo sorriso era simmetrico rispetto al viso, regolare, come se fosse stato
disegnato.
-Ti sei calmata?-
-Sì- idiota, Renesmee, dovevi dire di no! Il sorriso sul suo volto non
scomparve, solo all’insieme si aggiunse il sopracciglio alzato. Ecco perché non
dovevo dire che mi era passata.
-Sei facile da capire. Prendi
le cose talmente di petto da non riuscire ad affrontarle. Se tu avessi fatto un
respiro e poi mi avessi detto di uscire di qui, forse avresti ottenuto di più
che mettendoti a sbraitare come una pazza. Fra l’altro non ho capito cosa hai
detto- Alzò il mento e ritolse lo sguardo. Gli venne una ruga sulla fronte. Benjamin era davvero strano, oscillava dalla totale
mancanza della più piccola reazione alle rughe.
Stupefacente.
-Senti, parla ed esci appena
hai finito. Il tono è di tuo gradimento?- cercai di essere la più distaccata
possibile. Per certi versi mi sforzai di imitarlo, ma riuscii solamente a
sembrare un po’ imbarazzata.
-Molto carino. Femminile-
sorrise, gli occhi leggermente socchiusi. Chissà a che diavolo stava pensando.
Inspirai, senza muovermi.
-Puoi anche avvicinarti,
sai?- Benjamin mi osservava preoccupato, o forse solo
sorpreso dal mio comportamento, come se non riuscisse ad afferrare la ragione
del mio imbarazzo. Insomma, avevo uno sconosciuto in camera, e mi presentavo in
pigiama e con un turbante in testa. Non mi sentivo propriamente a mio agio.
-Non do corda agli
sconosciuti- incrociai le braccia e strinsi le labbra.
-Giusto- alzò una mano e fece
cenni di sì con la testa -ma tu mi conosci-
-Non credo, davvero- aveva un
concetto di conoscenza abbastanza lato, il ragazzo.
-Come vuoi- non sembrava che
gliene importasse un gran che, stava frugando nelle tasche dei pantaloni e non
mi guardava nemmeno. Fui io ad inarcare il sopracciglio. Mi irritava che prima
facesse di tutto per cercare lo scontro e poi non mi ascoltasse nemmeno,
probabilmente perché nessuno in vita mia era mai stato tanto distratto in mia presenza. Mi sentivo di
vetro, un oggetto semi trasparente, in cui la luce passava attraverso e non si
rifletteva del tutto.
Benjamin estrasse dalle tasche un pacchetto di sigarette e un
accendino. Rimasi di sasso: mai sentito parlare di vampiri fumatori. Posò una
sigaretta sulle labbra.
-Posso?-
Alzai le spalle.
Lui si alzò dal letto con uno
scatto ben calibrato, in un unico movimento fluido, e andò alla porta finestra.
La aprì e uscì sul piccolo terrazzo della camera. Io rimasi lì, in camera,
senza sapere bene cosa fare. Prima mi faceva prendere un colpo, poi se ne
andava per i fatti suoi: una logica inattaccabile. Uscii anche io,
contrariamente a qualsiasi previsione razionale. A fare cosa non lo sapevo
nemmeno io. Avevo anche i capelli bagnati, mi sarei presa il mal di gola.
Benjamin aveva una mano appoggiata sul parapetto della
terrazza, girato di spalle. Rimasi sulla soglia.
-Guarda che i vampiri non
fumano-
-E come lo sai?- si voltò a
guardarmi, sorridendo, lieve. Ma si vedeva dagli occhi che era soddisfatto,
probabilmente perché lo avevo seguito. Ma non potevo farci niente se mi
incuriosiva. Per ora.
-Non ne ho mai visto uno che
avesse bisogno di fumare- lo guardai di
sbieco.
-Ma non ne ho alcun bisogno,
infatti- si voltò, portando alla bocca
la sigaretta e facendo cadere la cenere sul tetto.
-E allora perché fumi?-
-Sana abitudine umana. Tanto
non può farmi niente- prese un’altra boccata profonda.
-Abitudine umana?- ero
stupita. Non avrei mai associato Benjamin al concetto
di umano, a dir la verità non riuscivo nemmeno a figurarmelo prima di essere
quel che era.
-Se non facciamo qualcosa che
ci ricorda di essere stati umani finiremmo per vivere nudi nelle foreste.
Perché credi che tuo padre suoni il pianoforte? O che tua madre rilegga dei
libri che ormai conosce a memoria?-
-Perché gli piace?- ero
totalmente scettica. Mi sembrava un discorso esagerato. E non riuscivo nemmeno
a vedere la sua espressione, era rimasto di spalle.
-Perché gli piaceva-
Silenzio.
L’aria fresca e umida
preannunciava la pioggia di quella notte. L’inizio dell’infinita pioggia
autunnale della penisola olimpica. Detestavo quel posto, mi piaceva il sole. A
volte fantasticavo di essere una ragazzina umana di San Diego. O Venice. O New Port. Mi vedevo al
sole d’estate, la pelle bronzea, un po’ scottata, con una tavola da surf. E
invece ero là fuori, con un vampiro depresso ad aspettare la pioggia.
-Loro sono quello che sono.
Non hanno bisogno di ricordarsi chi erano-
-Certo che ne hanno bisogno.
Non puoi capire- la sigaretta era finita, lanciò il mozzicone nel prato. Mi
faceva incazzare il fatto che Benjamin
mi considerasse una perdente in qualsiasi cosa, che fosse la danza o il solo
afferrare un concetto.
-Certo che posso capire-
-Non sei come noi- Benjamin assunse un tono grave, basso, difficile da sentire
con precisione. Feci un passo avanti. Ancora silenzio. Lui prese un’altra
sigaretta e la accese, lentamente. Ora che lo notavo, sembrava davvero più un
rito che un bisogno. Si voltò lentamente, e senza dire niente si limitò a
guardarmi prendendo una boccata di tanto in tanto.
-Sai che sei a metà tra Humphrey Bogart e Marlon Brando?- mi veniva da sorridere: mi sembrava di
essere nella cara vecchia Hollywood dei tempi d’oro. Benjamin
rise, i lineamenti si rilassarono. Quando si lasciava andare sembrava quasi
vero, la sua bellezza selvaggia si calmava, e gli spettri dei suoi occhi
scomparivano. Dimenticai che si era intrufolato in camera mia, che aveva detto
che ero brutta e che mi aveva pedinata. Come negargli un sorriso?
-Dovrebbe essere un
complimento?-
-E’ una piccola nota- mi strinsi nelle spalle, per
proteggermi.
-Ah, certo- buttò il
mozzicone della seconda sigaretta dietro di sé.
E fu di nuovo silenzio. Ma
non ero imbarazzata, mi sembrava assolutamente normale rimanere a fissarlo
senza dire una parola, e mi sembrava più che normale che anche lui facesse lo
stesso. Non riuscivo nemmeno a stupirmi del mio comportamento, nemmeno a
ricordare che cinque minuti prima gli avevo urlato di togliersi dai piedi.
-Renesmee, io vado- la sua espressione non cambiò di molto, non
ritornò la scultura che era. Il cambiamento mi affascinava.
-Perché?- in realtà forse
avrei dovuto dire “dove”, ma non mi parve di aver fatto un grande errore.
Lui sorrise, ma non fece
niente di tutto ciò che avrei pensato potesse fare, prendermi in giro o
inarcare il sopracciglio.
-Vado a caccia-
-Ah-
Ero un po’ sorpresa: non era
in stile Benjamin uscire di scena per qualcosa di
così banale. Senza accorgermene mi ero messa ad arrotolarmi un boccolo con un
dito.
-Però prima devo chiederti
una cosa- si avvicinò di un paio di passi, silenzioso come un soffio, con un
movimento talmente veloce da essermi quasi impercettibile. Sapevo che non se ne
sarebbe mai andato così. Incrociai le braccia, come una protezione. Ero pronta
a tutto, a qualsiasi tipo di offesa: l’atmosfera serena e pacata di poco prima
era già andata in frantumi, sentivo di nuovo i nervi fremere. Renesmee, tu lo sai che ha ragione. Se non ti rilassi ti
scoppierà una vena in testa, una volta o l’altra.
Benjamin sorrideva di sbieco, pienamente conscio del suo
potere, della sua capacità di zittire chiunque con un gesto. Lo fissavo in
tutta la sua lontana magnificenza, e d’un tratto capii cosa me lo rendeva
ostile.
L’invidia.
Era ciò che non riuscivo ad
essere, ciò che non potevo essere. Un
vampiro, nella pienezza del significato: mi mancava qualcosa per essere come
lui, e non potevo averla in alcun modo. Una parte di me non andava, era quello
il problema. Mi morsi il labbro, frustrata: detestarlo senza motivo era stato
terribile e mi aveva fatta sentire in colpa, ma invidiare Benjamin era una delle
sensazioni più sgradevoli che avessi mai provato. Potevo essere così
miserabile. Era avvilente.
Lui non sembrò nemmeno
accorgersi del mio silenzioso conflitto, ma d’altronde era un attore talmente
bravo che avrebbe potuto tranquillamente fingere. Sentivo il suo odore, la sua
scia fredda e avvolgente. Di vampiro.
-Renesmee-
E sentivo la sua voce,
assoluta, distante. Non avrei mai potuto avere una voce così. Strinsi impercettibilmente i pugni, nascosti tra le pieghe
della vestaglia.
-Devo farmi perdonare-
Il mio cervello mi intimava
di chiedermi che cazzo stesse dicendo quell’ energumeno, le mie sensazioni avrebbero voluto prenderlo
a schiaffi per il solo gusto di farlo. Mi limitai ad un’espressione stupita
stampata sulla faccia, fortunatamente.
Benjamin piegò la testa, incuriosito e, ovviamente alzando il
sopracciglio, rise piano. Sembrava più uno sbuffo che una risata, in realtà.
-Strano, non mi hai ancora
detto che sono un idiota. A questo punto me lo aspettavo-
-Scusami. Sei un idiota-
-Perfetto, sono più
tranquillo- trasse un sospiro di sollievo, ovviamente intriso di malsana
ironia. Mi squadrava dall’alto in basso, sorpreso quanto me della mia assoluta
mancanza di emozioni. Non avevo detto “idiota” con la solita enfasi e la solita
convinzione, sembravo più una doppiatrice stanca. Cercai di superare quel
momento di silenzio. Mi sentivo scoperta.
-Dicevi?-
Benjamin ritornò improvvisamente serio, dal suo viso scomparve
ogni traccia di ironia, senza un motivo apparente. Era grave, concentrato: non
in senso ostile, come avevo visto prima, ma solo molto riflessivo. Come se stesse soppesando troppi pensieri troppo
velocemente.
-Insomma volevo farmi
perdonare-
-Fino a qui c’eravamo, Benjamin- corrugai la fronte, dubbiosa, mentre lui volgeva
lo sguardo altrove, sbuffando. Non che sembrasse scocciato: più che altro
confuso.
-Compri una vocale?- stavo
cominciando a rompermi, e i capelli bagnati mi facevano freddo, volevo
rientrare.
-Ti va di venire a caccia con
me, domani?-
Parlò con incredibile non chalance. Benjamin aveva una
faccia tosta mostruosa. Scoppiai in una risata, non sapevo in che altro modo
esprimere la mia totale sorpresa. Non aveva senso.
-Scusa?- mi portai un dito
alla tempia e socchiusi gli occhi, nel tentativo di darmi un contegno.
-Se vuoi, domani puoi venire
a caccia con me- Lui se ne restava lì, esattamente come prima, senza muovere un
muscolo, ignorando completamente la mia reazione, chissà se perché gli era
totalmente indifferente o perché preferiva non scoprirsi troppo. Non mi
sembrava nemmeno reale, la voce non poteva uscire da quella cosa, da quella proiezione.
-E dovresti farti perdonare?-
-In realtà il premio sarebbe
un giro in moto. Una di quelle che tu non hai distrutto, ovviamente- la
presenza del classico sopracciglio alzato un po’ mi rassicurò, perché tutto il
resto della situazione non era per nulla normale. Stavo cominciando ad
arrotolarmi un boccolo piuttosto freneticamente.
-Tu non sei mai andata in
moto, giusto?-
-Come cazzo
fai a dirlo?- Suvvia Renesmee, va bene mostrarsi
decisi, ma sfociare nel turpiloquio era decisamente una caduta di stile.
-Se fossi già andata in moto
ti sarebbe piaciuto, e se ti fosse piaciuto non avresti mai avuto il cuore di
distruggere una Honda ultimo modello- si strinse
nelle spalle, con aria distratta. Mi sembrava Doctor
House, con quella spiegazione idiota.
-E il premio sarebbe un giro
in moto-
-Esattamente-
Benjamin se ne restava serio e zitto di fronte a me, talmente
immobile da farmi pensare che la conversazione pazzesca a cui avevo appena
preso parte non era altro che frutto della mia immaginazione. Studiai il suo
volto, alla disperata ricerca di un segno, di un appiglio che mi aiutasse a
capire. Ma nemmeno dagli occhi potevo concludere qualcosa, la mia ricerca era
inutile: quelle cavità cupe non riuscivano a trasmettermi niente. Tranne la
paura, l’ansia, la tensione della preda.
Inaspettatamente, il mio
cervello era spento.
Esistevano solo le
sensazioni.
E una parte di me non trovò
nessuno tra le migliaia di motivi validi per rifiutare.
Forse la mia vita sarebbe
stata diversa, se avessi rifiutato, o magari no.
Soltanto rimasi in piedi,
zitta, a fissare i suoi occhi. Dopo un po’ mi parve che in realtà quel nero non
fosse compatto, ma si muovesse minaccioso come il mare di notte. Un’onda sopra
l’altra, all’infinito. Non erano come i miei occhi, profondi ed espressivi.
Erano così lontani, infiniti, come un buco nero, l’apertura per chissà quale
universo.
La mia bocca si mosse.
-Va bene-
Anche la sua si mosse. Diceva
qualcosa di gentile, stranamente. Ebbi la percezione imperfetta che stesse
sorridendo, ma in realtà stavo ancora nei suoi occhi. Avrei voluto sprofondare,
nuotare in quel nero per sempre, senza che esistesse una cosa futile e sciocca
come il tempo, o i legami, o il mondo o tutto il resto delle cose che non
fossero un mare nero e profondo.
-A domani, allora-
-Niente partita?-
-Niente. A domani, Renesmee-
Benjamin davanti a me, un’ombra lontana, appena abbozzata.
Adesso non mi faceva paura, non capivo come avesse mai potuto farmene. I suoi
occhi non erano spaventosi, erano soltanto inesplorati. Liberi, lontani. Non avrei mai avuto degli occhi così, non avrei
potuto.
Sorrideva. Non mi faceva
paura.
Gli sorrisi lievemente, le
sopracciglia leggermente inarcate. Sorridevo tra me, più che a lui.
Benajamin se ne andò voltandomi le spalle, lasciandosi cadere a
terra dal terrazzo con un balzo agile. Mi parve che non corse via all’istante,
ma che per un momento rimase lì fermo, esattamente ai piedi del terrazzo,
dov’era caduto. Eravamo entrambi rimasti immobili, nello stesso momento. Poi
lui se ne andò, in un soffio, e io chiusi gli occhi.
Cosa ti succede, Renesmee?
Anche mettendomi a ballare,
sola, con addosso una vestaglia e un asciugamano avvolto in testa, sul terrazzo
della mia camera, non riuscivo a non pormi quella domanda.
Cosa mi succedeva?
I miei muscoli lavoravano,
veloci e leggeri, seguendo note che passavano nella mia testa. Ma io pensavo, e
chiedevo, e pensavo, e mi veniva da piangere.
Perché non lo avevo
semplicemente mandato al diavolo? Era Benjamin, ed
era insopportabile.
Perché dovevo sempre guardare
i suoi occhi?
Non avrei potuto fare come la
prima volta che lo avevo visto, semplicemente ignorarli?
Non potevo fare come ieri?
Conclusi la mia danza con un attitude, e rimasi tesa, immobile. Rilassai i muscoli
piano, gradatamente, con quella lentezza che avrei voluto dare ai miei
pensieri. Entrai in camera, e mi sedetti sul letto. C’era ancora lì appoggiato
sul letto il libro che stava leggendo, o meglio quello che io stavo leggendo e
che avevo appoggiato sul comodino. Era ancora 1981, di Orwell. Non avevo avuto il tempo
di finirlo, in quei due giorni. Prendendo il libro tra le mani, ebbi
l’impressione di potermi vedere. Era come vivere un film. Mi sentivo talmente
nuova a me stessa da sentire il bisogno di dissociarmi, di rendermi
indipendente. E mentre una parte di me fuggiva, un’altra rimaneva lì, seduta su
quel letto con un libro tra le mani, a cercare di capire cosa era appena
successo.
Mi lasciai cadere sul letto,
esausta.