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Autore: theSwamp    22/04/2009    2 recensioni
Renesmee è cresciuta, e della bambina deliziosa che incantava chiunque è rimasto davvero poco, rimane solo una ragazza costretta a vivere una vita sul filo di due mondi totalmente diversi. E arriverà il momento in cui dovrà capire quale sia il vero significato dell'amore.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Renesmee Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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In camera mia accesi lo stereo e scelsi dalla parete dei cd un album dei Royksopp, strumentale: non volevo parole, ne avevo già sentite troppe quel giorno, e di ben troppo strane

Ciao a tutti! Sopravvissuta a un’interrogazione di filosofia da spararsi, stamattina, (mi sento di condividerlo con il mondo), posto il diciassette. Noticina: l’attitude è un passo di danza piuttosto semplice in cui la ballerina sta in equilibrio su un piede solo, mentre l’altra gamba è piegata a 90°, e le braccia possono prendere posizioni diverse a seconda del tipo di attitude (io rimango più sul generico XD).

Giuly94: Ciao!! Lasciando perdere i miei strafalcioni ortografici da far accapponare la pelle (non rileggo praticamente mai! XD), mi fa piacere che tu non ti senta minacciata dalla lunghezza del papiro ^^. E’ molto motivante, credimi! Spero che il capitolo ti piaccia comunque, anche se ho rimandato l’evento che speravi, ma don’t worry, ho comunque intenzione di inserirlo, ma credo verso la fine (perché avrà una fine, spero). Fammi sapere cosa ne pensi, di bello e di brutto, sia chiaro!

Thsere:Ciao! Anche io me lo immagino proprio ben messo, decisamente!! XD E ha sicuramente carattere, vedo che comprendi bene. Non ti dico altro per non rovinare la sorpresa, ma un po’ mi spiace perché dovrai aspettare almeno ancora sette o otto capitoli prima di arrivare a qualcosa di concreto su di lui. Fra l’altro sono tutte cose che devo ancora scrivere e sono confusissima riguardo ai particolari! Speriamo in bene! A presto!

Isabella19892:Ciao! sì, direi che un seguito per quel libro scritto non si sa con quale scopo (a parte disboscare le foreste pluviali e dare una sottospecie di fine alla saga)sarebbe decisamente un sogno.  Però va be, intanto accontentiamoci di un po’ di care vecchie insane fanfic! XD Be comunque le tue ipotesi sono del tutto legittime, è tutto nella norma, direi! Tu fra le due quale preferiresti? (mi sto preparando al peggio, ovvero fuga di massa dal fan fic a causa delle mie idee scadenti XD). A presto!!

 

 

 

In camera mia accesi lo stereo e scelsi dalla parete dei cd un album dei Royksopp, strumentale: non volevo parole, ne avevo già sentite troppe quel giorno, e di ben troppo strane. Presi dalla cabina armadio un pigiama leggero azzurro, con il bordo di pizzo, e una vestaglia di seta blu. Avevano ancora il cartellino attaccato, non li avevo mai visti prima. Feci scorrere l’acqua della doccia per farla diventare bollente e mi svestii, lanciando i vestiti da qualche parte nella camera. Restai nella doccia perdendo completamente il contatto con il tempo: mi ero ripromessa di pensare, di ragionare, ma il costante getto della doccia, così sereno e musicale non mi permise di fare altro che rilassarmi. Ero stanca. Benjamin mi sfiancava, ogni volta che lo incontravo mi capitava qualcosa di strano. E rimanevo inquietata, o forse affascinata, dai suoi modi, perché erano quelli di un tipo di persona, di vampiro, che non avevo mai conosciuto prima d’allora. Se da un lato mi irritava oltre ogni limite, con i suoi giudizi, le sue frasi ermetiche e il suo autocontrollo esagerato, dall’altro quelle stesse caratteristiche mi incuriosivano in maniera morbosa, per il solo gusto della novità.  Misi il viso sotto il getto della doccia: ero proprio una ragazzina, per comportarmi così. Quello stesso pensiero mi consolò, perché come i bambini presto avrei perso ogni interesse per il nuovo giocattolo, e la presenza di Benjamin non mi avrebbe fatto alcun effetto, ne mi avrebbe affascinata particolarmente. Uscii dalla doccia quando le punte dei polpastrelli cominciarono ad intirinzirsi, come se fossi stata nella vasca da bagno. Mi avvolsi in un accappatoio e mi lavai i capelli, nella vasca da bagno: erano troppo lunghi per lavarli sotto la doccia. Il profumo dello shampoo era buono, chimico ma delizioso. Mi attorcigliai un asciugamano in testa a mo’ di turbante e cominciai a mettermi la maschera all’argilla bianca, e proprio allora sentii squillare il cellulare, con la suoneria che avevo scelto per Jacob. Il solito tempismo. Mi pulii le mani in fretta per rispondere in tempo, ma tanto sapevo che Jacob avrebbe lasciato squillare fino a che non fosse caduta la linea. Accorsi al cellulare, che avevo lasciato su una pila di asciugamani: aspettavo la sua chiamata.

-Ehi, fuggitivo- Mi rilassai all’istante: il solo pensiero di parlare con Jacob mi rendeva serena. Sorrisi.

-Credimi non scapperei da casa per niente al mondo-, ridacchiava. Anche lui era contento, si sentiva.

-Tutto bene alla riserva?- mi sedetti sul bordo della vasca e cercai una posizione che non mi facesse sporcare il cellulare con la maschera per il viso.

-Quello schifoso è scappato- Si lasciò scappare un’imprecazione poco elegante.

-Ma come ha fatto? Eravate tutti riuniti!- Doveva essere un tipo sveglio. I lupi erano tanti, ben addestrati e condotti da Jake e Sam.

-E’ scappato …tra gli umani- un’altra imprecazione. Doveva essere fuori di sé, perché di solito con me cercava di essere il più educato e civile possibile. Per quanto gli fosse possibile, ovviamente.

-Ma come?-

-Non so, è tornato a Vancouver. In una città non possiamo fare niente-

-Potrebbe essere un neonato?- era strano che un vampiro tornasse nel luogo in cui si era cibato dopo così poco tempo, soprattutto perché non avrebbe potuto continuare a sfamarsi lì, avrebbe attirato l’attenzione.

-No...lo avremmo fregato- sentivo la sua voce appiattita, stressata. Riuscivo a immaginarmelo passarsi una mano sulla fronte, frustrato. Conoscevo tutti i suoi gesti alla perfezione. E sapevo anche che da lì a un secondo avrebbe cambiato argomento e avrebbe parlato di me.

-E tu piccola, tutto bene?- Ci avrei giurato. Mi usci una risata leggera e cristallina, di quelle che non ero più abituata a fare. Trasparente.

-Che c’è?- Jake era preso di sprovvista, ma sentivo che anche lui sorrideva con me.

-Niente, ho solo immaginato che stessi per parlare di me-

-Bè, piccola, mi sembra ovvio. Di cosa dovrei parlare, della fauna della Micronesia?-

-Non devi tirartela perché sai dov’è la Micronesia, cretino. A proposito, dov’è?-

-Dicevo, come stai? Tutto a posto con i vecchi?- Jacob glissò l’argomento con singolare non chalance. Scoppiai a ridere.

-Tu non sai dov’è la Micronesia?-

-Io qui tutto bene, mio padre ha comprato il pollo fritto per stasera- anche lui rideva, cercando di trattenersi senza risultato.

-Quando torni ti do ripetizioni di geografia-

-Per te anche questo. Se vuoi puoi anche farmi studiare le bandiere-

Mi faceva morire.

-Ti prendo in parola…- cercai di assumere un tono minaccioso, ma non riuscivo a smettere di ridere. Non mi accorsi nemmeno che Jacob aveva smesso di parlare.

-Tesoro, devo andare, scusami-

-Ma come? Di già?-

- Mi spiace, davvero. Dobbiamo controllare la riserva…magari cercare di prenderlo alla prima occasione. Appena prenderemo quello stronzo tornerò a casa. Subito- Mi stava facendo una promessa. Aveva un tono grave, come un quello di un giuramento. Ogni volta che semplicemente si impegnava nel fare qualcosa per me, sembrava giurasse sulla sua stessa vita. Il mio cuore accelerò la sua corsa.

-Ok, allora prendetelo-

-Certo, piccola-

-A presto, Jake-

Fui io a riattaccare. Chiusi gli occhi e cercai di allontanarmi da ogni senso, di chiudermi in me stessa. In quell’oscurità non avevo bisogno di niente e di nessuno, nemmeno di Jacob. Ero sola, ma non avevo paura. Mi smarrivo in me stessa, nel silenzio totale, fino a quando non temevo di perdermi del tutto, alla ricerca delle risposte che non riuscivo a trovare fuori.

Jake mi faceva spesso quell’effetto. Per capire doveva cercare, ma non potevo sapere come. Mi rimaneva solo il silenzio. Avevo voglia di ballare, per dimenticarmi di me, finalmente. Quando ballavo, perdevo la percezione di ogni cosa, la realtà era solo un giocattolino di cristallo su cui danzare, volare, senza romperlo, sempre sull’orlo dell’abisso.

Aprii gli occhi, sentii la pelle del volto tirare: mi ero dimenticata la maschera. Andai a sciacquarmi la faccia. Asciugandomi il viso e prendendo il pigiama accennai alcuni passi, ad occhi chiusi. Tra una cosa e l’altra dovevo essere rimasta chiusa in bagno per almeno un’ora, cominciavo a sentirmi oppressa tra quelle quattro mura. E avevo anche fame. Decisi di scendere in cucina a cercare qualcosa di mangiare, o meglio a cercare qualcosa che Esme mi avrebbe cucinato entro trenta minuti.

Aprendo la porta del bagno, per poco non mi prese un colpo.

Non era possibile.

Era coricato sul mio letto, comodamente disteso con la testa sorretta da una pila di cuscini, che leggeva il libro che avevo sul comodino. Non riuscii nemmeno a cacciare l’urlo che avrei voluto far uscire, rimasi ferma immobile. Pietrificata dalla sorpresa. Prima che potessi avere una qualsiasi reazione sensata, lui lasciò cadere il libro sul petto e mi guardò, senza alcuna ombra di imbarazzo. Nemmeno se ero in vestaglia e con un turbante in testa.

-Avevi intenzione di passarci la giornata, là dentro?- Sembrava addirittura spazientito. Lui. Sentii il volto infiammarsi, di rabbia e imbarazzo.

-FUORI!- Emisi un latrato terribile, talmente forte che non se ne distingueva bene il senso. Le punte delle orecchie in fiamme.

-Renesmee, guarda che ti partirà un embolo, prima o poi- Non ci vedevo più: mi stava fissando serio, senza muovere un muscolo, come se fosse seriamente preoccupato per la mia salute. Ma era solo il suo personalissimo e frustrante modo di tormentarmi. Ma cosa ci trovava di tanto divertente?

-Esci dalla mia camera- cercai di riprendere il controllo, chiudendo gli occhi. Almeno non avrei visto quella faccia da schiaffi.

-Devo solo dirti una cosa- lo sentii ribattere, e malauguratamente mi immaginai anche la sua faccia mentre lo diceva. Perfetta, immutabile, l’espressione piena di sé. Gli occhi scuri fissi su di me. Riaprii gli occhi: era esattamente come me lo immaginavo. Avrei voluto dirgli qualcosa di cattivo, di particolarmente malvagio, oppure anche solo semplicemente di uscire, ma non mi uscì un filo di voce. Non capivo come potessi essere io in imbarazzo in un momento come quello: se c’era qualcuno che doveva vergognarsi di qualcosa, quello era lui, non ero stata di certo io a pedinare una persona e a intrufolarmi in casa sua. Eppure non riuscivo a fargli niente. Mi sentii molto impotente, come se il corpo non rispondesse ai lontani ordini del mio cervello.

Benjamin aveva approfittato della pausa per mettersi a sedere, sempre tenendo il libro in mano. Inaspettatamente, mi rivolse un sorriso. Anche il suo sorriso era simmetrico rispetto al viso, regolare, come se fosse stato disegnato.

-Ti sei calmata?-

-Sì- idiota, Renesmee, dovevi dire di no! Il sorriso sul suo volto non scomparve, solo all’insieme si aggiunse il sopracciglio alzato. Ecco perché non dovevo dire che mi era passata.

-Sei facile da capire. Prendi le cose talmente di petto da non riuscire ad affrontarle. Se tu avessi fatto un respiro e poi mi avessi detto di uscire di qui, forse avresti ottenuto di più che mettendoti a sbraitare come una pazza. Fra l’altro non ho capito cosa hai detto- Alzò il mento e ritolse lo sguardo. Gli venne una ruga sulla fronte. Benjamin era davvero strano, oscillava dalla totale mancanza della più piccola reazione alle rughe. Stupefacente.

-Senti, parla ed esci appena hai finito. Il tono è di tuo gradimento?- cercai di essere la più distaccata possibile. Per certi versi mi sforzai di imitarlo, ma riuscii solamente a sembrare un po’ imbarazzata.

-Molto carino. Femminile- sorrise, gli occhi leggermente socchiusi. Chissà a che diavolo stava pensando. Inspirai, senza muovermi.

-Puoi anche avvicinarti, sai?- Benjamin mi osservava preoccupato, o forse solo sorpreso dal mio comportamento, come se non riuscisse ad afferrare la ragione del mio imbarazzo. Insomma, avevo uno sconosciuto in camera, e mi presentavo in pigiama e con un turbante in testa. Non mi sentivo propriamente a mio agio.

-Non do corda agli sconosciuti- incrociai le braccia e strinsi le labbra.

-Giusto- alzò una mano e fece cenni di sì con la testa -ma tu mi conosci-

-Non credo, davvero- aveva un concetto di conoscenza abbastanza lato, il ragazzo.

-Come vuoi- non sembrava che gliene importasse un gran che, stava frugando nelle tasche dei pantaloni e non mi guardava nemmeno. Fui io ad inarcare il sopracciglio. Mi irritava che prima facesse di tutto per cercare lo scontro e poi non mi ascoltasse nemmeno, probabilmente perché nessuno in vita mia era mai stato tanto distratto in mia presenza. Mi sentivo di vetro, un oggetto semi trasparente, in cui la luce passava attraverso e non si rifletteva del tutto.

Benjamin estrasse dalle tasche un pacchetto di sigarette e un accendino. Rimasi di sasso: mai sentito parlare di vampiri fumatori. Posò una sigaretta sulle labbra.

-Posso?-

Alzai le spalle.

Lui si alzò dal letto con uno scatto ben calibrato, in un unico movimento fluido, e andò alla porta finestra. La aprì e uscì sul piccolo terrazzo della camera. Io rimasi lì, in camera, senza sapere bene cosa fare. Prima mi faceva prendere un colpo, poi se ne andava per i fatti suoi: una logica inattaccabile. Uscii anche io, contrariamente a qualsiasi previsione razionale. A fare cosa non lo sapevo nemmeno io. Avevo anche i capelli bagnati, mi sarei presa il mal di gola.

Benjamin aveva una mano appoggiata sul parapetto della terrazza, girato di spalle. Rimasi sulla soglia.

-Guarda che i vampiri non fumano-

-E come lo sai?- si voltò a guardarmi, sorridendo, lieve. Ma si vedeva dagli occhi che era soddisfatto, probabilmente perché lo avevo seguito. Ma non potevo farci niente se mi incuriosiva. Per ora.

-Non ne ho mai visto uno che avesse bisogno di fumare-  lo guardai di sbieco.

-Ma non ne ho alcun bisogno, infatti-  si voltò, portando alla bocca la sigaretta e facendo cadere la cenere sul tetto.

-E allora perché fumi?-

-Sana abitudine umana. Tanto non può farmi niente- prese un’altra boccata profonda.

-Abitudine umana?- ero stupita. Non avrei mai associato Benjamin al concetto di umano, a dir la verità non riuscivo nemmeno a figurarmelo prima di essere quel che era.

-Se non facciamo qualcosa che ci ricorda di essere stati umani finiremmo per vivere nudi nelle foreste. Perché credi che tuo padre suoni il pianoforte? O che tua madre rilegga dei libri che ormai conosce a memoria?-

-Perché gli piace?- ero totalmente scettica. Mi sembrava un discorso esagerato. E non riuscivo nemmeno a vedere la sua espressione, era rimasto di spalle.

-Perché gli piaceva-

Silenzio.

L’aria fresca e umida preannunciava la pioggia di quella notte. L’inizio dell’infinita pioggia autunnale della penisola olimpica. Detestavo quel posto, mi piaceva il sole. A volte fantasticavo di essere una ragazzina umana di San Diego. O Venice. O New Port. Mi vedevo al sole d’estate, la pelle bronzea, un po’ scottata, con una tavola da surf. E invece ero là fuori, con un vampiro depresso ad aspettare la pioggia.

-Loro sono quello che sono. Non hanno bisogno di ricordarsi chi erano-

-Certo che ne hanno bisogno. Non puoi capire- la sigaretta era finita, lanciò il mozzicone nel prato. Mi faceva incazzare il fatto che Benjamin mi considerasse una perdente in qualsiasi cosa, che fosse la danza o il solo afferrare un concetto.

-Certo che posso capire-

-Non sei come noi- Benjamin assunse un tono grave, basso, difficile da sentire con precisione. Feci un passo avanti. Ancora silenzio. Lui prese un’altra sigaretta e la accese, lentamente. Ora che lo notavo, sembrava davvero più un rito che un bisogno. Si voltò lentamente, e senza dire niente si limitò a guardarmi prendendo una boccata di tanto in tanto.

-Sai che sei a metà tra Humphrey Bogart e Marlon Brando?- mi veniva da sorridere: mi sembrava di essere nella cara vecchia Hollywood dei tempi d’oro. Benjamin rise, i lineamenti si rilassarono. Quando si lasciava andare sembrava quasi vero, la sua bellezza selvaggia si calmava, e gli spettri dei suoi occhi scomparivano. Dimenticai che si era intrufolato in camera mia, che aveva detto che ero brutta e che mi aveva pedinata. Come negargli un sorriso?

-Dovrebbe essere un complimento?-

-E’ una piccola nota- mi strinsi nelle spalle, per proteggermi.

-Ah, certo- buttò il mozzicone della seconda sigaretta dietro di sé.

E fu di nuovo silenzio. Ma non ero imbarazzata, mi sembrava assolutamente normale rimanere a fissarlo senza dire una parola, e mi sembrava più che normale che anche lui facesse lo stesso. Non riuscivo nemmeno a stupirmi del mio comportamento, nemmeno a ricordare che cinque minuti prima gli avevo urlato di togliersi dai piedi.

-Renesmee, io vado- la sua espressione non cambiò di molto, non ritornò la scultura che era. Il cambiamento mi affascinava.

-Perché?- in realtà forse avrei dovuto dire “dove”, ma non mi parve di aver fatto un grande errore.

Lui sorrise, ma non fece niente di tutto ciò che avrei pensato potesse fare, prendermi in giro o inarcare il sopracciglio.

-Vado a caccia-

-Ah-

Ero un po’ sorpresa: non era in stile Benjamin uscire di scena per qualcosa di così banale. Senza accorgermene mi ero messa ad arrotolarmi un boccolo con un dito.

-Però prima devo chiederti una cosa- si avvicinò di un paio di passi, silenzioso come un soffio, con un movimento talmente veloce da essermi quasi impercettibile. Sapevo che non se ne sarebbe mai andato così. Incrociai le braccia, come una protezione. Ero pronta a tutto, a qualsiasi tipo di offesa: l’atmosfera serena e pacata di poco prima era già andata in frantumi, sentivo di nuovo i nervi fremere. Renesmee, tu lo sai che ha ragione. Se non ti rilassi ti scoppierà una vena in testa, una volta o l’altra.

Benjamin sorrideva di sbieco, pienamente conscio del suo potere, della sua capacità di zittire chiunque con un gesto. Lo fissavo in tutta la sua lontana magnificenza, e d’un tratto capii cosa me lo rendeva ostile.

L’invidia.

Era ciò che non riuscivo ad essere, ciò che non potevo essere. Un vampiro, nella pienezza del significato: mi mancava qualcosa per essere come lui, e non potevo averla in alcun modo. Una parte di me non andava, era quello il problema. Mi morsi il labbro, frustrata: detestarlo senza motivo era stato terribile e mi aveva fatta sentire in colpa, ma invidiare Benjamin era una delle sensazioni più sgradevoli che avessi mai provato. Potevo essere così miserabile. Era avvilente.

Lui non sembrò nemmeno accorgersi del mio silenzioso conflitto, ma d’altronde era un attore talmente bravo che avrebbe potuto tranquillamente fingere. Sentivo il suo odore, la sua scia fredda e avvolgente. Di vampiro.

-Renesmee-

E sentivo la sua voce, assoluta, distante. Non avrei mai potuto avere una voce così. Strinsi impercettibilmente i pugni, nascosti tra le pieghe della vestaglia.

-Devo farmi perdonare-

Il mio cervello mi intimava di chiedermi che cazzo stesse dicendo quell’ energumeno, le mie sensazioni avrebbero voluto prenderlo a schiaffi per il solo gusto di farlo. Mi limitai ad un’espressione stupita stampata sulla faccia, fortunatamente.

Benjamin piegò la testa, incuriosito e, ovviamente alzando il sopracciglio, rise piano. Sembrava più uno sbuffo che una risata, in realtà.

-Strano, non mi hai ancora detto che sono un idiota. A questo punto me lo aspettavo-

-Scusami. Sei un idiota-

-Perfetto, sono più tranquillo- trasse un sospiro di sollievo, ovviamente intriso di malsana ironia. Mi squadrava dall’alto in basso, sorpreso quanto me della mia assoluta mancanza di emozioni. Non avevo detto “idiota” con la solita enfasi e la solita convinzione, sembravo più una doppiatrice stanca. Cercai di superare quel momento di silenzio. Mi sentivo scoperta.

-Dicevi?-

Benjamin ritornò improvvisamente serio, dal suo viso scomparve ogni traccia di ironia, senza un motivo apparente. Era grave, concentrato: non in senso ostile, come avevo visto prima, ma solo molto riflessivo. Come se stesse soppesando troppi pensieri troppo velocemente.

-Insomma volevo farmi perdonare-

-Fino a qui c’eravamo, Benjamin- corrugai la fronte, dubbiosa, mentre lui volgeva lo sguardo altrove, sbuffando. Non che sembrasse scocciato: più che altro confuso.

-Compri una vocale?- stavo cominciando a rompermi, e i capelli bagnati mi facevano freddo, volevo rientrare.

-Ti va di venire a caccia con me, domani?-

Parlò con incredibile non chalance. Benjamin aveva una faccia tosta mostruosa. Scoppiai in una risata, non sapevo in che altro modo esprimere la mia totale sorpresa. Non aveva senso.

-Scusa?- mi portai un dito alla tempia e socchiusi gli occhi, nel tentativo di darmi un contegno.

-Se vuoi, domani puoi venire a caccia con me- Lui se ne restava lì, esattamente come prima, senza muovere un muscolo, ignorando completamente la mia reazione, chissà se perché gli era totalmente indifferente o perché preferiva non scoprirsi troppo. Non mi sembrava nemmeno reale, la voce non poteva uscire da quella cosa, da quella proiezione.

-E dovresti farti perdonare?-

-In realtà il premio sarebbe un giro in moto. Una di quelle che tu non hai distrutto, ovviamente- la presenza del classico sopracciglio alzato un po’ mi rassicurò, perché tutto il resto della situazione non era per nulla normale. Stavo cominciando ad arrotolarmi un boccolo piuttosto freneticamente.

-Tu non sei mai andata in moto, giusto?-

-Come cazzo fai a dirlo?- Suvvia Renesmee, va bene mostrarsi decisi, ma sfociare nel turpiloquio era decisamente una caduta di stile.

-Se fossi già andata in moto ti sarebbe piaciuto, e se ti fosse piaciuto non avresti mai avuto il cuore di distruggere una Honda ultimo modello- si strinse nelle spalle, con aria distratta. Mi sembrava Doctor House, con quella spiegazione idiota.

-E il premio sarebbe un giro in moto-

-Esattamente-

Benjamin se ne restava serio e zitto di fronte a me, talmente immobile da farmi pensare che la conversazione pazzesca a cui avevo appena preso parte non era altro che frutto della mia immaginazione. Studiai il suo volto, alla disperata ricerca di un segno, di un appiglio che mi aiutasse a capire. Ma nemmeno dagli occhi potevo concludere qualcosa, la mia ricerca era inutile: quelle cavità cupe non riuscivano a trasmettermi niente. Tranne la paura, l’ansia, la tensione della preda.

Inaspettatamente, il mio cervello era spento.

Esistevano solo le sensazioni.

E una parte di me non trovò nessuno tra le migliaia di motivi validi per rifiutare.

Forse la mia vita sarebbe stata diversa, se avessi rifiutato, o magari no.

Soltanto rimasi in piedi, zitta, a fissare i suoi occhi. Dopo un po’ mi parve che in realtà quel nero non fosse compatto, ma si muovesse minaccioso come il mare di notte. Un’onda sopra l’altra, all’infinito. Non erano come i miei occhi, profondi ed espressivi. Erano così lontani, infiniti, come un buco nero, l’apertura per chissà quale universo.

La mia bocca si mosse.

-Va bene-

Anche la sua si mosse. Diceva qualcosa di gentile, stranamente. Ebbi la percezione imperfetta che stesse sorridendo, ma in realtà stavo ancora nei suoi occhi. Avrei voluto sprofondare, nuotare in quel nero per sempre, senza che esistesse una cosa futile e sciocca come il tempo, o i legami, o il mondo o tutto il resto delle cose che non fossero un mare nero e profondo.

-A domani, allora-

-Niente partita?-

-Niente. A domani, Renesmee-

Benjamin davanti a me, un’ombra lontana, appena abbozzata. Adesso non mi faceva paura, non capivo come avesse mai potuto farmene. I suoi occhi non erano spaventosi, erano soltanto inesplorati. Liberi, lontani.  Non avrei mai avuto degli occhi così, non avrei potuto.

Sorrideva. Non mi faceva paura.

Gli sorrisi lievemente, le sopracciglia leggermente inarcate. Sorridevo tra me, più che a lui.

Benajamin se ne andò voltandomi le spalle, lasciandosi cadere a terra dal terrazzo con un balzo agile. Mi parve che non corse via all’istante, ma che per un momento rimase lì fermo, esattamente ai piedi del terrazzo, dov’era caduto. Eravamo entrambi rimasti immobili, nello stesso momento. Poi lui se ne andò, in un soffio, e io chiusi gli occhi.

 

Cosa ti succede, Renesmee?

 

Anche mettendomi a ballare, sola, con addosso una vestaglia e un asciugamano avvolto in testa, sul terrazzo della mia camera, non riuscivo a non pormi quella domanda.

Cosa mi succedeva?

I miei muscoli lavoravano, veloci e leggeri, seguendo note che passavano nella mia testa. Ma io pensavo, e chiedevo, e pensavo, e mi veniva da piangere.

Perché non lo avevo semplicemente mandato al diavolo? Era Benjamin, ed era insopportabile.

Perché dovevo sempre guardare i suoi occhi?

Non avrei potuto fare come la prima volta che lo avevo visto, semplicemente ignorarli?

Non potevo fare come ieri?

Conclusi la mia danza con un attitude, e rimasi tesa, immobile. Rilassai i muscoli piano, gradatamente, con quella lentezza che avrei voluto dare ai miei pensieri. Entrai in camera, e mi sedetti sul letto. C’era ancora lì appoggiato sul letto il libro che stava leggendo, o meglio quello che io stavo leggendo e che avevo appoggiato sul comodino. Era ancora 1981, di Orwell. Non avevo avuto il tempo di finirlo, in quei due giorni. Prendendo il libro tra le mani, ebbi l’impressione di potermi vedere. Era come vivere un film. Mi sentivo talmente nuova a me stessa da sentire il bisogno di dissociarmi, di rendermi indipendente. E mentre una parte di me fuggiva, un’altra rimaneva lì, seduta su quel letto con un libro tra le mani, a cercare di capire cosa era appena successo.

Mi lasciai cadere sul letto, esausta.

 

 

  
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